Si apprende in questi giorni che il tribunale di Torino, rigettando un ricorso, in più con condanna per lite temeraria, ha censurato una pratica sempre più diffusa: l’atto era stato scritto con l’intelligenza artificiale e quindi denso di errori. Pratica contro cui ora i giudici, come anche il legislatore – vedi le previsioni nella recente legge sull’AI – cominciano a reagire.
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Ricorso rigettato dal Tribunale di Torino, uso di AI
Vediamo bene la vicenda.
Con atto del 5 febbraio 2025 depositato presso il Tribunale di Torino – in funzione di Giudice del Lavoro- il ricorrente impugnava un’ingiunzione di pagamento contenente svariati avvisi di addebito in materia previdenziale, formulando diverse eccezioni fra cui la decadenza del potere impositivo, l’incompetenza territoriale, l’inesistenza per vizi relativi alla sottoscrizione, la mancata indicazione dei criteri di calcolo degli interessi, l’inesistenza della notifica degli avvisi di addebito, l’intervenuto silenzio assenso e la prescrizione dei crediti.
Si costituivano le parti resistenti impugnando e contestando le doglianze avversarie ed il Tribunale, con articolata motivazione, rigettava il ricorso con sentenza del 16 settembre 2025 in cui prendeva espressa posizione in merito all’utilizzo dell’IA ai fini della redazione dell’atto introduttivo.
Le motivazioni del Tribunale di Torino
Va precisato, per dovere professionale, che il Tribunale ha rigettato il ricorso in quanto le controparti avevano dimostrato la corretta notifica degli atti presupposti all’ingiunzione di pagamento, pertanto il ricorrente è stato dichiarato decaduto dalla possibilità di impugnare nel merito le cartelle, attesa la scadenza del termine 40 giorni previsto dall’art. 24 d.lgs. 46/1999 e applicabile all’avviso di addebito di cui all’art. 30 d.lgs. 78/2010 a mente di diverse pronunzie della Suprema Corte (ex multis, Cass., sez L. , sent. n. 8198/2023).
In ogni caso il Tribunale ha argomentato la decisione precisando, in prima battura, che le doglianze relative al merito della pretesa creditoria ed alla validità̀ formale degli avvisi di pagamento erano state espresse in «in termini del tutto astratti, privi di connessione con gli specifici titoli impugnati e che, pertanto, risultano in larga parte inconferenti », rendendo una robusta censura, in primis, in ordine alla modalità di redazione del ricorso per mancanza di specificità e di connessione con i singoli addebiti di pagamento.
Va precisato, oltretutto, che il Tribunale alpino ha anche puntualmente censurato le ulteriori eccezioni formulante, tenuto anche conto che la ricorrente non ha contestato le difese avversarie, comportamento processuale evidentemente ritenuto rilevante ai fini della condanna per lite temeraria.
Ma perché la condanna per lite temeraria?
Prima di capire le motivazioni dei giudici torinesi, occorre fare un passo indietro precisando che il codice di procedura civile stabilisce che, in caso di soccombenza totale o parziale, il Giudice può porre a carico della parte soccombente le spese c.d. lite, ossia quelle sostenute dalla controparte per difendersi e che il giudice deve quantificare.
Ci sono dei casi, tuttavia, in cui il Giudice può comminare una condanna, per così dire, “punitiva” a sensi dell’art. 96 c.p.c. il cui primo comma così statuisce «Se risulta che la parte soccombente ha agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave, il giudice, su istanza dell’altra parte, la condanna, oltre che alle spese, al risarcimento dei danni, che liquida, anche d’ufficio, nella sentenza.»
Il successivo comma 3 -applicato al caso in esame- così precisa: «In ogni caso, quando pronuncia sulle spese ai sensi dell’articolo 91, il giudice, anche d’ufficio, può altresì condannare la parte soccombente al pagamento, a favore della controparte, di una somma equitativamente determinata».
La norma consente al Giudice di imporre un indennizzo forfettario alla parte soccombente -anche in assenza di specifica richiesta- e ha natura di sanzione pecuniaria contro chi abusa dello strumento processuale, aggravando inutilmente il corso della giustizia con imprudenza, colpa o dolo (cfr. Trib. Roma, 28 settembre 2017; Cass. Civ., 8 febbraio 2017, n.3311; Cass. Civ., 19 aprile 2016, n. 7726).
Infine, il comma 4 precede una ulteriore sanzione da 500 a 5000 euro da versarsi in favore dalla Cassa delle ammende, che la dottrina ha pacificamente ritenuto quale sanzione punitiva di stampo anglosassone al fine di scoraggiare il cd. “abuso del processo”.
Basandosi, pertanto, su tali istituti, il Tribunale ha condannato la ricorrente al pagamento delle spese processuali per euro € 4.216 oltre oneri in favore di ciascun resistente oltre una ulteriore somma di euro 500 a titolo di responsabilità aggravata, oltre euro 500 in favore della Cassa delle Ammende.
La questione dell’uso dell’AI per gli atti giudiziari
Come anticipato, le motivazioni di queste ulteriori condanne hanno stigmatizzato le importanti criticità propriamente giuridiche del ricorso, ma anche le modalità con cui è stato scritto, ossia con il supporto dell’IA.
Sul punto il Tribunale così motiva:
«La ricorrente ha infatti agito in giudizio con malafede o, quantomeno con colpa grave, dal momento che ha proposto opposizione nei confronti di avvisi di addebito che le erano stati tutti notificati in precedenza, già oggetto di plurimi atti di esecuzione anch’essi tutti regolarmente notificati ed ha svolto – tramite un ricorso redatto “col supporto dell’intelligenza artificiale”, costituito da un coacervo di citazioni normative e giurisprudenziali astratte, prive di ordine logico e in larga parte inconferenti, senza allegazioni concretamente riferibili alla situazione oggetto del giudizio – eccezioni tutte manifestamente infondate»
Appare chiaro che i Giudici stanno rilevando un uso (o meglio l’abuso) sempre più frequente dei software di intelligenza artificiale per la redazione di atti giudiziari, facendo emergere importanti criticità in merito; va detto che, a differenza della pronunzia del Tribunale di Firenze -di cui ci eravamo già occupati- sembrerebbe che in questo caso si sia voluto dare un forte segnale anche agli avvocati, che hanno sempre l’obbligo di controllare i propri atti prima di licenziarli.
La motivazione è chiara, anche se non specifica come sia stato accertato l’utilizzo dell’IA (ad esempio tramite software di confronto, link nel testo, ecc.), elemento di sicuro interesse ai fini di una completa indagine della pronunzia.
Un precedente importante e una conferma nella legge AI italiana
La sentenza in esame rappresenta, molto probabilmente, un precedente importante cui altri giudici potrebbero conformarsi, anche se va detto che si tratta di pronunzia non definitiva, quindi potenzialmente soggetta a riforme nei gradi successivi.
Sta di fatto che, se da un lato l’avvocato dispone di potentissimi strumenti per velocizzare il proprio lavoro, gli stessi non possono sostituire la centralità della prestazione intellettuale del professionista.
Appare sibillino, a tal proposito, il DLL sull’intelligenza artificiale (approvato il 17 settembre 2025 da Senato e non ancora pubblicato) al cui art. 13 stabilisce che «L’utilizzo di sistemi di intelligenza artificiale nelle professioni intellettuali è finalizzato al solo esercizio delle attività̀ strumentali e di supporto all’attività professionale e con prevalenza del lavoro intellettuale oggetto della prestazione d’opera. ».
Infine, il successivo comma 2 impone al professionista di comunicare chiaramente al cliente qualora intenda ricorrere a sistemi di intelligenza artificiale durante lo svolgimento del compito assegnato, la cui omissione, a parere dello scrivente, potrebbe da luogo anche a responsabilità professionale.
Staremo quindi a vedere, come il mondo delle professioni raccoglierà questo “richiamo” all’ordine, sicuramente resosi necessario non per limitare il lavoro del professionista, ma per assicurare una qualità del servizio a tutela del cliente che, per gli avvocati, riveste natura di servizio pubblico di rilevanza costituzionale, a mente della granitica giurisprudenza della Corte costituzionale in relazione al diritto alla difesa.











