La parità di genere non si gioca solo nei numeri dei report internazionali, ma nelle frasi che i bambini ascoltano a casa, a scuola e in tv. Quando un nonno in una soap ribalta il copione dei ruoli domestici, apre una breccia in cui può passare un’idea diversa di normalità.
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La radice culturale del divario di genere nelle STEM
Doruk ha quattro anni e una certezza: un vero uomo non deve aiutare in casa. Lo ha sentito a scuola: aiutare è “da femmine”. Nel 22° episodio della serie turca “La forza di una donna”, Doruk si sorprende a vedere il nonno Enver che sparecchia la tavola dopo la cena. “Un uomo che non aiuta in casa è un asino”, risponde il nonno.
In un frammento di dialogo c’è già tutto: famiglia, scuola, compagni, media. C’è il modo in cui uno stereotipo entra nella testa dei bambini molto prima che arrivi un professore di matematica o una ministra a parlare di donne nelle Stem.
E c’è anche la possibilità, sempre più rara in tv, di una contronarrazione semplice e potente: un adulto che interrompe il copione tradizionale con una frase che non si dimentica. Quanta parte del divario di genere nasce prima dei banchi di scuola? Credo sia tantissima. Ma i dati dicono anche un’altra cosa, meno intuitiva. L’idea che “i maschi sono portati per la matematica” non viene dalla biologia, bensì si costruisce durante il primo anno di scuola, a contatto con aspettative, messaggi impliciti, modalità didattiche. La scuola, dunque, non è la madre dello stereotipo: è il luogo in cui prende forma visibile ciò che l’ambiente sociale ha già iniziato a scrivere.
L’immaginario che disegna la realtà: lo studio Redraw the Balance
Stereotipi disegnati (in due minuti) C’è un video che vale un seminario intero: Redraw the Balance. A 66 bambini tra i 7 e gli 11 anni chiedono di disegnare un pompiere, un chirurgo, un pilota di caccia. Sessantuno ritratti mostrano uomini, solo cinque donne. Poi entrano in classe tre professioniste in uniforme: una pompiere, una chirurga, una pilota. Lo stupore dei bambini è quasi fisico: “Ma è una donna!”. In due minuti vediamo come l’immaginario predispone la realtà: ciò che non immagini, difficilmente lo scegli; ciò che non vedi, non lo diventi.
Natura o cultura? l’emergere del gender gap in matematica
La scienza mette l’orologio al pregiudizio Alcuni mesi fa Nature ha pubblicato lo studio Rapid emergence of a maths gender gap in first grade (che ha coinvolto 2.653.082 alunne e alunni francesi seguiti nel primo anno di scuola primaria (2018–2022). Risultato: all’ingresso, maschi e femmine hanno prestazioni matematiche quasi identiche; dopo quattro mesi emerge un divario a favore dei maschi; a fine anno la forbice quadruplica.
Durante il lockdown del 2020, con la scuola sospesa, il divario cresce più lentamente. Il fattore non è l’età anagrafica (nella stessa classe ci possono essere quasi dodici mesi di differenza), ma il tempo trascorso a scuola. Tradotto: non è natura, è cultura. Non un destino biologico, ma un insieme di pratiche, sguardi, aspettative che si sommano giorno dopo giorno. A casa, a scuola, nei media.
L’ombra degli stereotipi sul lavoro e l’impatto dell’intelligenza artificiale
Dalla classe al lavoro: la lunga ombra degli stereotipi Venti anni dopo, quelle piccole differenze orientano scelte di indirizzo, poi di laurea, poi di mestiere. E quando arriva l’intelligenza artificiale, l’effetto si amplifica: secondo l’Organizzazione Internazionale del lavoro (Ilo), nei Paesi ad alto reddito la quota di ruoli femminili altamente esposti all’automazione è quasi tripla rispetto a quella maschile (circa 9,6% contro 3,5%).
Perché l’IA tocca prima di tutto le mansioni amministrative e d’ufficio, dove le donne sono sovrarappresentate per una catena lunga di scelte (e non scelte) cominciata a sette anni. In Italia, intanto, il divario occupazionale resta tra i più elevati d’Europa: meno donne al lavoro, più part time involontario, progressioni più lente. A parità di talento iniziale, il percorso si restringe.
Il “cue sociale”: perché la risposta di un nonno è più efficace di un decreto
Non è (solo) la scuola Il punto, allora, non è accusare la scuola. Doruk la frase l’ha ascoltata a scuola, ma la credibilità di quel messaggio gliel’ha data il mondo attorno: il modo in cui si organizzano i lavori di casa, i dialoghi tra adulti, i personaggi che vede in tv.
La scuola è l’ecosistema dove possiamo anticipare o correggere, ma se a casa e sui media la sceneggiatura resta quella di sempre, l’effetto educativo svanisce. Per questo la risposta del nonno – “Un uomo che non aiuta in casa è un asino” – è molto più che una battuta ironica: è un cue sociale, un segnale che ridefinisce in un istante cosa sia “normale” per un uomo.
In psicologia sociale, un cue di questo tipo funziona come un micro segnale normativo: sposta i confini del comportamento accettabile e, se proveniente da una figura autorevole o affettivamente significativa, può disattivare lo stereotipo nel momento stesso in cui si manifesta. Enver, con una sola frase, corregge la traiettoria di un pregiudizio nascente: restituisce al nipote la libertà di scegliere chi essere.
L’alleanza inedita: politiche pubbliche e industria culturale contro i cliché
E se le soap fossero più efficaci delle politiche? Provocazione, ma non troppo. Le leggi di trasparenza retributiva, i posti nido, il reskilling per i lavori esposti all’IA sono indispensabili. Tuttavia, le norme cambiano i comportamenti se prima cambiamo i copioni. Le soap, figlie minori della cultura alta, entrano ogni giorno nei salotti dove le circolari ministeriali non arrivano.
Una scena ben scritta può normalizzare in milioni di case l’idea che un uomo sparecchi e una donna piloti. Può regalare ai bambini proprio quello sguardo che mancava nei disegni di Redraw the Balance. Serve dunque una alleanza inedita: politiche pubbliche più industria culturale. Mentre recepiamo la direttiva Ue sulla pay transparency e acceleriamo gli investimenti in servizi all’infanzia, chiediamo a sceneggiatori, editori, streamer di smettere di trattare i ruoli di genere come cliché narrativi. Non moralismi, ma trame migliori: nonni che insegnano a cucinare ai nipoti maschi, madri ingegnere senza caricature, insegnanti che sbagliano e si correggono in classe, team di lavoro che decidono in modo inclusivo perché funziona meglio (e lo vediamo in scena).
Il paradosso del soft power: cosa ci insegnano le soap turche
Il paradosso del soft power: le donne che vincono nelle soap e perdono nei dati C’è un paradosso che vale la pena guardare in faccia. Le serie turche – da La forza di una donna a Terra amara – spopolano in Italia, dominando ascolti e piattaforme. Milioni di spettatrici italiane seguono ogni sera le storie di eroine forti e indipendenti, capaci di tenere insieme lavoro, maternità e dignità. Eppure, se guardiamo ai numeri, i due Paesi condividono un terreno accidentato. Nel Global Gender Gap Report 2025 del World Economic Forum, l’Italia si colloca all’85º posto su 148 Paesi, con il 70,4% del divario di genere colmato. È penultima in Europa occidentale, davanti solo a cinque Paesi dell’Est e alla Turchia.
La Turchia occupa infatti il 135º posto con appena il 63,3% del gap chiuso, e registra una delle peggiori performance mondiali nella partecipazione politica femminile (solo il 5,9% delle posizioni chiave). In sostanza, l’Italia racconta la parità più di quanto la realizzi, e la Turchia la immagina sullo schermo più di quanto la pratichi nella realtà. Questo cortocircuito rende ancora più interessante il successo internazionale delle soap turche: un prodotto culturale nato in un contesto fortemente patriarcale, ma capace di esportare figure femminili emancipate, spesso più moderne dei contesti in cui sono nate.
È una forma di soft power emancipativo: un Paese in ritardo nei dati produce immaginari di progresso che altri Paesi, più avanzati sulla carta, consumano con entusiasmo. E forse è proprio qui la chiave del loro fascino. Le soap turche parlano di cambiamento possibile in società che ancora lo negano; rappresentano la frattura tra ciò che le donne vivono e ciò che desiderano. In Italia, dove il lavoro femminile resta fragile e la presenza nelle Stem ancora limitata, quelle storie risuonano come una promessa: anche un racconto nato altrove può, per un attimo, ridisegnare la percezione del possibile.
Sei mosse per disinnescare gli stereotipi: dall’infanzia all’azienda
Sei mosse, tra salotto e banco Gli stereotipi non si cancellano con un decreto: si sciolgono un gesto alla volta, una scena alla volta, una scelta alla volta. Ecco sei piccole rivoluzioni quotidiane, dal divano di casa al banco di scuola.
– Raccontare la parità. Nei film, nelle serie, nei social: basta ruoli sempre uguali. Mostrare uomini che cucinano, donne che progettano, famiglie che condividono. È la normalità raccontata bene.
– Cambiare aria in classe. Meno gare di velocità, più lavoro di squadra. Far parlare chi di solito tace, premiare il ragionamento, non la risposta più rapida. Gli stereotipi si disinnescano anche nei compiti in classe.
– Far vedere chi c’è. Portare nelle scuole scienziate, ingegnere, ricercatrici vere. Far toccare con mano cosa significa lavorare nelle Stem. La fiducia nasce prima della scelta, non dopo.
– Riqualificare senza perdere nessuno. L’intelligenza artificiale cambierà tanti lavori, ma può anche aprirne di nuovi. Servono corsi brevi e concreti per chi rischia di restare fuori, soprattutto donne.
– Pagare in modo giusto e trasparente. Se il divario salariale supera il 5%, scatta l’allarme. Le aziende devono spiegare, correggere, rendere pubblici i progressi. La parità non è un premio: è la regola.
– Condividere il tempo. Più nidi, orari flessibili, congedi di paternità veri e non simbolici. Finché la cura resterà una faccenda privata, il lavoro delle donne sarà sempre a metà.
La forza delle storie: ridurre il gender gap riscrivendo l’immaginario
Conclusione: riscrivere la parte “Un uomo che non aiuta in casa è un asino”. Non è solo una frase che ci fa sorridere insieme al piccolo Dorok. Ma è anche un varco. Da lì passa l’idea che la forza di una donna non è la sopportazione, e la forza di un uomo non è la sottrazione. Passa la possibilità che, quando un’insegnante assegna un problema di matematica, nessuno dei due parta avvantaggiato o frenato dal copione che ha visto la sera prima in tv. Se vogliamo ridurre il gender gap nelle Stem, dobbiamo spostare l’immaginario prima di spostare gli indicatori. Le politiche sono necessarie; le storie sono irrinunciabili. E forse, sì: a volte una soap può fare, in meno di un minuto, quello che a una riforma richiede anni.








