La teoria della convivialità di Ivan Illich rappresenta una delle critiche più radicali al sistema industriale mai formulate. Nel suo saggio del 1973, il pensatore propone un’alternativa rivoluzionaria: strumenti al servizio della persona, non viceversa. Mezzo secolo dopo, quella visione resta drammaticamente attuale nell’era del capitalismo digitale e dell’intelligenza artificiale.
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La critica sociale è scomparsa dalla società digitalizzata
Fa sempre un certo effetto rileggere libri di critica sociale e politica scritti mezzo secolo fa (o più) e scoprire che da allora quasi niente è cambiato – a parte il passaggio dall’analogico al digitale e un peggioramento drammatico della crisi ambientale. La critica fatta alla società industriale e industrializzata di allora sembra infatti sovrapporsi quasi perfettamente alla critica che dovremmo fare alla società industriale-digitalizzata di oggi – posto che anche il digitale e l’IA sono industria e capitalismo e rivoluzione industriale e sfruttamento irrazionale della biosfera. Perché l’uomo a una dimensione di Marcuse nella società tecnologica avanzata di allora (anni ’60) si replica appunto nell’uomo a una dimensione della società tecnologica avanzata digitale di oggi[i]; e il consumismo era oppio dei popoli allora e lo è ancora di più oggi; e la crisi ambientale era già allora più che evidente, ma oggi molto di più.
Un pensatore inclassificabile tra teologia e anarchia
Ma la vera differenza tra allora e oggi è che allora esisteva una critica sociale, politica e culturale alla società industriale, capitalistica, consumistica, mentre oggi sembra scomparsa, siamo sempre più integrati e colonizzati dalla tecnica e dal capitale e dai loro immaginari e nemmeno proviamo vergogna per avere perso tempo (mezzo secolo e più – appunto) senza cercare di modificare in meglio le cose. Anzi. E dunque – continuando la nostra azione di confrontare l’oggi con il passato, di recuperare quella memoria e quella libertà cognitiva che tecnica e capitale, per loro essenza e tendenza, ci stanno facendo perdere – andiamo a rileggere un autore di allora, Ivan Illich (1926-2002) e uno dei suoi saggi più importanti, La convivialità, libro del 1973.
Ivan Illich, chi era costui?
Ma chi era Ivan Illich? Ha scritto Rocco Ronchi: “è stato un pensatore veramente inclassificabile, non solo sul piano disciplinare, perché la sua ricerca si situa al confine tra teoria critica e teologia, tra storia delle idee e epistemologia delle scienze umane, tra economia politica e storia della medicina, ma anche su quello esistenziale: fu prete e attivista politico, riformatore religioso impegnato nel Concilio Vaticano II e tradizionalista innamorato del medioevo cristiano, anarchico e credente, anti-illuminista e libertario”[ii]. E per Illich “la questione fondamentale, quella su cui ruota tutta la sua ricerca, è rappresentata dall’avvento della modernità, vale a dire dalla discontinuità del nostro presente rispetto al passato da cui proviene.
L’uomo come lo conosciamo non è per Illich l’uomo in sé ma è l’uomo economico, l’uomo che pensa esclusivamente in base al principio di utilità e che scambia la razionalità per un calcolo basato sul rapporto costi-profitti”. Qualcosa – una ontologia e teleologia – tipicamente occidentale, che poi ha conquistato il mondo diventandone l’inconscio collettivo globale. E invece, ricordava Illich, “sono esistite ed esistono […] altre umanità, altri modi di pensare la convivenza umana basati sul dono e non sullo scambio, sulla comunità e non sullo Stato, sull’autosufficienza e non sulla dipendenza tecnologica, sulla convivialità festosa e non sulla comunicazione funzionale, […], sulla differenza di genere e non sul patriarcato[iii]. Da allora sembra però che questi mondi diversi siano scomparsi, o si siano ridotti allo zero virgola rispetto alla totalità totalitaria del capitalismo e della tecnologia.
Il sistema produce la propria distruzione e cancella la memoria
Dunque, apriamo le pagine de La convivialità[iv] e iniziamo a leggere concentrandoci su alcuni punti – tralasciando ad esempio il tema del controllo delle nascite in una Terra sovrappopolata allora e ancora di più oggi – limitandoci a chiosare e aggiornare, in parentesi quadra (ma non solo).
Partiamo da una considerazione iniziale di Illich, e appunto leggiamola anche con gli occhi di oggi: “La società, una volta raggiunto lo stadio avanzato della produzione di massa, produce la propria distruzione. La natura viene snaturata. Sradicato, castrato nella sua creatività, l’uomo è rinserrato nella propria capsula individuale [oggi ancora di più con il digitale, tutti isolati anche se tutti connessi].
La collettività è governata dal gioco combinato di una polarizzazione estrema e di una specializzazione a oltranza [oggi ancora di più]. L’affannosa ricerca di modelli e prodotti sempre nuovi, cancro del tessuto sociale, accelera a tal punto il mutamento da escludere ogni ricorso ai precedenti come guida per l’azione [il sistema ci vuole senza memoria, così che ciascuno sia sempre pronto a credere che il nuovo sia veramente nuovo, come recita la propaganda del tecno-capitalismo, i.a. compresa]. Il monopolio del modo di produzione industriale riduce gli uomini a materia prima lavorata dagli strumenti tecnici. E tutto questo in misura non più tollerabile”[v].
Colonizzazione dell’inconscio sociale da parte del sistema
E invece tolleriamo anche ciò che dovrebbe essere intollerabile, ci adeguiamo anche al digitale e al capitalismo della sorveglianza e alla crisi climatica, tale è appunto la colonizzazione ontologica ed epistemica dell’inconscio sociale che il sistema ha prodotto, noi semmai limitandoci a qualche protesta in frammenti, senza più riuscire a vedere che la causa prima è appunto nel sistema industriale/industrialista, nell’ontologia perversa della modernità e della sua razionalità (irrazionale) solo strumentale/calcolante-industriale, eppure capace di resistere trasformandosi e di integrare semmai in sé e per sé ogni critica sistemica[vi].
Le abitudini industriali deformano il campo del possibile
Ovvero, “siamo talmente deformati dalle abitudini industriali [oggi digitali] che non osiamo più scrutare il campo del possibile” e invece, uscendo dalla gabbia del sistema industriale “c’è un secondo modo di mettere a frutto le invenzioni, che accresce [invece di ridurlo, come nel capitalismo industriale, i.a. compresa] il potere e il sapere di ognuno, consentendo a ognuno di esercitare la propria creatività” – qualcosa che però poi, di nuovo, il sistema industriale ha fatto proprio (compresa la convivialità), ma usandolo per i propri fini di profitto e di sfruttamento.
Spacciando la tecnologia informatica come unico modo per essere creativi – basta pensare al Think Different di Apple – ma producendo una creatività solo funzionale all’accrescimento illimitato del sistema industriale/industrialista. Invece, per Illich “se vogliamo disegnare i contorni di una società a venire che non sia iperindustriale, dobbiamo riconoscere l’esistenza di scale e di limiti naturali” (e ricordiamo che un anno prima, nel 1972, era uscito il Rapporto del MIT al Club di Roma sui Limiti della crescita), limiti che il tecno-capitalismo è riuscito a farci dimenticare portandoci a vivere sempre più fuori dal naturale e sempre più nell’artificiale, che per sua essenza non ha limiti, né pone limiti all’accrescimento del profitto privato, grazie anche al fatto che “il cambiamento accelerato produce su di noi gli stessi effetti che l’assuefazione a una droga”[vii].
Lo strumento ha trasformato l’uomo nel suo schiavo
Illich proponeva dunque una società conviviale, “una società in cui lo strumento moderno sia utilizzabile dalla persona integrata con la collettività e non riservato a un corpo di specialisti che lo tiene sotto il proprio controllo”[viii].
Scriveva Illich: “Per un secolo l’umanità si è dedicata a un esperimento basato sull’ipotesi che lo strumento possa rimpiazzare lo schiavo. Ora vediamo invece che è lo strumento che fa dell’uomo il suo schiavo [anche se il sistema industriale è abilissimo a farci credere che aumenti invece la nostra libertà].
La dittatura del proletariato e la dittatura del mercato sono due varianti politiche che celano lo stesso dominio da parte di un sistema industriale in costante espansione [cioè, il problema è il sistema industriale]. La soluzione della crisi” – posto il fallimento del grande sogno del progresso – “esige […] quindi un radicale rovesciamento: solo ribaltando la struttura profonda [noi diciamo, l’ontologia] che regola il rapporto tra l’uomo e lo strumento potremo servirci degli strumenti che sappiamo costruire”[ix].
Invertire le istituzioni industriali e demitizzare la tecnica
Quindi, “io credo che occorra invertire radicalmente le istituzioni industriali, ricostruire la società da cima a fondo” e demitizzare la scienza e la tecnica. Ovvero, “la convivialità è il contrario della produttività industriale”.
Ma tutto questo “rimarrà un pio desiderio se gli ideali socialisti di giustizia non prevarranno. Perciò la crisi aperta delle istituzioni dominanti va salutata come l’alba di una liberazione rivoluzionaria nei confronti di quelle che mutilano la libertà elementare dell’essere umano al solo scopo di ingozzare un sempre maggior numero di utenti. […] Se gli strumenti non vengono fin d’ora sottoposti” – questione oggi ancora più essenziale – “a un controllo politico [noi diciamo: se non si democratizzano i processi di innovazione tecnologica], la cooperazione dei burocrati del benessere e dei burocrati dell’ideologia ci farà crepare di felicità”[x].
L’uomo industrializzato e il taylorismo cognitivo
Con un di più, tuttavia: “le stesse istituzioni politiche funzionano come meccanismi di pressione e di repressione che indirizzano il cittadino e raddrizzano il deviante, per renderli conformi agli indirizzi di produzione” – e da qui la critica di Illich alla scolarizzazione a questo funzionale prodotta dalle società industriali e quindi immaginando una società descolarizzata[xi]. “Il dogma della crescita accelerata giustifica la sacralizzazione della produttività industriale”. E “i nostri sogni sono standardizzati, la nostra immaginazione viene industrializzata anch’essa, la nostra fantasia programmata” nel senso di immaginare ciò che serve alla riproducibilità del sistema. Oggi si replica con l’i.a., il cui primo scopo è nuovamente quello di accrescere la produttività (Sam Altman). Ovvero, si può dire che “l’uomo stesso è stato industrializzato” – che è ciò che oggi avviene ancora più di ieri, tra piattaforme, social e intelligenza artificiale, che è una delle forme, come noi la chiamiamo, di taylorismo, questa volta cognitivo. E quindi non siamo in una società postindustriale ma iperindustriale come già la definiva Illich, prima di Stiegler e di noi stessi[xii].
Eliminare i manager per creare strumenti conviviali
Da qui la necessità di disinquinare anche il linguaggio, perché (sempre 1973, ma ancora di più oggi), “è l’ora di scegliere tra la costituzione di una società iperindustriale, elettronica e cibernetica, o viceversa una società realmente postindustriale che riunisca un largo ventaglio di strumenti moderni e conviviali”.
Ovvero, “passare dalla produttività alla convivialità significa sostituire a un valore tecnico un valore etico, a un valore materializzato un valore realizzato”[xiii]. Per questo dovremmo eliminare i manager, ma per farlo occorre “rompere il meccanismo che li rende necessari e con ciò stesso la domanda massiccia che assicura il loro impero”[xiv]. Ma per rendere conviviale lo strumento occorre immaginare che le “scienze della natura e le scienze dell’uomo” possano “servire a creare strumenti, tracciare il loro quadro di utilizzazione e stabilire le loro norme d’impiego, in modo tale da garantire una incessante ri-creazione della persona, del gruppo e dell’ambiente, un totale spiegamento dell’iniziativa e dell’immaginazione di ognuno”[xv]; o che conviviale possa indicare uno “strumento che sia scientificamente razionale e destinato a un uomo austeramente anarchico”[xvi].
Per noi tuttavia questo non basta perché anche le scienze della natura (l’i.a. come rete neurale simile al cervello umano, l’ibridazione uomo-macchina, gli algoritmi predittivi) e le scienze dell’uomo (la psicologia e la sociologia industriale e del lavoro al servizio della manipolazione e dell’eterodirezione degli umani per accrescere la loro produttività, la psicanalisi come cura individuale dei problemi invece collettivi creati dalla società industriale, rimuovendo ogni idea di riforma o di rivoluzione politica del sistema, i social offerti come nuova forma di socializzazione e persino di convivialità quando ne sono la negazione). Serve appunto e soprattutto un rovesciamento radicale (supra, Illich) della struttura profonda del sistema – dell’ontologia della tecnica e della modernità.
Uscire dalla gabbia del sistema industriale digitale
Illich, dunque, continua ad affascinarci per provare ad uscire da quella gabbia esistenziale che si chiama sistema industriale e oggi digitale e i.a. (ma lo vogliamo davvero?) – così provando finalmente a smentire e a rovesciare il motto (illiberale e antidemocratico) della Esposizione Universale di Chicago del 1933, per cui la scienza scopre, l’industria applica, l’uomo si adegua – e che da allora, anche col digitale, impone e dispone dell’uomo.
Bibliografia
[i] https://www.youtube.com/watch?v=j6DldrUdATQ
[ii] R. Ronchi, “La faccia di Ivan Illich” – https://www.doppiozero.com/la-faccia-di-ivan-illich
[iii] Ivi
[iv] I. Illich, “La convivialità”, Boroli Editore, Milano, 2005
[v] Ivi, pag. 13
[vi] È quella che chiamiamo tecno-archía: L. Demichelis, “Tecno-archía, o la Nave dei folli. La banalità digitale del male”, DeriveApprodi, 2025
[vii] .I. Illich, “La convivialità”, Boroli Editore, Milano, 2005, pag. 103
[viii] I. Illich, “La convivialità”, Boroli Editore, Milano, 2005, pag. 15
[ix] Ivi, pag. 27
[x] Ivi, pag. 30
[xi] Si veda: I. Illich, “Descolarizzare la società”, Mimesis, Milano-Udine, 2010
[xii] Ancora L. Demichelis, “Tecno-archía, o la Nave dei folli”, cit.; Id, “La società-fabbrica. Digitalizzazione delle masse e human engineering”, Luiss UP, Roma, 2023
[xiii] I. Illich, “La convivialità”, Boroli Editore, Milano, 2005, pag. 29
[xiv] Ivi, pag. 36
[xv] Ivi, pag. 58
[xvi] Ivi, pag. 15










