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Ci siamo abituati all’odio social sulle donne: il male peggiore



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Tre donne vittime di odio on line in questi giorni: la giornalista Cecilia Sala, l’ex assessora nel Comune di Lecco Alessandra Durante e Megan Kerrigan, la moglie di Andy Byron, il Ceo di Astronomer. Un tritacarne digitale che ormai calpesta sistematicamente diritti fondamentali e dignità personali su larga scala. Un problema di quest’epoca, che riguarda…

Pubblicato il 23 lug 2025

Andrea Lisi

Coordinatore Studio Legale Lisi e Presidente ANORC Professioni, direttore della rivista Digeat



donne social

Negli ultimi ultimi giorni tre donne sono state vittime di shitstorm, odio on line e cyberbullismo: la giornalista Cecilia Sala, l’ex assessora nel Comune di Lecco Alessandra Durante e Megan Kerrigan, la moglie di Andy Byron, il Ceo di Astronomer che ha dovuto dimettersi dopo la diffusione a livello mondiale della sua relazione clandestina svelata durante il concerto dei Coldplay (il caso Kiss Cam).

In modo molto diverso tutte e tre queste donne sono finite in un incredibile e disgustoso tritacarne digitale che ormai calpesta sistematicamente diritti fondamentali e dignità personali su larga scala. E tale trattamento può capitare a chiunque, perché ormai chiunque può scivolarvi dentro e da un giorno all’altro diventare vittima di pruriti e rabbia altrui.

Il caso di Cecilia Sala

La giornalista Cecilia Sala subisce e ha subito sulle varie piattaforme social nell’ultimo periodo attacchi politici, sessisti e beceri, da vari profili fake, come accade purtroppo a tanti personaggi pubblici. In particolare, ha subito un attacco da un “profilo fake”, tal “Toni Baruch” – poi rivelatosi un nickname dietro il quale si cela l’identità di un blogger filoisraeliano, con idee radicalmente diverse da quelle che la giornalista da tempo porta avanti – il quale celandosi dietro una identità non immediata, tra le altre cose, insinuava maliziosamente una sua connivenza con il regime iraniano.

Cecilia Sala attraverso veloci indagini è riuscita a risalire all’identità reale di “Toni Baruch” e ha deciso, mossa senz’altro dall’esasperazione e forse anche da un impeto di trasparenza, di difendersi direttamente (e un po’ grossolanamente) on line, disvelando platealmente l’identità dell’individuo da cui si sentiva evidentemente diffamata, esponendolo in qualche modo al giudizio del suo nutrito gruppo di follower. Agendo così, si è ritrovata doppiamente vittima in un processo sommario dal sapore kafkiano: da bullizzata è diventata una cyber bulla per aver osato svelare al mondo social il nome e cognome del blogger.

Ottenuta un’ordinanza cautelare in suo favore, tal “Toni Baruch” si vedeva (giustamente) negato in quell’ordinanza la possibilità della pubblicazione della stessa e così ha pensato bene di diffondere integralmente il testo di quel provvedimento cautelare attraverso il suo profilo.

Agendo in questo modo ha confermato platealmente le sue reali intenzioni: portare avanti surrettiziamente un preciso attacco politico finalizzato a screditare Cecilia Sala e ottenere una sua personale visibilità. Questo evidentemente perché pubblicando l’ordinanza cautelare ha consentito proprio di rendere ancora più evidente l’associazione del suo nickname con la sua identità reale che, con l’avvio di quel procedimento, si voleva impedire.

Paradossalmente, grazie alla pubblicazione dell’ordinanza scaturita proprio dalle sue doglianze circa la perdita dell’anonimato, oggi tutti sappiamo con ulteriore certezza (ed evidenza giudiziale) che Toni Baruch è senz’altro Antonio Pintér!

Quest’ultimo episodio rende davvero risibili le motivazioni contenute nell’ordinanza cautelare ottenuta in quei termini solo perché inaudita altera parte (cioè, solo perché Cecilia Sala non si è costituita in giudizio). Ora si attende un giudizio di merito più ponderato da parte del Tribunale di Milano e si spera che Cecilia Sala possa così far valere le sue ragioni, rendendo “pan per focaccia” nei confronti di Pintèr che, in effetti, sembrerebbe agire solo per danneggiarla politicamente, violando on line con sistematicità buona educazione e probabilmente anche regole del diritto e protezione dei dati personali.

Occorre anche ricordare, a onor del vero, che l’associazione tra il profilo “Toni Baruch” e l’identità di Antonio Pintèr era stata in passato confermata più volte dallo stesso Pintèr in diversi post. Ma l’occasione di screditare la giornalista era troppo ghiotta per non agire giudizialmente a tutela di una sua presunta “privacy”.

Il caso di Alessandra Durante

È andata peggio all’ex assessora del Comune di Lecco, Alessandra Durante, che qualche settimana fa ha avuto la sventura di difendere una collega assessora da attacchi rabbiosi che si portavano avanti all’interno di un gruppo social ospitato su Facebook e l’ha fatto attraverso l’anonimato concesso in questi casi, anche per evitare di sfruttare la notorietà e la sua posizione. Ma l’amministratore di tale gruppo, il sig. Paolo Trezzi, ha pensato bene di attaccarla pubblicamente proprio per quel diritto all’anonimato che il gruppo stesso consentiva, rivelando selvaggiamente a tutte e tutti la presunta gravità del comportamento social (quello dell’assessora, non il suo).

Anche in questo caso si è trattato di azione surrettizia, strisciante, per attaccare politicamente, orchestrata sempre da parte di un blogger politicamente orientato contro una donna che ha l’unica colpa di essere attiva socialmente e di fare bene. E incredibilmente, le sue dimissioni sono state accolte dal sindaco di Lecco, Mauro Gattinoni.

In particolare, uno dei due amministratori del gruppo Facebook ha svelato pubblicamente nome e cognome della persona dell’allora assessora Durante, mentre l’altro, tal Paolo Trezzi, ha pubblicato un post con tanto di screenshot che mostrava nome, cognome e foto del profilo, accompagnato da una narrazione piuttosto tendenziosa, al limite della diffamazione. Lo stesso post è poi stato ripreso, con il medesimo contenuto, da un articolo pubblicato a firma dello stesso amministratore del gruppo.

Nel post, l’amministratore ha attribuito all’ex assessora frasi mai scritte, virgolettandole e creando l’illusione che fossero state pronunciate da lei direttamente, come accade di solito per le dichiarazioni ufficiali. Questo escamotage linguistico ha contribuito a costruire una narrazione tossica e infondata, amplificata da forze politiche dell’opposizione che hanno utilizzato impropriamente il termine “cyberbullismo”, ignorando completamente il significato del termine e il reale contenuto dei messaggi.

La situazione ha così generato una vera e propria tempesta mediatica, alimentata dalla diffusione di informazioni false o distorte. Nessun organo di stampa – nemmeno tra i più autorevoli – ha avuto l’accortezza di verificare le fonti, di riportare fedelmente i 4 commenti originali o pubblicare gli screenshot integrali degli stessi, dai quali sarebbe risultato chiaro che i toni di Alessandra Durante fossero forse esasperati, ma senz’altro non insultanti. Nessuna delle parole tendenziose al centro del caso (cioè, termini come “ritardato”, “frustrato” o “analfabeta”) è effettivamente mai stata scritta dalla Durante.

Una precisazione: il “membro anonimo 582”, poi smascherato dagli amministratori del gruppo Facebook come Alessandra Durante, non è un nickname, come quello usato da Antonio Pintèr su Twitter. Nel caso di Alessandra Durante si faceva affidamento su un anonimato concesso da una funzione abilitata da Meta, titolare della piattaforma Facebook, mentre – lo si ricorda ancora – più volte il nickname “Toni Baruch” ha agito platealmente on line con l’identità di Antonio Pintèr.

In altre parole, nel caso di Alessandra Durante chi ha smascherato l’ha fatto maliziosamente e violando una riservatezza su cui lei faceva legittimo affidamento.

Inutile dire che gli attacchi ricevuti on line dall’ex assessora di Lecco sono stati incredibili e totalmente illogici in una ricostruzione dei fatti raffazzonata e alimentata dall’odio on line di una parte politica. Purtroppo i fatti sono questi. E ciò che forse è risultato inaspettato è che quella violenza non è stata arginata dal buon senso o da un’indagine giornalistica un minimo più accurata e le scuse (peraltro non indispensabili) di Alessandra Durante hanno ulteriormente alimentato ingiustificata rabbia, sino all’assurdo accoglimento delle sue (non dovute) dimissioni.

Il caso di Megan Kerrigan

Da ultimo, non si può non ricordare brevemente la notissima vicenda di cui tutti parlano ancora in questi giorni, e che ha anche portato a un’invasione di meme sui social. Faccio riferimento a quanto successo durante il concerto dei Coldplay, dove due persone comuni, Andy Byron e Kristin Cabot, sono state bersaglio di una gogna mediatica internazionale, rivoltante, scioccante. Mi riferisco ovviamente ai due amanti che si sono ritrovati in un attimo vittime di un vero e proprio massacro on line.

Si è trattato, in realtà, di una piccola e squallida vicenda, che avrebbe meritato svogliata attenzione da parte dell’azienda di appartenenza (e nelle rispettive mura domestiche), ma quanto poi è accaduto rappresenta vivacemente l’involuzione voyeuristica che viviamo, dove ormai qualsiasi intimità e/o ogni prurito finiscono per essere pubblicamente trattati con voracità e rabbia, alimentando in questo caso anche un’ostentata e bacchettona macchina del fango da parte di un plotone di (a quanto pare) irreprensibili e moralmente ineccepibili individui presenti on line su scala globale.

A farne ancor di più le spese è un’altra donna, però, che ha vissuto un incredibile incubo: Megan Kerrigan, moglie di Andy Byron, la quale ha dovuto sospendere profili social invasi da commenti e post inopportuni che hanno minato alle radici la sua riservatezza, esposta a giudizi e pruriti espressi ovunque nel mondo digitale.

Tutto sembra normale in un mondo divorato dai social

Stiamo vivendo in questi mesi un’epoca strana, dove è tutto normale.

Ci sono popoli stremati da guerre di cui si parla svogliatamente (e solo se e quando il mainstream se ne accorge e lo ritiene necessario) e ci sono poi intere giornate investite a portare alla ribalta dei social argomenti piccoli piccoli che alimentano ogni occupazione di pensiero e che (soprattutto ) consentono di ergersi a giustizieri…senza rendersi conto che in un tritacarne del genere può finirci chiunque, a maggior ragione se continuiamo bellamente a far calpestare (e calpestare noi stessi) diritti fondamentali che ci riguardano, come il diritto alla protezione dei dati personali, il diritto all’immagine, alla reputazione e, quindi, a non essere diffamati.

Purtroppo le reazioni di chi prova a ragionare, a riflettere, a riportare ordine (anche giuridico), non fanno notizia, mentre si continua più facilmente ad alimentarsi odio, il quale è anche conseguenza di profilazioni sistematiche ad opera di algoritmi “intelligenti” che operano sulle piattaforme social alle nostre spalle.

Ciò che preoccupa è che quanto accade genera assuefazione e, quindi, si risulta ormai avvezzi a tutto, a rabbia on line e a gogne da far web.

E i diritti?

Purtroppo l’argine normativo in Europa è fragile, confuso e parcellizzato in tante, troppe legislazioni, quando servirebbero invece chiarezza, consapevolezza diffusa e formazione.

In un mondo globalizzato possiamo vedere cosa accade “vicino” a noi, in Cina, dove mirabolanti tecnologie garantiscono profilazioni biometriche accurate in un sistema sociale controllato, o negli Stati Uniti, dove la mercificazione dei dati è benedetta dal mercato.

Se dovessimo piano piano perdere consapevolezza di ciò che potrebbe capitare in sistemi giuridici meno democratici del nostro, ma anzi iniziassimo a desiderarlo, in un attimo diritti e libertà fondamentali – che diamo purtroppo per scontati – potrebbero essere messi in discussione o, peggio, sfumare del tutto attraverso un battito di bit, in una irreparabile e schizofrenica dittatura digitale in cui ci ritroveremmo infilati tutti, senza alcuna cognizione e protezione.

Siamo ancora in tempo per bloccare questa angosciante involuzione social.

O almeno voglio sperarlo.

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