L’avvento della rivoluzione digitale ha innescato una profonda modificazione della percezione e dell’interazione umana con lo spazio: l’esperienza spaziale dell’uomo si è estesa a dimensioni prima ancorate a coordinate fisiche e sociali tangibili, sperimentando ambienti immateriali in grado di sfidare le categorie percettive e determinare nuove risposte psicologiche.
Indice degli argomenti
Rivoluzione digitale e estensione dell’esperienza spaziale
Il fenomeno dei cosiddetti “spazi liminali digitali” sta assumendo sempre più rilevanza nella vita dei nativi digitali, costantemente immersi in una dimensione spaziale immateriale, che si estende dai videogame e dalla realtà virtuale e aumentata, fino ad arrivare ai social network, le nuove piazze virtuali dove è possibile vivere ed interagire in una dimensione parallela e atemporale rispetto alla vita reale. Attraverso la progressiva perdita di realtà materiale, la percezione della dimensione spaziale si è andata sempre più modificando, anticipando la futura realtà ologrammatica, dove i nostri avatar potranno interagire tra loro senza la barriera di uno schermo, superando luoghi e confini fisici.
Adattamento percettivo e sintomi del passaggio
Il salto “quantico” dell’esperienza percettiva umana verso spazi sempre più immateriali e adimensionali sta imponendo nuove risposte cognitive ed emotive nell’utente, rendendo gli spazi liminali un campo di studio cruciale per comprendere l’evoluzione della psiche umana nell’ecosistema digitale. Attualmente ci troviamo in una fase di passaggio, durante la quale la nostra psiche si sta progressivamente abituando all’immaterialità e all’assenza di spazio propria degli ambienti virtuali digitali: tale passaggio avviene generalmente in maniera silente e subliminale, ma all’inizio dell’esperienza di passaggio alcuni individui possono addirittura reagire con sintomi quali disorientamento, smarrimento, ansia, vertigini, per poi abituare gradualmente i propri meccanismi percettivi alla nuova realtà, come nel caso degli immigrati digitali all’inizio delle proprie esperienze con i videogiochi arcade.
Attraverso un’analisi interdisciplinare condotta a cavallo tra psicologia digitale e cognitiva (per l’analisi delle percezioni e delle risposte emotive), epistemologia informatica e filosofia digitale (per interrogare la natura della realtà e della conoscenza negli ambienti virtuali), gli studi sui media e i videogiochi (per esplorare le applicazioni pratiche e gli effetti immersivi di tali spazi), si cercherà di comprendere come questi ambienti di transizione stiano effettivamente influenzando la psiche individuale, i meccanismi percettivi e psico-sensoriali, e le stesse dinamiche sociali nell’era digitale, allo scopo di fornire una guida per sopravvivere in un futuro sempre più immateriale e incerto.
Origine e definizione del concetto di “liminalità”
Il concetto di liminalità (dal latino limen, cioè “soglia”) è stato introdotto per la prima volta in ambito antropologico da Arnold van Gennep nella sua opera I Riti di Passaggio scritta nel 1909. Van Gennep ha utilizzato questo concetto per descrivere la fase intermedia dei rituali che segnano il passaggio di un individuo o di un gruppo da uno status sociale all’altro: la fase liminale (o di transizione), identifica un periodo di ambiguità e sospensione dello status di un individuo (van Gennep, 1960). Durante tale fase di passaggio, le persone non detengono più il loro status sociale, politico, religioso, economico o educativo precedente, trovandosi quindi in uno stato indefinito.
Il sociologo e antropologo Victor Turner ha ulteriormente perfezionato il concetto di liminalità negli anni ’60 e ’70, identificando tale fase di transizione come uno stato di ambiguità, disorientamento e potenziale trasformazione. Secondo Turner, in questo periodo le gerarchie sociali e le regole usuali possono essere temporaneamente sospese o persino rovesciate, creando uno spazio di “pura possibilità” da cui possono emergere nuove configurazioni di idee e relazioni sociali (Turner, 1967; 1969). Turner ha introdotto inoltre la distinzione tra eventi “liminali” (legati a riti di passaggio obbligatori) ed eventi “liminoidi”, più informali ma non per questo meno importanti (Turner, 1974). Questi ultimi riguardano infatti esperienze più soggettive e meno ritualizzate, spesso associate ad attività creative, artistiche o ludiche, che pur non essendo veri e propri riti di passaggio, possono comunque indurre un’esperienza di transizione e immersione negli individui che le sperimentano. La liminalità, intesa come processo, è temporanea ma non facoltativa per il passaggio da uno stato all’altro, richiedendo un adattamento a nuove norme o valori e culminando nell’internalizzazione di una nuova identità o condizione: la “persona liminale” è una persona che si trova in uno stato di sospensione (soglia), in attesa che si compia un passaggio a un nuovo stato.
Estetiche del vuoto e uncanny valley
Gli spazi liminali sono tradizionalmente identificati come luoghi fisici di transito o di “confine”, come corridoi, sale d’attesa, hotel, aeroporti o stazioni ferroviarie, che non sono destinati a una permanenza prolungata ma servono da “soglia” tra un punto di partenza e una destinazione; essendo sospesi tra uso e disuso, passato e presente, in perenne transizione da uno stato all’altro, tali spazi determinano psicologicamente una sensazione di assenza di luogo nell’individuo che li sperimenta. Con l’avanzare dell’era digitale, il concetto di spazio liminale ha trovato una nuova e peculiare espressione negli ambienti virtuali, ossia i luoghi immateriali che si trovano al di là del limen dello schermo di un computer, assumendo forme estetiche e funzionali uniche.
Gli spazi liminali virtuali, infatti, sono spesso caratterizzati da immagini di luoghi vuoti o abbandonati che evocano un senso di surrealismo, angoscia e nostalgia, generando sensazioni di inquietudine, spiazzamento e déjà-vu, ovvero una familiarità straniante e indefinita, ma allo stesso tempo inquietante e misteriosa. Tale sensazione di disagio è assimilabile all’effetto Uncanny Valley (Bukimi no tani, o “valle perturbante”), una teoria nata in Giappone all’inizio degli anni ’70 nell’ambito della robotica umanoide (Mori, 1970), dove spazi che appaiono familiari deviano sottilmente dalla realtà, creando un senso di “stranezza” e distorsione, una sorta di stato alterato di coscienza, rievocando alcune fra le opere più iconiche di Salvador Dalí, o simulando gli effetti percettivi indotti da sostanze psicotrope e stupefacenti come l’LSD (Galetta, 2017). Un esempio emblematico di tale fenomeno è il meme The Backrooms, un creepypasta diventato virale tramite un post anonimo diffuso nel 2019 attraverso l’imageboard 4chan, che raffigura un labirinto di corridoi gialli con moquette e un ronzio fluorescente, descritto come un luogo “staccato dal tempo e dallo spazio”, un ambiente extra-dimensionale che ha contribuito a diffondere l’estetica degli spazi liminali nell’immaginario postdigitale (Heft, 2021).
Simili atmosfere, che rievocano gli spettrali corridoi dell’Overlook Hotel del film Shining (diretto da Stanley Kubrik nel 1980 e tratto dall’omonimo romanzo di Stephen King), sono intenzionalmente create all’interno di alcuni videogiochi, dove l’assenza di personaggi, l’illuminazione artificiale e le architetture “che rompono le regole” contribuiscono a creare un’esperienza liminale profonda, spiazzante e, proprio per questo, perturbante. Il filosofo francese Michel Foucault ha definito tali spazi con il termine di “eterotopia” (Foucault, 2006). Questi ambienti digitali, pur essendo virtuali e immateriali, riescono ad indurre risposte psicologiche paragonabili a quelle generate dagli spazi liminali fisici (grazie anche all’effetto di risonanza indotta dai neuroni-specchio), dimostrando la loro significativa influenza sulla psiche dell’utente.
Dimensioni psicologiche e fenomenologiche dell’esperienza liminale virtuale
Effetti sulla percezione e cognizione dell’utente
Gli spazi liminali virtuali, per la loro intrinseca natura transitoria, priva di chiari punti di riferimento fisico, hanno la capacità di indurre un profondo senso di disorientamento, spiazzamento e ambiguità nella percezione dell’utente.
Questa incertezza cognitiva è, infatti, la caratteristica distintiva dello stato liminale, dove le conoscenze e le regole preesistenti non trovano più applicazione, lasciando l’individuo in uno stato di sospensione e indecisione tra ciò che è e ciò che sarà. In ambienti virtuali, come i videogames, questo si manifesta attraverso corridoi labirintici, spazi apparentemente senza scopo o interazioni indefinite, che sfidano l’abituale comprensione della navigazione e della funzionalità spaziale dell’utente, rivelandosi come un glitch nel tessuto della realtà e alimentando la sensazione di vivere in una simulazione.
Un elemento centrale per comprendere l’inquietudine generata da questi ambienti è, come già accennato, il fenomeno della “valle perturbante” (Uncanny Valley). Questo concetto descrive la sensazione di disagio che si sperimenta quando qualcosa appare familiare ma devia sottilmente dalla realtà, creando un senso di estraneità o di non conformità (come le sensazioni provate da un individuo di fronte ad un robot umanoide). Negli spazi liminali virtuali, ciò si traduce nell’assenza di persone in luoghi che, nella realtà, sarebbero normalmente affollati, come aule scolastiche vuote, terminal aeroportuali deserti o centri commerciali abbandonati.
Questa “mancanza di presenza” (failure of presence) in un contesto altrimenti riconoscibile genera una potente dissonanza cognitiva e uno spiazzamento semantico nell’utente. Il cervello umano, abituato a percepire questi luoghi come contesti sociali dinamici e popolati, reagisce alla loro inaspettata vacuità con un senso di inquietudine, una sensazione di trovarsi di fronte a qualcosa di sbagliato, di strano o fuori posto, non riuscendo ad attribuire un esatto significato a ciò che sta percependo: è questo l’effetto caratteristico della “valle perturbante”.
La mera omissione di elementi normalmente attesi diventa così un potente meccanismo psicologico che trasforma la familiarità in inquietudine e disagio psicologico, dimostrando che ciò che è assente può avere un impatto emotivo tanto forte quanto ciò che è presente, confondendo la simulazione con la realtà.
La percezione negli ambienti virtuali, dove avviene questa perdita di senso, è intrinsecamente legata al concetto di “presenza”, definita come la sensazione di “essere lì” – fisicamente o mentalmente – all’interno dell’ambiente simulato.
Questa presenza è influenzata da diverse dimensioni, tra cui l’illusione di luogo (la sensazione di trovarsi in prima persona nell’ambiente virtuale osservato), la plausibilità (l’illusione di realtà data dagli eventi che accadono in tale spazio e la coerenza dell’ambiente con le azioni dell’utente) e la proprietà del corpo (l’accettazione del proprio avatar virtuale come proprio corpo, ossia come doppio al di là dello schermo). Tuttavia, negli spazi liminali virtuali, la coerenza tra questi fattori può essere intenzionalmente interrotta per creare effetti specifici, spesso volutamente destabilizzanti. Ad esempio, la mancanza di interattività significativa o la ripetizione eccessiva di schemi uguali a se stessi possono generare monotonia e disorientamento, amplificando la sensazione di essere “fuori dai confini della realtà”, in un luogo distopico o in un “loop temporale” (si ricordi, ad esempio, il “glitch del gatto” nel film Matrix, dove l’evento della presenza di un gatto che cammina si ripete due volte consecutivamente nella simulazione, suggerendo un’anomalia nel sistema). L’utilizzo degli spazi liminali, dal design, ai videogiochi, alla fotografia, all’architettura, fino alla cinematografia, mira a manipolare la percezione dell’osservatore per indurre stati di ambiguità e sospensione, tipici della liminalità.
Risonanze emotive: ansia, nostalgia, kenopsia, anemoia
Le risposte emotive generate dagli spazi liminali virtuali sono complesse e spesso ambivalenti, oscillando tra sensazioni di inquietudine, disagio e ansia, e sentimenti di nostalgia, ritorno al passato e tristezza malinconica per qualcosa che è stato e ora non è più. Un esempio lampante di come le sensazioni e i sentimenti evocati da tali spazi possano risuonare con l’esperienza collettiva è stato osservato nel corso del periodo della pandemia di COVID-19, quando le immagini di luoghi pubblici svuotati – strade deserte, piazze vuote, negozi chiusi, aeroporti silenziosi, uffici deserti – hanno generato uno stato diffuso di ansia, inquietudine, disorientamento e alienazione, rendendo tangibile per molti la natura surreale, fluida e perturbante di tali ambienti. Questa risonanza globale ha amplificato la consapevolezza di come gli spazi di transizione, quando privati della loro funzione sociale abituale, possano evocare emozioni profonde e spesso contraddittorie, lasciando l’utente in uno stato di angosciante sospensione. A tale stato percettivo è stato attribuito il termine di “kenopsia”, che identifica la sensazione di inquietudine che l’osservatore sperimenta quando entra in luoghi abbandonati e deserti, che in passato sono stati frequentati, come se il luogo emanasse un’eco della sua vita precedente, creando un’illusione di “iper-vuoto” che spaventa e angoscia (Koenig, 2021).
La nostalgia è, infatti, un sentimento ricorrente in chi sperimenta gli spazi liminali virtuali, spesso associato ad una sensazione malinconia (spleen): un mix agrodolce di gratitudine e tristezza per un passato irrecuperabile. Questa sensazione è frequentemente evocata da estetiche che richiamano gli anni ’90 o i primi anni 2000, periodi che per molti rappresentano l’infanzia o l’adolescenza, ma che vengono riproposti in contesti spogli, distopici o distorti.
Per riferirsi a tale contesto si parla di “anemoia”, una sensazione indefinita di nostalgia per un tempo che non si è mai vissuto, ma che si percepisce come familiare attraverso immagini e memorie culturali collettive, come ad esempio la sensazione percepita dalla Gen Z verso le mode e le tendenze degli anni ’80 e ’90 (Koenig, 2021). La percezione simultanea di familiarità e assenza, unita ad un’estetica datata, crea un potente richiamo emotivo che si manifesta come risonanza sentimentale mista a ricordi frammentati o con un senso nostalgico per un’epoca perduta, come nell’estetica steampunk.
L’ambiguità intenzionale nel design dell’esperienza utente (UX) può essere un catalizzatore per queste risposte emotive. Quando uno spazio virtuale presenta elementi ambigui o distorti, e gli ambienti sono caratterizzati da un’atmosfera cupa e decadente in stile noir, tale percezione può generare una sensazione di suspense, pericolo, intrigo o mistero, spingendo gli utenti a esplorare più a fondo l’interfaccia, cercando di scoprire significati nascosti o messaggi criptati, investendo emotivamente nell’esperienza percettiva, grazie all’attivazione di ormoni come l’adrenalina, che induce una coazione a ripetere compulsivamente un’esperienza capace di dare un sottile piacere. Tuttavia, questa ambiguità può anche assumere una connotazione minacciosa.
Ambienti virtuali che evocano un senso di pericolo imminente, senza che siano presenti minacce visibili o prevedibili, possono elicitare risposte ansiose, mantenendo l’utente in uno stato di vigilanza e influenzando la memoria dell’esperienza. Questa percezione di minaccia ambigua e indefinita crea una tensione psicologica costante, dove l’attesa di un evento sconosciuto è più perturbante della minaccia stessa. Il design di tali spazi, quindi, non si limita a rappresentare un’estetica, ma manipola attivamente la percezione e l’emozione dell’utente, inducendo specifici stati psicologici, che possono variare da un’esplorazione curiosa a un’ansia persistente.
Game studies: immersione, embodiment e trasformazioni
I videogiochi rappresentano un terreno particolarmente fertile per l’esperienza liminale, data la loro estrema aderenza alla realtà attraverso la simulazione e l’intrinseca capacità di indurre stati di immersione e di “flow”, una condizione psicologica di profondo coinvolgimento emotivo e di impegno mentale: l’utente è completamente assorbito nel gioco ed è proiettato immersivamente all’interno di una realtà parallela.
I game designer, ben consapevoli di questo potenziale, possono manipolare o indurre precise reazioni psicologiche ed emotive nel giocatore, sforzandosi di aumentare sia l’embodiment (la sensazione di possedere e controllare un corpo virtuale), che l’immersione nel gioco, al fine di creare esperienze di liminalità narrativamente potenti e coinvolgenti per il game player (Taylor-Giles & Turner, 2023; Slater, 2018). Questo si traduce in un design e in un’estetica che non solo cattura l’attenzione (la cosiddetta “estetica lo-fi”), ma che trasporta il giocatore in uno stato mentale in bilico tra la propria realtà e la realtà simulata del gioco, ossia in uno spazio liminale.
Molti videogiochi utilizzano intenzionalmente gli spazi liminali per ottenere effetti narrativi e psicologici ben precisi. Esempi noti includono videogiochi come The Stanley Parable, che immerge il giocatore in un ufficio vuoto all’interno di corridoi labirintici e non euclidei, sfruttando la rottura della “quarta parete” e il libero arbitrio, e inducendo una “vertigine dell’infinito” attraverso loop temporali e manipolazione della narrazione.
Altri titoli come Control e Anatomy sono altrettanto apprezzati, grazie alla loro maestria nel creare atmosfere liminali che permangono nella mente del giocatore ben oltre la sessione di gioco. Questi ambienti sono spesso caratterizzati da un’estetica che evoca isolamento (assenza di personaggi e spazi vuoti), atemporalità (assenza di cicli giorno-notte o orologi), illuminazione artificiale (luci fluorescenti fredde e vibranti, bagliori intensi) e un sound design che amplifica la tensione o crea ambiguità emotiva. L’architettura stessa contribuisce a “rompere le regole” della logica spaziale, aumentando il senso di disorientamento e surrealtà, dando al giocatore l’impressione di agire in una dimensione sospesa, onirica e atemporale, come l’esperienza di Alice nella tana del Bianconiglio.
La liminalità nei videogiochi può anche comportare una “morte simbolica” e una “rinascita” del giocatore. Similmente alle “personae liminali” di Turner, i protagonisti o avatar acquisiscono un’identità con una “tabula rasa”, permettendo la sospensione delle convenzioni sociali e morali ed offrendo la possibilità di “spogliarsi e ricostruire” la propria identità.
Questo processo può essere profondamente trasformativo, ma presenta una dualità di effetti psicologici. Da un lato, il gaming liminale può avere effetti positivi, come lo sviluppo di strategie di coping, l’incremento della creatività e delle abilità nella risoluzione dei problemi, l’esplorazione di emozioni altrimenti inaccessibili nella realtà e il rafforzamento dell’imperativo morale. Dall’altro lato, gli impatti negativi possono includere sentimenti di ansia, tensione, paura, impotenza, smarrimento e frustrazione durante il gioco, stress cognitivo, dissociazione del sé, depersonalizzazione e persino la comparsa di impulsi (auto)distruttivi o comportamenti devianti, che possono portare a una “pseudo-iniziazione” anziché a una vera scoperta del sé. La progettazione di questi spazi liminali richiede quindi una profonda comprensione della psicologia del giocatore per bilanciare il potenziale trasformativo con i rischi di disagio psicologico.
Un’osservazione fondamentale che emerge dall’analisi degli spazi liminali virtuali è che la “mancanza di presenza” di altri individui in ambienti familiari e conosciuti non è una mera caratteristica descrittiva o rappresentativa, ma un meccanismo psicologico attivo che trasforma la familiarità in inquietudine: l’isolamento rafforza la presenza del sé e la concentrazione ossessiva sulle proprie sensazioni, pulsioni ed emozioni, che si estrinsecano in un paesaggio vuoto, distopico e perturbante. La mente umana è cablata per riconoscere e interpretare gli spazi in base alle aspettative sociali e funzionali: quando un corridoio di scuola o una sala d’attesa, luoghi tipicamente associati alla presenza e all’interazione umana, vengono presentati in una dimensione di vuoto innaturale, si verifica una dissonanza cognitiva che dissolve qualsiasi aspettativa tranquillizzante.
Questo scarto tra aspettativa razionale e la percezione reale genera una sensazione di “sbagliato” o “fuori posto”, che è l’effetto principale della “valle perturbante”. La potenza emotiva ed evocativa di tali spazi deriva proprio da questa capacità di manipolare le aspettative cognitive, trasformando un ambiente altrimenti banale in una fonte di disagio profondo e inspiegabile. Il design di ambienti virtuali dovrebbe considerare non solo ciò che è presente, ma anche ciò che è assente e le aspettative che tale assenza genera nell’utente, poiché l’omissione può essere tanto potente quanto l’inclusione, in quanto capace di manipolare le sensazioni e le emozioni dell’utente.
Liminalità come laboratorio psichico
La liminalità virtuale si configura dunque come uno spazio di rielaborazione psichica, che può essere sia positivo che negativo. Il concetto di liminalità, originariamente esplorato da van Gennep e Turner, è stato associato a processi trasformativi in contesti inusuali o inediti come il co-design e le pratiche creative, dove la transizione attraverso uno stato di ambiguità può portare a nuove prospettive, a soluzioni inaspettate e al rafforzamento della fiducia.
Tuttavia, come evidenziato dagli studi sui videogiochi (game studies), la stessa condizione di sospensione e incertezza può indurre effetti psicologici deleteri come ansia, paura, stress, dissociazione, derealizzazione e depersonalizzazione. Questa dualità percettiva suggerisce che gli spazi liminali, essendo zone di sospensione, incertezza e ambiguità, agiscono come un “laboratorio psichico”, un terreno fertile e di sperimentazione per la riorganizzazione psichica interna.
La natura dell’esperienza liminale – se guidata e supportata, come nelle pratiche di co-design, o spontanea e non mediata, come nell’esplorazione di certi ambienti virtuali – e il contesto (gioco, arte, social media) determinano la capacità di questa rielaborazione psichica soggettiva di tradursi in crescita e coping, o in disagio e patologia. Questo ha profonde implicazioni per la terapia digitale, l’educazione e la progettazione di esperienze virtuali che mirano al benessere, sottolineando la necessità di un design etico e consapevole che tenga conto della vulnerabilità dell’utente in questi stati di transizione.
Tabella 1: Effetti psicologici degli spazi liminali virtuali sull’utente
| EFFETTO PSICOLOGICO | DESCRIZIONE | TIPOLOGIA DI AMBIENTE VIRTUALE |
| Disorientamento/Ambiguità | Senso di smarrimento dovuto alla mancanza di punti di riferimento chiari o a regole sospese. | Corridoi labirintici, spazi senza scopo evidente, incertezza sulle interazioni possibili. |
| Inquietudine/Uncanny Valley | Familiarità distorta che genera disagio, una sensazione di “non conformità”, ambiguità, incompiutezza. | Luoghi familiari vuoti (scuole, hotel, piazze), oggetti che sembrano reali ma non lo sono del tutto, o appaiono distorti. |
| Nostalgia/Malinconia | Sentimento nostalgico legato a estetiche passate o luoghi vuoti che evocano ricordi frammentati. | Estetiche anni ’90 / primi anni 2000, ambienti che richiamano l’infanzia ma sono spogli e abbandonati, quasi spettrali. |
| Ansia/Tensione | Risposta psicologica a minacce ambigue, imprevedibili o a un senso di vulnerabilità. | Ambienti minacciosi senza minacce concrete, attesa di eventi sconosciuti. |
| Isolamento/Solitudine | Sensazione di essere soli in ambienti che dovrebbero essere popolati o che sono privi di interazione umana. | Assenza di personaggi, spazi vasti e deserti. |
| Dissociazione/Depersonalizzazione | Sfocatura dei confini del sé e della realtà, sensazione di non essere pienamente se stessi. | Identità fluide nei giochi, perdita del senso di agency, “pseudo-iniziazione”. |
| Senso di Presenza/Immersione | Sensazione di “essere lì” fisicamente o mentalmente, nonostante la natura virtuale dell’ambiente. | Stimolazione sensoriale (visiva, uditiva), coerenza tra movimenti e avatar. |
| Potenziale Trasformativo (Positivo/Negativo) | Cambiamenti nel mindset, emozioni, comportamento o identità. | Sviluppo di coping, creatività (positivo); paura, frustrazione, comportamenti devianti (negativo). |
Spazi liminali virtuali: prospettive epistemologiche e ontologiche
L’epistemologia informatica si dedica allo studio di come le tecnologie digitali influenzino la costruzione, la diffusione e la percezione della conoscenza.
Epistemologia della VR: conoscenza incarnata e verità
In tale contesto, la realtà virtuale (VR) si presenta come una tecnologia rivoluzionaria che apre nuove frontiere per l’apprendimento esperienziale e l’acquisizione di nuove conoscenze. La VR permette agli utenti di immergersi in mondi artificiali in modo coinvolgente, offrendo opportunità uniche per acquisire “conoscenza incarnata” (embodied knowledge), ovvero una comprensione che si radica nelle esperienze fisiche e nelle sensazioni indotte nell’utente, difficilmente ottenibile con metodi tradizionali. Questo tipo di conoscenza, derivante dall’interazione diretta e sensoriale con l’ambiente virtuale, sfida le modalità convenzionali di apprendimento e cognizione.
Tuttavia, la VR non si limita a espandere le opportunità di conoscenza; essa sfida anche le nozioni tradizionali di verità e realtà. La capacità della VR di simulare ambienti in modo così realistico può dissolvere i confini tra la realtà fisica e quella virtuale, rendendo sempre più difficile per l’utente distinguere ciò che è reale da ciò che non lo è. Questa ambiguità può generare disorientamento e confusione sulla natura stessa della realtà percepita. Di conseguenza, emerge la necessità critica di etichettare chiaramente gli ambienti e le esperienze virtuali per aiutare gli utenti a navigare questa complessità e mantenere una comprensione distinta dei diversi livelli di realtà.
La democratizzazione dell’informazione resa possibile dalla rete, pur facilitando l’accesso globale e la condivisione, solleva questioni significative sulla credibilità delle fonti e sul rischio di disinformazione. La proliferazione di contenuti generati dagli utenti e la facilità di manipolazione delle informazioni negli ambienti digitali, soprattutto grazie all’intelligenza artificiale, rendono l’alfabetizzazione mediatica (media literacy) una competenza essenziale per valutare criticamente le informazioni e le esperienze rappresentate attraverso la VR. Senza questa capacità critica, gli utenti sono vulnerabili ad una percezione distorta e ad una decodifica aberrante della realtà simulata al di là dello schermo, che può essere intenzionalmente indotta negli ambienti virtuali.
Riflessione filosofica sull’esistenza degli oggetti e degli eventi virtuali
La filosofia digitale è una disciplina emergente che analizza l’impatto delle tecnologie digitali sulla realtà e sull’esistenza umana. All’interno di questo nuovo ambito di ricerca, l’ontologia digitale si concentra sulla natura fondamentale dell’esistenza digitale, ponendo domande cruciali sulla “realtà” degli oggetti e degli eventi che popolano i mondi virtuali. Questo dibattito è centrale per comprendere la natura degli spazi liminali virtuali, che per definizione si collocano in una zona di confine (limen) tra il percepibile e il concettuale.
Il filosofo David Chalmers ha sostenuto una tesi audace e spiazzante, affermando che la realtà virtuale è “perfettamente reale”. Secondo Chalmers, gli oggetti che si incontrano nei mondi virtuali, sebbene siano “oggetti digitali” costituiti da processi computazionali o “bit” che si combinano grazie a un microprocessore, non sono per questo meno reali. Egli argomenta che gli eventi che si verificano in VR avvengono realmente come “eventi digitali” e che le esperienze vissute in realtà virtuale non sono illusioni, ma piuttosto percezioni non illusorie di un mondo digitale. Per Chalmers, queste esperienze possono avere un valore paragonabile alle esperienze non virtuali, sfidando la visione comune che considera la VR una realtà fittizia o illusoria. Questa prospettiva attribuisce agli spazi liminali virtuali una consistenza ontologica significativa, non riducibile a mera finzione o rappresentazione, uno statuto di realtà in grado di supportare l’agentività dell’utente, che mette in atto azioni dotate di carica intenzionale e psicologica al pari che nel mondo reale. Il dibattito ontologico si estende dunque alla relazione tra realtà digitale e realtà fattuale.
La “tesi dell’interconnessione” (intertwinement thesis) propone che le entità digitali non siano ontologicamente separate dalla realtà fisica, ma piuttosto un’estensione di essa, profondamente connesse e interagenti (Floridi, 2003; 2011). Questa visione si contrappone alla “tesi della separazione”, che, al contrario, le considera entità distinte. Se le realtà digitali sono un’estensione del mondo fisico, allora gli spazi liminali digitali non sono solo simulazioni, ma manifestazioni di una realtà ibrida, dove i confini tra reale e virtuale si dissolvono, permettendo all’utente di agire contemporaneamente in entrambi gli spazi in un continuum esperienziale. Questa prospettiva filosofica è cruciale per comprendere come gli spazi liminali virtuali possano influenzare la percezione della realtà, non come un’evasione da essa, ma come un’espansione delle sue possibilità.
Simulazioni, informazione e strati di realtà
L’ipotesi della simulazione, resa popolare dal filosofo svedese Nick Bostrom, propone un’ulteriore e più radicale sfida alla nostra comprensione della realtà: l’idea che la nostra stessa realtà potrebbe essere una simulazione computerizzata (Bostrom, 2003). Questa teoria introduce un ulteriore strato di liminalità ontologica, suggerendo che le esperienze virtuali liminali potrebbero essere simulazioni all’interno di una simulazione più grande, rendendo la distinzione tra i vari livelli di realtà ancora più ambigua e sfumata. Se la nostra realtà di base è già una simulazione, allora il concetto di “reale” assume una connotazione profondamente diversa, e le esperienze virtuali diventano non solo “reali” nel senso di Chalmers, ma potenzialmente parte integrante della struttura fondamentale dell’esistenza. Questa dimensione ontologica è abilmente rappresentata nel film Matrix, diretto da Andy e Larry Wachowski nel 1999, così come nelle atmosfere distopiche del film Blade Runner 2049, diretto da Denis Villeneuve nel 2017.
Tale prospettiva è rafforzata dalla fisica dell’informazione, un ambito interdisciplinare della scienza che suggerisce che la realtà fisica è fondamentalmente composta da “bit di informazione”. Se l’informazione è il blocco costitutivo fondamentale dell’universo, equivalente a massa ed energia, allora la distinzione tra ciò che è “reale” (fisico) e ciò che è “virtuale” (digitale) diventa intrinsecamente meno netta. In questo quadro, gli spazi liminali virtuali assumono una significatività particolare per la comprensione della natura della realtà. Essi non sono solo luoghi di transizione psicologica, ma potrebbero rappresentare delle “soglie” tra diversi strati di informazione che costituiscono la nostra esperienza. Ciò che accade in uno spazio liminale virtuale all’interno di uno strato di informazione, può accadere in maniera diversa in un altro strato di informazione, creando realtà virtuali parallele. Questa visione “quantistica” non solo convalida la “realtà” delle esperienze virtuali, ma le eleva a strumenti potenzialmente rivelatori della vera natura dell’esistenza, rendendo il fenomeno degli spazi liminali virtuali un campo di indagine non solo psicologico e sociologico, ma anche profondamente metafisico.
Spazio, tempo e identità fluide
Gli spazi liminali virtuali, per la loro capacità di “stare tra” due stati, sfidano intrinsecamente le categorizzazioni rigide di spazio e tempo a cui siamo abituati nella realtà fisica. Questi ambienti “quantistici” sono spesso caratterizzati da una “disconnessione dal tempo”, privi di cicli giorno-notte, orologi o indicatori temporali, creando un senso di atemporalità che contribuisce al loro carattere surreale (si ricordi la rappresentazione degli “orologi molli” nell’opera La persistenza della memoria di Salvador Dalì). L’assenza di un tempo lineare o di una progressione temporale definita amplifica il senso di sospensione e di “limbo” che è tipico della liminalità.
La natura ambigua di tali spazi e la caratteristica di “uscire dai confini della realtà” mettono costantemente in discussione la stabilità delle nostre percezioni e la coerenza del nostro “senso del luogo”. Fenomeni come il noclipping (la capacità di attraversare muri o oggetti nei videogames) all’interno delle narrazioni legate a spazi come le Backrooms non sono solo meccanismi ludici, ma metafore potenti di una realtà in cui le regole fisiche e logiche possono essere sovvertite. Questo potenziamento dell’esperienza di disorientamento non è un effetto collaterale, ma una caratteristica intrinseca che spinge l’utente ad interrogarsi sulla solidità delle proprie categorie percettive e cognitive.
La possibilità di assumere identità multiple e intercambiabili negli ambienti virtuali sfida ulteriormente la nozione di un’identità fissa e unitaria, rendendo fluida l’esperienza della soggettività e della corporeità nello spazio immateriale. Negli spazi liminali virtuali, dove le tradizionali regole della fisica sono sospese, questa fluidità è amplificata e pervasiva, consentendo una maggiore libertà nell’espressione dell’identità e del comportamento. Questa esperienza può indurre nell’utente una sensazione di “perdita di corporeità” e di sdoppiamento, dove il corpo vissuto si trasforma in un corpo virtuale fatto di intensità, energia e pure forze, che perde le sue caratteristiche biologiche per vivere una simulazione della vita reale (du Toit, 2020). L’individuo si trova così a navigare non solo spazi ambigui, ma anche un sé ambiguo, in costante negoziazione tra il reale e il virtuale, percependo una perdita d’identità ed uno sdoppiamento di personalità.
Un’osservazione cruciale è che la liminalità virtuale agisce come uno “stress test” epistemologico. Se, come argomentato da David Chalmers, gli oggetti e gli eventi virtuali sono “reali” anche se digitali, e se la VR può fornire nuove forme di conoscenza esperienziale e “incarnata”, allora l’esperienza degli spazi liminali virtuali, con la loro intrinseca ambiguità e sfocatura dei confini della realtà, diventa un vero e proprio banco di prova per la nostra epistemologia esistenziale. Questi spazi ci costringono a confrontarci con la natura evanescente della realtà e della conoscenza propria dell’era digitale, caratterizzata dall’immaterialità dei bit. La confusione e il disorientamento che gli utenti sperimentano non sono solo effetti psicologici individuali, ma sintomi di una crisi epistemologica più ampia che mette in discussione le categorie fondamentali dell’essere e della comprensione della realtà. Questo implica la necessità di sviluppare nuovi statuti epistemologici e una maggiore alfabetizzazione digitale per navigare con consapevolezza la complessità di queste realtà emergenti, riconoscendo che gli spazi liminali virtuali non sono solo fenomeni da osservare, ma veri e propri strumenti esperienziali per indagare i limiti della nostra comprensione della realtà e della conoscenza.
Inoltre, l’esperienza negli spazi liminali virtuali contribuisce a quella che può essere definita un’ontologia “liquida” del sé. Come si vedrà più avanti, la “modernità liquida” di Bauman descrive un’identità individuale incerta e fluttuante, priva di ancore stabili e di porti sicuri. Meyrowitz ha invece dimostrato come i media digitali e la rete dissolvano il legame tra luogo fisico e ruoli sociali, creando una dimensione ubiquitaria dove gli individui possono essere in più luoghi online contemporaneamente. Quando questi concetti vengono applicati alla natura intrinsecamente transitoria e ambigua degli spazi liminali virtuali, emerge una comprensione del sé che è essa stessa “liquida” e liminale.
L’identità virtuale non è più un’entità fissa e monolitica, ma una costruzione fluida e negoziabile, spesso frammentata ed evanescente, che si adatta ad un universo digitale in continua evoluzione. Questo porta ad ipotizzare che la stabilità psicologica dell’individuo di fronte agli spazi liminali virtuali possa dipendere dalla sua capacità di navigare e integrare queste identità fluide attraverso un upgrading costante della propria coscienza, per sopravvivere in un mondo immateriale sempre più “liquido” (passando da una coscienza 1.0, ad una coscienza 2.0, 3.0, 4.0 e così via) piuttosto che cercare una fissità ormai irraggiungibile, e che l’esperienza di questi spazi immateriali potrebbe esacerbare la crisi di identità e la solitudine, poiché oggi l’individuo si trova costantemente immerso in uno stato di “betwixt and between” non solo spaziale ma anche identitario (Heft, 2021), in bilico tra mondo reale e virtuale, in uno spazio liminale che assomiglia ad una “terra di nessuno”.
Implicazioni sociologiche e culturali degli spazi liminali: i “non-luoghi” digitali e la “modernità liquida”
La teoria dei “non-luoghi” di Augé
Il filosofo e antropologo francese Marc Augé ha coniato il termine “non-luoghi” per descrivere spazi di transito, consumo o comunicazione che mancano di identità, storia e relazioni significative, contrapponendoli ai “luoghi antropologici” che, al contrario, favoriscono l’identità, le relazioni e la storia (Augé, 2005). Esempi fisici di non-luoghi includono spazi liminali come aeroporti, autostrade, sale d’attesa, motel, camere d’albergo, stazioni, supermercati e centri commerciali, tutti ambienti progettati per funzioni specifiche ed incontri fugaci, piuttosto che per una permanenza prolungata o per l’instaurarsi di legami stabili e profondi. Questi spazi a-sociali sono caratterizzati da un’anonimità e una standardizzazione che li rendono intercambiabili a livello globale.
È proprio in ambito digitale che la teoria di Augé trova una risonanza significativa. Molte piattaforme online e ambienti virtuali, pur essendo ubiqui e funzionali, possono essere considerati “non-luoghi digitali” in quanto spesso anonimi e privi di una “carica identitaria” definita. Social network generici, forum di discussione standardizzati o aree di transito nei metaversi tendono a uniformare le esperienze e le espressioni degli utenti.
In tali ambienti, la mediazione tra gli individui e l’ambiente avviene spesso attraverso segni e testi impersonali, simili alla segnaletica stradale o alle istruzioni di un distributore automatico. L’esperienza nei non-luoghi, sia fisici che virtuali, può condurre a un profondo senso di solitudine e straniamento, e ad un’esperienza distopica e angosciante, nonostante la connettività globale e la dimensione ubiquitaria offerte dalla rete. La facilità di interazione superficiale non si traduce necessariamente in relazioni pregnanti e significative, lasciando l’individuo in uno stato di paradossale isolamento pur nell’affollamento dell’universo digitale.
La teoria della “modernità liquida” di Bauman
Attraverso il concetto di “modernità liquida”, il sociologo anglo-polacco Zygmunt Bauman offre una cornice concettuale essenziale per comprendere il contesto socioculturale in cui si colloca il fenomeno degli spazi liminali virtuali. Bauman descrive una società caratterizzata da incertezza e precarietà, e dalla natura fluida delle strutture sociali, delle relazioni e delle identità, così come dall’immaterialità dei luoghi, privi di reali interazioni sociali e simbolicamente vuoti (o meglio, svuotati di socialità).
Le istituzioni tradizionali hanno ormai perso la loro rilevanza nella vita degli individui e la vita stessa è definita da un flusso di cambiamento costante (impermanenza), lasciando l’umanità “senza ancoraggio” e in uno stato di angoscia, disorientamento, ansia perpetua e fluttuazione: tale condizione esistenziale è caratterizzata da un permanente stato di fluidità ed è, proprio per questo, definita “liquida” (Bauman, 2002). Questo stato di “perpetua transizione e insoddisfazione” si riflette perfettamente negli spazi liminali virtuali, che sono per definizione transitori e ambigui, privi di stabilità e, dunque, anch’essi “liquidi”.
La “volatilizzazione delle relazioni sociali” risulta amplificata negli ambienti digitali, dove le interazioni sono superficiali e le comunità effimere. La modernità liquida, con la sua enfasi sulla privatizzazione e individualizzazione dell’esistenza, porta ad una progressiva frammentazione e dissoluzione dei legami comunitari, dove gli individui sono “de jure” ma non sempre “de facto” liberi, ostacolati dal raggiungimento di uno status individuale pieno e soddisfacente. La ricerca di “ancore solide” in un mondo in cui tutto è un flusso in divenire diventa sempre più difficile negli spazi liminali virtuali, dove la stabilità è assente e non vi sono punti di orientamento sicuri e coordinate certe, contribuendo ad un senso di paura e incertezza esistenziale, una sorta di vuoto cosmico.
La società liquida è in un costante movimento in avanti senza una destinazione chiara, generando nell’individuo l’ansia di “essere lasciato indietro”, ovvero un senso di abbandono che risuona con la natura transitoria, precaria e inafferrabile degli spazi liminali digitali: il vuoto e la desolazione di tali spazi riflette il vuoto esistenziale dell’uomo contemporaneo.
No sense of place e ruoli sociali sfumati
Il sociologo statunitense Joshua Meyrowitz, nel suo influente lavoro No Sense of Place (1985), pubblicato agli inizi della diffusione di massa del computer, ha sostenuto che i media elettronici hanno disconnesso il luogo fisico dall’interazione sociale, alterando radicalmente i “sistemi di informazione” tradizionali, che definivano le situazioni sociali e i ruoli negli spazi socialmente condivisi. Questo significa che le situazioni sociali non sono più plasmate esclusivamente da dove ci troviamo fisicamente, dall’hic et nunc, ma piuttosto dai flussi di informazione sempre più rapidi a cui siamo esposti. L’opera di Meyrowitz, che fonde le prospettive di Marshall McLuhan ed Erving Goffman, mostra come i media digitali, oltre ad aver eliminato l’esistenza dello spazio fisico, rendendolo immateriale e trasformando la natura delle interazioni nei luoghi fisici, abbiano anche “sollevato molti dei veli di segretezza” tra diverse categorie sociali e istituzionali.
Negli spazi liminali virtuali, dove le regole tradizionali sono sospese ed i luoghi appaiono fluidi e senza senso, questa sfocatura è oltremodo amplificata. La capacità di “essere simultaneamente in diversi luoghi online” e di “processare in parallelo” le interazioni sociali (ossia la dimensione ubiquitaria della rete), dissolve il concetto stesso di spazio fisico, destabilizzando i tradizionali modelli di socializzazione e gerarchia che ivi hanno luogo, smaterializzando corpi e luoghi, rendendo le “fasi di transizione più difficili da discernere”. Questo fenomeno genera negli utenti una percezione di “assenza di luogo”, non solo fisico ma anche sociale, o meglio, di perdita del suo significato simbolico e convenzionale, dove i ruoli sociali diventano più fluidi e negoziabili. Sebbene ciò possa liberare gli individui da ruoli restrittivi, permettendo l’espressione di punti di forza invece che di debolezze (potendo anche camuffare la propria identità, fingendosi chi non si è), tale condizione liminale esistenziale può anche generare nuove tensioni, frustrazioni e crisi d’identità, che percepiamo come una sensazione di vertigine e di angoscia profonde ed inspiegabili. In un simile contesto, la validazione del sé diventa sempre più dipendente dall’attenzione e dalla visibilità online, espressa sotto forma di like, share o retweet, creando una vulnerabilità psicologica dell’individuo legata alla percezione sociale digitale (si esiste solo se si è “al di là dello schermo”), che è fragile e incompleta proprio perché può confrontarsi solo con una moltitudine di avatar (community) in uno spazio liminale indefinito, che è un luogo immateriale di confine, alimentando compulsivamente e ossessivamente il bisogno di continue conferme, organicamente misurabili come i punti su un tabellone.
Comunità online, identità e influencer virtuali
La formazione di comunità online avviene attorno a scopi e interessi condivisi, offrendo un importante supporto sociale e facilitando lo scambio di conoscenze nell’era digitale, stimolando fenomeni di aggregazione in piazze virtuali e immateriali. Tuttavia, la natura liminale di molti ambienti digitali può influenzare la profondità e la stabilità di tali connessioni, portando alla formazione di “legami sociali temporanei” e di relazioni deboli. A differenza delle comunità fisiche, dove la coesione è spesso rafforzata da una lingua comune, le comunità virtuali sono più fluide e meno radicate, con confini porosi e una minore necessità di “backstage” o luoghi fisici di interazione.
La creazione di “identità virtuali” come proiezione immateriale di persone reali e la negoziazione costante tra il “sé online” e il “sé offline” in una zona liminale al confine tra reale e virtuale, sono sfide cruciali per gli utenti digitali. La possibilità di creare avatar e identità personalizzate offre una libertà senza precedenti nell’espressione del sé, ma introduce anche rischi significativi, come il catfishing e i deepfake (ovvero l’inganno tramite false identità), aumentando la necessità di autenticità e verifica nel mondo reale. Questa fluidità spaziale e identitaria, sebbene liberatoria, può amplificare la “crisi di identità” e il senso di solitudine, poiché la validazione del sé è sempre più legata all’attenzione e ai feedback online, al di fuori dei contesti fisici d’interazione e confronto sociale.
Il fenomeno dei cosiddetti “influencer virtuali” (VIs) rappresenta un’ulteriore ed affascinante manifestazione di identità liminali in un universo digitale immateriale. Si tratta di entità digitalizzate e potenziate dall’intelligenza artificiale, dotate di un aspetto antropomorfizzato, che hanno corpi umani, ruoli sociali e una propria identità, e sono capaci di interagire con gli umani influenzandone i comportamenti online con ricadute, a volte anche tragiche, nella realtà. I VIs occupano gli spazi liminali, essendo creati da sofisticati algoritmi, ma riflettono emozioni e desideri profondamente umani, dissolvendo ulteriormente i confini tra reale e virtuale. La loro esistenza digitale gli conferisce una forma di “agentività tecno-affettiva”, permettendo loro di apparire moralmente responsabili e di agire esattamente come le loro controparti umane. Questo fenomeno evidenzia come gli spazi liminali virtuali non solo ospitino, ma attivamente modellino nuove forme di identità e interazione sociale, rendendo la distinzione tra reale e virtuale sempre più complessa e problematica.
Una considerazione importante è che la liminalità virtuale non è solo un riflesso, ma un amplificatore di solitudine della modernità liquida. Marc Augé ha identificato la solitudine come una conseguenza intrinseca dei non-luoghi fisici, ambienti di transito che per loro natura non favoriscono legami significativi. Zygmunt Bauman ha invece descritto un’umanità “senza ancoraggio”, ansiosa, angosciata e disorientata, proprio perché immersa nella modernità liquida, caratterizzata dalla smaterializzazione dei luoghi fisici e degli spazi d’interazione sociale, ma anche dalla volatilizzazione delle relazioni sociali.
Gli spazi liminali virtuali, vuoti, transitori ed effimeri, incarnano esteticamente e funzionalmente questa solitudine e fluidità, trasmettendo angoscia e malessere all’uomo contemporaneo. La loro accresciuta popolarità durante la pandemia di COVID-19 suggerisce una profonda risonanza con un’esperienza collettiva di isolamento e transizione, dove la connettività digitale, pur onnipresente, non si traduce sempre in intimità o radicamento. Se gli utenti cercano una connessione sociale nel digitale, ma incontrano prevalentemente “non-luoghi” o spazi che evocano isolamento, transitorietà e incertezza, ciò può contribuire ad un senso di alienazione, ansia e difficoltà nel formare legami sociali stabili nel mondo materiale, rendendo la ricerca di stabilità e appartenenza ancora più ardua in un’epoca già di per sè “liquida”. Joshua Meyrowitz ha postulato una disconnessione fondamentale tra spazi materiali e spazi virtuali (e le connesse interazioni sociali) a causa dei media digitali, che hanno portato ad una perdita del senso del luogo.
Questa fluidità si estende anche alle identità online, dove gli individui possono creare e negoziare molteplici “sé” in luoghi virtuali diversi. La facilità con cui si possono assumere ed abbandonare ruoli e identità negli spazi liminali virtuali contribuisce a una “crisi di identità” sociale diffusa, poiché il sé non è più ancorato a un luogo fisico o a un ruolo determinato in un continuum spazio-temporale: “nessun senso del luogo” equivale a “nessun senso di appartenenza ad un luogo”. La costante esposizione alla validazione online, attraverso like e share, non può che esacerbare tale condizione, spingendo gli individui a modellare la propria identità non in base a un senso interiore di autenticità (che dovrebbe essere socialmente validato nella realtà), ma in funzione di convalide online. Questo fenomeno suggerisce che la stabilità psicologica dell’utente nell’universo digitale potrebbe dipendere dalla capacità di navigare e integrare queste identità fluide, piuttosto che cercare una stabilità reale ormai irraggiungibile, e che la ricerca di autenticità diventa un compito sempre più complesso in un mondo dove i confini del sé sono costantemente negoziati e ridefiniti all’interno di spazi liminali virtuali.
Tabella 2: Sintesi delle teorie di Augé, Bauman e Meyrowitz in relazione agli spazi liminali virtuali
| Autore/Teoria | Concetto fondamentale | Applicazione della teoria agli spazi liminali virtuali | Impatto socio-psicologico |
| Marc Augé / Non-luoghi | Spazi di transito anonimi, senza identità o storia, progettati per funzioni specifiche e incontri effimeri. | Piattaforme social generiche, aree di transito in giochi/metaversi, interfacce-utente standardizzate. | Senso di solitudine, alienazione, esperienza “distopica” di anonimato e mancanza di stabilità e radicamento. |
| Zygmunt Bauman / Modernità liquida | Società in costante flusso, incertezza, precarietà, relazioni e identità fluide, assenza di ancore stabili. | Ambienti digitali che amplificano la transitorietà e l’ambiguità, contenuti “liquidi” e adattivi. | Ansia da “essere lasciati indietro”, volatilizzazione delle relazioni sociali, difficoltà a trovare “ancore” stabili, superficialità delle connessioni. |
| Joshua Meyrowitz / No sense of place | I media elettronici disconnettono luogo fisico e ruolo sociale, sfocano distinzioni di età/genere/autorità, rendono le informazioni pervasive. | Identità fluide online, interazioni “parallel process” in ambienti multipli, dissoluzione delle gerarchie tradizionali e dei riti di passaggio. | Crisi di identità, nuove tensioni sociali, dipendenza dalla validazione online, “nessun senso del luogo” fisico e sociale, perdita di confini tra pubblico e privato. |
Conclusioni
Il fenomeno degli spazi liminali virtuali nell’era digitale costituisce senza dubbio un ambito di ricerca di straordinaria complessità e rilevanza, le cui implicazioni si estendono ben oltre la mera estetica digitale per toccare le profondità della psiche umana, la natura stessa della conoscenza e le dinamiche sociali. Attraverso l’integrazione di prospettive diverse, tratte dalla psicologia digitale, dall’epistemologia informatica e dalla filosofia della scienza, è emersa una comprensione sfaccettata e multidimensionale di questi spazi di transizione nell’attuale modernità.
Dal punto di vista psicologico e fenomenologico, gli spazi liminali virtuali sono capaci di indurre un’ampia gamma di risposte psichiche e cognitive. La loro intrinseca ambiguità e l’assenza di chiari punti di riferimento possono generare angoscia e disorientamento nell’osservatore, amplificando la sensazione di “valle perturbante”, dove il noto si trasforma in ignoto a causa di una mancanza di corrispondenza con contesti normalmente attesi. Questo non è semplicemente un effetto estetico, ma un meccanismo cognitivo attivo (spesso deliberatamente utilizzato) che sfrutta i meccanismi percettivi e le aspettative umane per generare disagio.
Le risposte emotive sono spesso ambivalenti, mescolando inquietudine e ansia con una nostalgia malinconica per un passato ormai irrecuperabile. Gli studi sui videogiochi hanno dimostrato come il design intenzionale possa sfruttare la liminalità per indurre stati di immersione (flow) e persino di “morte simbolica” e “rinascita” dell’identità del giocatore. Tuttavia, è fondamentale riconoscere che la liminalità virtuale agisce come “laboratorio psichico”, in grado di condurre tanto ad esiti positivi (sviluppo di strategie di coping, creatività) quanto negativi (dissociazione, depersonalizzazione), a seconda del contesto e della sensibilità percettiva dell’utente.
A livello epistemologico e ontologico, gli spazi liminali virtuali sfidano le categorie fondamentali di realtà e conoscenza. L’epistemologia informatica rivela come la VR offra nuove opportunità per l’acquisizione di una conoscenza esperienziale e “incarnata” (una sorta manuale di “istruzioni per l’uso” della realtà), ma al contempo sollevi questioni sulla credibilità e distinguibilità tra reale e virtuale, rendendo indispensabile una maggiore “consapevolezza digitale” e lo sviluppo di capacità critiche e di discernimento nell’utente, per metterlo in grado di muoversi agevolmente negli spazi liminali senza ansie o paure.
La prospettiva di David Chalmers, secondo cui gli oggetti e gli eventi virtuali sono perfettamente reali, unita all’ipotesi della simulazione, suggerisce che gli spazi liminali virtuali non siano solo finzioni, ma potrebbero essere manifestazioni di una realtà ibrida, o addirittura strati diversi all’interno di una simulazione più ampia, secondo una visione “quantistica” della realtà. Questa condizione di “stress test” epistemologico ci costringe a riconsiderare cosa significhi “sapere” ed “essere” in un mondo sempre più interconnesso, al confine tra fisico e digitale, materiale e virtuale.
Infine, anche le implicazioni sociologiche e culturali degli spazi liminali virtuali sono apparse cruciali. L’applicazione della teoria dei “non-luoghi” di Marc Augé rivela come molte piattaforme e ambienti digitali replichino la standardizzazione e l’anonimato degli spazi fisici di transito, contribuendo ad un senso di solitudine e alienazione nonostante la connettività globale. Il concetto di “modernità liquida” di Zygmunt Bauman fornisce il contesto per comprendere come questi spazi immateriali riflettano ed amplifichino l’incertezza e la fluidità delle relazioni e delle identità nella società contemporanea, dove la ricerca di “ancore solide” diventa sempre più ardua. Le analisi di Joshua Meyrowitz sul “nessun senso del luogo” evidenziano come i media digitali dissolvano i confini tra ruoli e luoghi fisici, portando a identità fluide e negoziabili online, in luoghi virtuali immateriali. Questa fluidità, sebbene offra maggiori libertà espressive, rischia di esacerbare la “crisi di identità” individuale e sociale e la sua dipendenza dalla validazione online, alimentando l’utilizzo degli spazi liminali virtuali come nuovi luoghi d’interazione sociale.
In sintesi, gli spazi liminali virtuali sono molto più che semplici scenografie estetiche della tarda modernità: sono ambienti dinamici che modellano attivamente la nostra percezione, le nostre emozioni e il nostro senso di sé e di appartenenza in un mondo sempre più immateriale. Questi spazi incarnano la transizione e l’ambiguità che definiscono gran parte dell’esperienza umana nell’era digitale, esprimendo appieno il senso di solitudine dell’uomo contemporaneo. La loro crescente pervasività e gli effetti psicologici indotti nell’utente richiedono un’attenzione continua non solo da parte della ricerca accademica, ma anche da parte dei designer di ambienti virtuali, dei game designer e dei policy maker, al fine di massimizzare il potenziale trasformativo positivo di questi spazi immateriali e mitigare i rischi di disorientamento, angoscia, alienazione e crisi d’identità degli utenti. La comprensione di tali fenomeni è, dunque, cruciale per poter navigare consapevolmente e con spirito critico le complessità di un futuro sempre più ibrido e immateriale, dove i confini tra reale e virtuale sembrano essersi ormai dissolti.
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