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Il cervello nell’era digitale: come cambia per effetto del multitasking



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Il flusso costante di stimoli online spinge verso il multitasking digitale ogni 19 secondi. Questo modifica circuiti neurali, riducendo capacità attentive tradizionali ma sviluppando nuove forme di elaborazione cognitiva. Un estratto dal libro “L’algoritmo bipede – L’avvincente storia di come mente, corpo e tecnologia evolvono insieme”

Pubblicato il 22 lug 2025

Martina Ardizzi

Ricercatrice al Dipartimento di Medicina e Chirurgia, Unità di Neuroscienze, dell’Università di Parma, dove insegna Psicobiologia e Psicobiologia dell’identità di genere e dell’orientamento sessuale



intelligentizzazione dell'ia multitasking digitale ia e debito cognitivo

Per estensione e capillarità d’uso sono circa trent’anni che Internet ha iniziato a rappresentare un cambiamento sostanziale nella nicchia ecologica della nostra specie.

Il cervello e il multitasking digitale: un adattamento evolutivo

Anche in così poco tempo il nostro cervello si è adattato, innescando cambiamenti neurali e cognitivi.

[…] Parlare di attenzione e Internet, significa considerare il fenomeno del multitasking digitale, ovvero la pratica di svolgere più attività o utilizzare diversi flussi di informazioni digitali contemporaneamente o in rapida successione.

Il flusso costante di informazioni, notifiche e stimoli online sfida la nostra attenzione, spingendoci a frammentare la concentrazione tra più media e contenuti contemporaneamente.

Succede a tutti noi perché tutti noi funzioniamo nello stesso modo: per tutti i cervelli è la novità a costituire l’oggetto di interesse e attenzione; in qualsiasi contesto, il nostro cervello sarà attratto da ciò che è nuovo mentre trascurerà tutta l’informazione ridondante.

Non può di certo perdere tempo ed energie per processare ancora e ancora quello che già «sa»! Funzioniamo così e abbiamo sempre funzionato così. Il punto è che ora il contesto è mutato offrendoci una densità maggiore di novità, tutte a portata di click e collegate in una rete di connessioni virtualmente senza fine.

Il meccanismo del multitasking digitale e l’attrazione per la novità

Tipicamente, online, si passa da un contenuto all’altro in media ogni 19 secondi. Il livello di eccitazione aumenta attivando la branca simpatica del sistema nervoso autonomo prima del cambiamento di contenuto, raggiungendo un picco durante il passaggio al nuovo contenuto per poi scemare in attesa del successivo. Sono l’anticipazione e la presenza del cambiamento a stimolare l’organismo e, così facendo, la disponibilità immediata di nuove ricompense informative incentiva il multitasking mantenendolo anche a fronte di un mancato vantaggio operativo.

Effetti cognitivi del multitasking digitale: tra vulnerabilità e creatività

Inizialmente si pensava che questa pratica potesse migliorare la capacità di gestire compiti multipli. Al contrario, oggi sappiamo che le persone che praticano frequentemente il multitasking digitale faticano maggiormente a spostare l’attenzione da un compito a un altro (alternanza tra compiti). Essere abituati all’uso simultaneo di più dispositivi o passare rapidamente da una app di messaggistica a un social media mentre si guarda un video o si lavora a un documento non ci allena a essere degli agonisti del salto in lungo da un compito all’altro; anzi, ci rende più vulnerabili alle distrazioni esterne e meno capaci di mantenere l’attenzione a lungo sullo stesso oggetto (attenzione sostenuta) e di controllare volontariamente più di un compito alla volta (attenzione divisa).

Allo stesso tempo però il multitasking ci rende più capaci di integrare informazioni tra loro anche quando sono poco salienti. Alcuni recenti studi osservano come questa maggiore volatilità informativa su diversi contenuti aumenti le competenze di pensiero laterale e creatività.

Adattamenti neurali: modifiche strutturali nelle aree prefrontali

Coerentemente a questi cambiamenti cognitivi, anche le aree del nostro cervello che si occupano di gestire i processi attentivi funzionano oggi in modo diverso rispetto al passato. Il risultato più consistente è una riduzione della sostanza grigia, cioè del numero di neuroni delle regioni prefrontali destre tipicamente associate alla gestione delle distrazioni. Oltre a essere più piccole, queste regioni prefrontali devono essere attivate di più a parità di performance attentiva. In altre parole, per prestare attenzione per lo stesso tempo senza distrarci abbiamo bisogno di più sangue e di più ossigeno verso le regioni cerebrali che ci aiutano a controllare l’attenzione. Questi adattamenti, che paiono al ribasso, non sono in loro stessi negativi. È necessario uscire da una logica valutativa per abbracciarne invece una adattiva: il nostro cervello sta facendo quello che ha sempre fatto, né più né meno. Si sta adattando all’ambiente circostante e lo sta facendo per ottenere da esso il meglio. Se nel futuro – per non dire già oggi – il flusso di informazioni e le nostre mansioni intellettuali ci richiederanno sempre meno uno sforzo prolungato e sempre più una capacità integrativa e creativa, che senso avrebbe mantenere un assetto focalizzato?

Memoria transattiva e internet: dalla lista della spesa al super-strumento

Accanto all’attenzione, anche la nostra memoria è molto cambiata da quando esiste Internet. Internet agisce come un archivio globale che contiene virtualmente tutte le informazioni disponibili. E quando dico tutte, intendo tutte: una montagna di informazioni. Si è calcolato che a metà dell’Ottocento una persona di ceto medio potesse accumulare nell’arco della vita una quantità di informazioni pari a quelle contenute in una rivista settimanale odierna. […] Oggi si stima che entro i cinque anni di età un bambino europeo di ceto medio abbia virtualmente già collezionato la stessa quantità di informazioni del suo avo adulto di metà Ottocento. Se allunghiamo lo sguardo oltre l’infanzia, appare evidente che le informazioni sono troppe per il nostro cervello. Sebbene in senso teorico i bacini di memoria a lungo termine non siano limitati, i processi di codifica, immagazzinamento e consolidamento delle informazioni lo sono, eccome. Il nostro cervello semplicemente non può e non riesce a trattenere tutte le informazioni che provengono dall’esterno.

Questa esondazione informativa non è una novità, è da tempo che il flusso di informazioni eccede le nostre capacità computazionali e infatti è da tempo che l’uomo crea strumenti (cerebrali) per aiutarsi a ricordare. Questo fenomeno si chiama memoria transattiva, un meccanismo attraverso il quale gli individui delegano ad altre persone o a fonti esterne il compito di conservare informazioni. Sono strumenti per la memoria transattiva le vecchie rubriche telefoniche, le liste della spesa (a proposito, in casa manca il caffè), le foto nei nostri album di famiglia, le enciclopedie e anche Internet.

In questo catalogo Internet rappresenta una sorta di «super-strumento» che ha reso ridondanti quasi tutti gli altri strumenti di archivio e recupero di informazioni, ma che allo stesso tempo aggira l’aspetto propriamente trans-«attivo» intrinseco ad altre forme di esternalizzazione cognitiva. Esso agisce infatti come un’unica entità responsabile di conservare e recuperare praticamente tutte le informazioni fattuali, eliminando la necessità per gli individui di ricordare quali informazioni siano esternalizzate e dove si trovino esattamente. Questo porta a una situazione in cui gli individui non solo non devono più ricordare le informazioni in sé, ma neppure devono ricordarsi dove le hanno messe.

In altri termini, la preziosa lista della spesa a cui devo aggiungere il caffè la posso scrivere su un pezzo di carta o sulle note del cellulare ma sono io ad averla scritta e perciò so dove ritrovarla quando stasera vagherò tra le corsie cercando di ricordare che cosa mi mancasse in dispensa; quello che mi devo ricordare è dove sia la lista, non quello che in essa è contenuto. Con Internet non funziona così. Le informazioni sono già lì, messe lì da altri, senza che io sappia con precisione dove. Non le devo ricordare, non le devo organizzare, non devo neanche ricordarmi dove le ho messe, ma le devo saper cercare e trovare. Più che di memoria oggi abbiamo bisogno di strategie per trovare proprio quello che ci serve in modo rapido, efficace, economico e veritiero.

Riorganizzazione cerebrale: dalla memorizzazione alla ricerca strategica

Questo spostamento sta modificando significativamente il modo in cui funziona la nostra memoria e le regioni cerebrali ad essa associate. Complessivamente, le regioni temporali e medio-temporali associate alla memoria a lungo termine risultano meno attive quando viene richiesto di raccogliere informazioni da Internet rispetto a quando si consultano documentazioni materiali come enciclopedie o libri cartacei. È come se il nostro cervello, in base all’esperienza pregressa, sappia che il contenuto consultato online sarà nuovamente reperibile, mentre quello visibile su supporto cartaceo no. Perché dovrebbe spendere energie preziose per ricordare qualcosa che posso semplicemente consultare ogni volta che ne ho bisogno? Coerentemente, studi longitudinali hanno dimostrato che un training di ricerca online di soli sei giorni riduce la connettività funzionale nelle aree cerebrali coinvolte nella memoria a lungo termine, portando le persone a essere meno inclini a ricordare le informazioni autonomamente. Contemporaneamente, lo stesso training aumenta i tratti di fibra che collegano i lobi frontali, occipitali, parietali e temporali rendendo gli utenti più efficienti nei compiti di ricerca. Per il nostro cervello «il fine giustifica i mezzi»: se per ottenere lo stesso scopo non devo più memorizzare l’informazione ma saperla cercare, sarà lì che spenderò le mie energie. Ecco allora una riorganizzazione che lascia in secondo piano le regioni cerebrali più associate al consolidamento mnestico per portare invece in prima linea circuiterie più legate al controllo strategico e alla pianificazione di processi cognitivi. Viene proprio da pensare che il cervello accetti i cookies!

Confini uomo-macchina: l’illusione della conoscenza digitale

L’accessibilità praticamente costante dei contenuti e i cambiamenti nei processi mnestici hanno modificato anche la percezione dei confini uomo-macchina. Tutti noi, nessuno escluso, siamo sempre meno capaci di distinguere tra le nostre capacità, o conoscenze individuali, e quelle di Internet, con il risultato che pensiamo di sapere molto di più di quello che realmente conosciamo. Questo fenomeno è un’evoluzione high tech dell’illusione della conoscenza che ci accompagna già da molto prima di Internet. Ognuno di noi sovrastima la propria personale e indipendente conoscenza delle cose che ci sono famigliari.

Se vi chiedessi se vi ritenete capaci di descrivermi il funzionamento di una moka da caffè, la maggior parte di voi mi risponderebbe in modo affermativo pur non essendo effettivamente in grado di dettagliare il meccanismo di equilibrio di pressione che si ottiene tra caldaia e bricco e che permette alla moka di cessare il suo gorgoglio e a noi di bere il caffè. La usiamo tutti i giorni, ci è famigliare e pensiamo di conoscerla.

Possiamo ammettere di non conoscere nel dettaglio come funziona il protocollo TCP/IP ma la moka, per carità! In pratica ognuno di noi finisce per confondere la disponibilità immediata di informazioni o la familiarità d’uso con la propria conoscenza individuale. Nel caso di Internet questo comporta un’interiorizzazione erronea dei dati trovati online, come se fossero parte della nostra memoria.

Non ci possiamo fare niente e in sé non c’è nulla di male. La nostra mente e la nostra nicchia cognitiva si sono estese a includere anche i nostri strumenti tecnologici. D’altronde il pensiero e la memoria non avvengono solo «dentro la testa», ma si sviluppano attraverso le interazioni con il mondo materiale e oggi nel nostro mondo materiale esiste anche Internet.

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