INTELLIGENZA ARTIFICIALE

Dall’intelligenza integrale alle competenze: guida all’introduzione dell’IA in azienda



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L’integrazione dell’AI nelle aziende può essere ottimizzata attraverso lo sviluppo di competenze avanzate e un approccio all’intelligenza integrale, trasformando le sfide in opportunità per innovare e migliorare la competitività nel panorama economico italiano

Pubblicato il 19 nov 2024

Giuseppe Torre

Responsabile scientifico dell’Osservatorio 4.Manager | Professore di Etica, AI e Management alla Pontificia Università Antonianum, Fondatore e Direttore di Data Hubs



intelligenza artificiale e integrale (1)

Gli studi che da diversi anni realizziamo per 4.Manager (ente bilaterale di Confindustria e Federmanager) che mirano a comprendere come le tecnologie e le “intelligenze artificiali” stiano modificando il panorama competitivo e manageriale del nostro Paese, mettono sempre più chiaramente in luce alcune straordinarie opportunità sia per l’ecosistema produttivo italiano, sia per il benessere delle presenti e future generazioni che si affacceranno al mondo del lavoro.

IA, intelligenza umana e futuro del lavoro

Il primo risultato di ricerca è che queste straordinarie tecnologie, se osservate da più angolazioni, oltre a quella tecnologica, sono in grado di enfatizzare “l’intelligenza umana” individuale e collettiva.

Ad esempio, il quesito del momento “L’AI prenderà il posto dei lavoratori umani?” è un quesito decisamente fuorviante. La domanda corretta dovrebbe essere: “Come vogliamo che sia il nostro futuro competitivo e occupazionale alla luce delle potenzialità offerte dalle nuove tecnologie?”.

Perché l’Italia ha un vantaggio

D’altra parte, l’Italia, soprattutto se analizzata nel più ampio contesto europeo, gode di una combinazione più unica che rara di intelligenze umane individuali, collettive, di filiera e di ecosistemi produttivi, talenti tecnologici e creativi, risorse culturali immateriali, umanistiche e scientifiche, dati ampiamente sottoutilizzati o ancora tutti da scoprire, esplorare e valorizzare anche con l’ausilio delle intelligenze artificiali.

I nostri sistemi produttivi possono essere considerati vere e proprie miniere millenarie di saperi, abilità e informazioni, in gran parte ancora nascoste agli “occhi” dei sistemi di addestramento delle attuali tecnologie di intelligenza artificiale. Osservati nella loro varietà e complessità, queste risorse (individuali, collettive e aziendali) rendono le opportunità offerte dall’AI particolarmente concrete e significative per il nostro futuro economico, sociale e culturale.

Inoltre, l’AI basata sul deep learning si presta particolarmente ad essere arricchita da “braccia”, “gambe”, “occhi”, “orecchie”, utensili, ecc. La spiccata propensione di questi sistemi ad apprendere e interagire a 360 gradi con il mondo esterno, pone noi italiani in una posizione di vantaggio in quanto particolarmente bravi proprio nel produrre motori, sensori, macchine complesse, utensili, ecc. Soprattutto, le nostre filiere si intersecano in micro-nodi produttivi (es. macchine per il packaging, utensili, robotica, meccatronica, ecc.) che sono dei veri e propri preziosi giacimenti di innovazione che molto facilmente possono creare interfacce per le AI di ultima generazione.

Tutto il potenziale dell’IA per le imprese italiane

Tutti questi fattori fanno pensare che l’introduzione dell’AI nelle imprese italiane, nel turismo, e nella valorizzazione del patrimonio culturale potrebbe incrementare non solo la competitività, ma anche il numero di occupati e il benessere dei lavoratori. I motivi sono diversi, e uno lo abbiamo visto in precedenza, ma l’AI potrebbe anche aiutarci a valorizzare sempre più i nostri prodotti e il nostro territorio, spesso già unici per design, gusto, esclusività ecc.

L’AI ha inoltre il potenziale di “rinfrescare”, rinnovare e riaccendere l’entusiasmo anche in organizzazioni apparentemente ingrigite dall’età o dalla routine, oltre a costituire un notevole incentivo a immaginare nuovi modelli di business e nuovi modelli organizzativi anche in settori produttivi “tradizionali”.

Ragionare in termini di “intelligenza integrale”

Cogliere queste opportunità significa però ragionare in termini di “intelligenza integrale” e di dedicare risorse e creatività per affrontare alcune grandi sfide nel campo delle competenze, dell’adattamento dei sistemi normativi e soprattutto nella governance pubblica e privata di complessi processi evolutivi dell’economia, della società e persino della cultura. Occorrerà, ad esempio:

  • Riqualificare moltissimi manager, lavoratori, educatori e formatori per adattarsi ai nuovi ruoli creati dall’AI nel campo dei dati, degli algoritmi, dell’infrastruttura tecnologica, dei nuovi modelli pedagogici, didattici, di business e organizzativi;
  • Investire in misura mai sperimentata in tecnologie, nuove competenze e nel sistema di trasferimento tecnologico;
  • Mitigare il rischio del divario che potrebbe crearsi tra imprese e persone che utilizzeranno l’AI e quelle che non lo faranno.
  • Aumentare l’attenzione alla cybersicurezza e alla protezione dei dati.
  • Dedicare risorse ingentissime alla raccolta e tutela dei dati, che sono la base di ogni AI.
  • Ricominciare a ragionare in termini “filosofici” per individuare un’erica per l’Intelligenza Artificiale.

È pertanto importante maturare la consapevolezza che l’integrazione e l’implementazione efficace dell’AI nella società e nelle imprese italiane richiede uno sforzo senza precedenti di ripensamento dell’economia e della società, di creazione di una nuova visione condivisa del futuro di questo Paese ma soprattutto non può prescindere da un solido substrato di competenze di altissimo livello sia nella governance pubblica di questi fenomeni, sia in campo manageriale (pubblico e privato), sia in ambito scientifico, umanistico e filosofico.

Skill intelligence: le competenze definite in modo granulare

Non a caso l’Osservatorio 4Manager ha messo a disposizione delle parti sociali un sistema di skill intelligence che consente di definire sia le competenze, attuali future, ad un livello di granularità mai sperimentato, sia i profili manageriali e lavorativi più ricercati e con più difficoltà di reperimento, sia le correlazioni tra micro-competenze e tra queste, le aree aziendali, i settori produttivi, il digitale e il green. L’auspicio è che si possa creare di una base di conoscenza strutturata e dinamica delle competenze, paragonabile a una “biblioteca” dalla quale attingere le abilità per lo sviluppo e l’applicazione non solo dell’AI e delle tecnologie digitali, ma anche di tutte le altre applicazioni correlate, dalla sostenibilità all’internazionalizzazione delle imprese, dal turismo alla salute, dalla sicurezza alla governance dei dati.

Il grado e la qualità di diffusione delle AI nelle imprese

Dal punto di vista statistico, abbiamo verificato che il grado e la qualità di diffusione delle AI nelle imprese, soprattutto in quelle più piccole, è correlata al grado di digitalizzazione delle stesse. Secondo l’Istat, il 61% delle PMI italiane ha adottato almeno 4 su 12 attività digitali (dati 2023), ma solo il 15% delle PMI ha una digitalizzazione avanzata, il 5,0% utilizza l’AI e solo l’1,5% lo fa in modo “evoluto”.

Abbiamo approfondito la conoscenza di questo particolare gruppo di imprese e abbiamo scoperto che negli ultimi 12 mesi sono aumentate del 30%.

In quest’ambito le differenze a livello territoriale non appaiono significative: sembrano essere essenzialmente legate alle difficoltà di investimento in strutture e capitale umano, difficoltà che si traducono inevitabilmente in divari di carattere territoriale. La digitalizzazione delle imprese con più di 10 addetti è leggermente più alta nel Nord-Ovest (20,9% alto, 3,1% molto alto) e nel Nord-Est (22,2% alto, 3,7% molto alto) rispetto al Centro (18,2% alto, 2,6% molto alto) e al Sud e Isole (13,3% alto, 3,4% molto alto).

Gli ostacoli alla diffusione dell’Intelligenza Artificiale nelle imprese italiane

Interessanti sono le informazioni relative agli ostacoli alla diffusione dell’Intelligenza Artificiale nelle imprese italiane:

  • La mancanza di competenze è vissuta come un ostacolo da più di un’impresa su due (55,1%).
  • I costi troppo elevati (49,6%), indicati da un’impresa su due nelle “Costruzioni”, con valori più elevati nelle piccole imprese e nelle aree geografiche del Centro e del Sud Italia.
  • La indisponibilità o la qualità dei dati necessari per l’utilizzo delle tecnologie di AI rappresentano un ostacolo per il 45,5% delle imprese.
  • L’incompatibilità con apparecchiature, software o sistemi esistenti è segnalata nel 40,4% dei casi.
  • Il rischio normativo e la mancanza di chiarezza sulle conseguenze legali è considerata un ostacolo da quattro imprese su 10.
  • Le preoccupazioni relative alla violazione della protezione dei dati e della privacy, segnalate dal 37,2% delle imprese.

Le variabili che influenzano l’adozione dell’AI

Un dato interessante è che in gran parte delle imprese che hanno partecipato allo studio, l’adozione dell’AI va oltre il semplice aggiornamento tecnologico, coinvolgendo l’intera struttura aziendale, il modello organizzativo e il modello di business. In particolare, l’indagine rivela connessioni chiave tra le variabili che influenzano l’adozione dell’AI:

  • Il successo dell’implementazione dell’AI dipende da una combinazione di fattori operativi e organizzativi, oltre che dal supporto strategico della leadership e dalla formazione.
  • Le aziende che investono maggiormente nella gestione dei dati interni tendono anche a impiegare in modo più efficace l’AI.
  • L’adozione dell’AI ha un impatto evidente sulle attività quotidiane. Laddove l’AI è utilizzata in modo estensivo, le operazioni aziendali sono profondamente trasformate.
  • L’impatto dell’AI si estende oltre le operazioni quotidiane, influenzando l’intera struttura organizzativa.
  • La leadership gioca un ruolo cruciale in quanto facilita l’integrazione dell’AI nelle operazioni quotidiane ed è determinante anche per la sua adozione complessiva e per affrontare i cambiamenti organizzativi necessari.
  • La qualità della formazione risulta un altro fattore chiave per l’adozione dell’AI. La formazione non solo aumenta la competenza tecnica, ma facilita anche l’integrazione del cambiamento, riducendo le resistenze e migliorando l’adattamento al nuovo ambiente lavorativo.

Differenze nell’adozione dell’AI tra imprese a gestione familiare e manageriale

L’analisi quantitativa mostra anche differenze significative nell’adozione dell’AI tra imprese a gestione familiare e quelle con gestione manageriale. Le imprese familiari presentano un approccio più conservativo, con una minore connessione al ruolo della leadership e una maggiore dipendenza da Associazioni di categoria ed efficacia della formazione. L’adozione dell’AI è graduale, concentrata su miglioramenti specifici, come l’Impatto sulle attività lavorative. Al contrario, le imprese con gestione manageriale adottano un approccio più proattivo, con leadership e management fortemente coinvolti, puntando su una visione a lungo termine e dimostrando maggiore indipendenza dal supporto esterno.

Tali differenze riflettono approcci distinti all’innovazione: le imprese familiari privilegiano una strategia più cauta e operativa, mentre quelle manageriali considerano l’AI come una leva strategica per crescita e innovazione a lungo termine.

Leve per lo sviluppo dell’AI

Favorire l’acquisizione di tecnologie AI attraverso incentivi è importante, specialmente per le PMI, ma come insegna l’esperienza Industria 4.0 stimolare gli investimenti in hardware e software potrebbe non essere sufficiente a determinare il salto di qualità. Ciò che davvero conta per le tecnologie AI sono:

  • Le competenze manageriali e tecniche sia sull’AI, sia sul dominio nel quale va ad operare.
  • La chiarezza e razionalità del quadro normativo e di privacy.
  • La capacità di immaginare un approccio etico by design.
  • L’infrastruttura tecnologica e per accogliere e organizzare i dati.
  • La sicurezza informatica.

L’investimento sul capitale umano rappresenta, dunque, la leva principale per lo sviluppo dell’AI nelle imprese. Ciò implica rafforzare i programmi di formazione continua, sfruttando al meglio i fondi interprofessionali e il Fondo nuove competenze.

Un’altra leva fondamentale è il sistema di trasferimento tecnologico, in quest’ambito le imprese da noi intervistate hanno spesso citato quello che sembrerebbe essere uno dei pochi presidi attualmente a disposizione di imprenditori e manager: il Digital Innovation Hub di Confindustria. Questi presidi territoriali sono cruciali anche per favorire l’ingresso nelle imprese di manager e di giovani tecnici e laureati.

Competenze nell’era AI: tra “sapere” e “saper fare”

Il tema dell’intelligenza umana (individuale e collettiva) e delle competenze risulta centrale nell’ambito dell’AI, che richiede un rapporto indissolubile tra il “sapere” e il “saper fare”.

Molte conoscenze chiave si traducono direttamente in competenze pratiche, evidenziando lo stretto legame tra teoria e l’approdo pratico di applicazione. È importante sottolineare che, a differenza di altri campi o settori, l’AI impone un livello di competenze e conoscenze significativamente più elevato per tutti gli attori coinvolti.

Anche nel caso in cui l’azienda dovesse attingere risorse AI da fornitori esterni (Artificial Intelligence as a Service) è più che evidente che manager e imprenditori devono essere pienamente consapevoli del cosa stanno utilizzando (quale modello di AI), che caratteristiche ha, quali dati usa e come li utilizza per produrre l’output.

Questo campo, pertanto, non ammette approssimazioni o conoscenze superficiali: la natura complessa e in rapida evoluzione dell’AI richiede una comprensione profonda e multidisciplinare, nonché la capacità di applicare queste conoscenze in modo pratico e innovativo. In sostanza, nel contesto dell’AI non è possibile “barare” o affidarsi a competenze approssimative; intelligenza umana e padronanza autentica delle conoscenze e delle competenze diventano un requisito imprescindibile per operare efficacemente in questo settore.

Competenze manageriali nel campo dell’AI

Nell’ambito di questo studio, un’osservazione di particolare rilevanza emerge dall’analisi delle competenze manageriali nel campo dell’AI. Si osserva un primo nucleo di competenze condivise tra i diversi profili manageriali, delineando quindi così un “sapere minimo condiviso” che potrebbe costituire il fondamento imprescindibile per tutti i manager, indipendentemente dal settore di riferimento.

Questo sapere minimo condiviso comprende competenze tecnologiche, governance dei dati, content management, marketing digitale, sicurezza e compliance, etica e competenze organizzative. Tale varietà riflette la natura interdisciplinare del ruolo manageriale nell’AI, richiedendo una sinergia tra conoscenze tecniche, capacità analitiche e consapevolezza etica e normativa. L’identificazione di queste macro-aree può inoltre costituire una base per lo sviluppo di programmi formativi mirati e per la valutazione delle competenze organizzative, essenziali per l’efficacia integrazione dell’AI nei diversi contesti di impresa.

La domanda di profili e competenze manageriali per l’AI: imprese “user” e “producer”

La domanda di profili e competenze manageriali per l’AI varia in modo significativo tra imprese “user” e “producer”. Le imprese user, spesso di piccole dimensioni, utilizzano soluzioni AI preesistenti e richiedono consulenti AI, esperti di implementazione e specialisti di formazione. Le imprese producer, che sviluppano soluzioni AI proprie, necessitano di profili più specializzati come AI Systems Engineer, AI Security Engineer e Machine Learning Engineer. Emergono anche nuovi ruoli manageriali, come l’AI Innovation Manager e l’AI Ethics Officer. Inoltre, figure manageriali tradizionali come IT Manager e Marketing Manager richiedono sempre più competenze AI.

Inoltre, lo sviluppo delle tecnologie basate su AI è strettamente legato al trattamento di grandi quantità di dati. Pertanto, le figure professionali essenziali per l’AI includono tecnici e manager impegnati nelle diverse fasi del ciclo di sviluppo dei dati: acquisizione digitale, storage, sicurezza e governance, ecc.

Per le imprese user, le competenze essenziali sono relativamente poche. Per le piccole imprese o quelle senza un’infrastruttura informatica dedicata al trattamento dei dati, l’utilizzo di piattaforme di intelligenza artificiale sul mercato potrebbe richiedere figure professionali leggermente diverse o con un focus differente rispetto a quelle menzionate in precedenza.

Le imprese che intendono produrre soluzioni con tecnologie di AI applicate al proprio processo produttivo, non possono prescindere dal trattamento estensivo dei dati, per la cui gestione sono necessarie le figure e le competenze specifiche. I profili specialistici impegnati nell’acquisizione, nello stoccaggio, nella gestione e nella sicurezza dei dati consentono ai Data scientist di sviluppare applicazioni AI. Oltre alle figure che gestiscono le infrastrutture tecnologiche e la governance dei big data, emergono altre figure ancora più specialistiche.

Skill intelligence manageriale

Per ciascuno dei profili manageriali che abbiamo determinato come cruciali per l’AI siamo stati in grado di identificare le conoscenze e le competenze associate secondo la tassonomia europea delle competenze (ESCO), consentendo così di individuare i saperi che accompagnano le diverse figure manageriali.

Partiamo con dire che l’AI richiede profili manageriali dotati di un mix di competenze tradizionali e specialistiche utili a comprendere i sistemi AI, gestire progetti complessi, padroneggiare la data science e possedere forti competenze di business e leadership. Sono essenziali anche l’etica, la gestione del rischio, l’apprendimento continuo e il pensiero critico.

Con l’aumentare della dimensione aziendale, diventa strategico il ruolo del manager inteso come responsabile del processo o di parti del processo di sviluppo dell’AI. In sostanza, una figura manageriale incaricata di gestire parte o tutto il programma di sviluppo dell’AI in azienda dovrebbe coniugare competenze manageriali “classiche” con un alto livello di specializzazione o conoscenze nel campo dell’AI. Questo portafoglio di saperi estremamente complesso è scarsamente diffuso e disponibile sul mercato italiano.

Entrando nel dettaglio, i profili manageriali che abbiamo individuato possono essere così suddivisi:

  • Alta vocazione allo sviluppo dell’AI | Dirigenti e direttori dei servizi informatici e Manager Ge-nerali nelle aziende di informatica e telecomunicazione. Questi profili concentrano oltre il 55% delle competenze digitali classificate da ESCO e le competenze digitali rappresentano poco meno del 60% delle competenze richieste.
  • Medio-alta vocazione allo sviluppo dell’AI | Direttori e dirigenti delle vendite e commercializza-zione, dell’approvvigionamento e distribuzione, della manifattura ed estrazione dei minerali, della produzione e distribuzione di energia elettrica, gas, acqua, gestione dei rifiuti e della ricerca e sviluppo.
  • Medio-bassa vocazione allo sviluppo dell’AI | Manager ai quali è richiesta una cultura digitale di base, con la concentrazione del 9,2% delle competenze digitali totali. Il gruppo include Direttori e dirigenti che operano nella comunicazione, pubblicità, pubbliche relazioni; nel commercio di beni (esclusi autoveicoli e motocicli); nelle attività sportive, ricreative, intrattenimento; nella gestione delle risorse umane; nel settore dei trasporti e magazzinaggio; nell’agricoltura, allevamento, silvi-coltura, caccia, pesca; nei servizi di alloggio e ristorazione; nel commercio e riparazione di auto-veicoli e motocicli; nei servizi editoriali, produzione cinematografica, radiofonica e televisiva.
  • Bassa vocazione allo sviluppo dell’AI | Direttori e dirigenti della finanza e amministrazione; dei servizi alle imprese e alle persone; delle costruzioni e, sorprendentemente, Direttori e dirigenti generali di banche, assicurazioni, agenzie immobiliari e intermediazione finanziaria ai quali non sono richieste competenze digitali strutturate (1,0% delle competenze digitali totali, con un peso marginale su ciascun profilo).

Focalizzando l’analisi sui profili manageriali ad “Alta” e “Medio-alta” vocazione allo sviluppo dell’AI, si sono esaminate le “occupations”, ovvero le professioni specifiche che tali profili svolgono nelle diverse attività economiche. L’obiettivo è stato individuare le competenze chiave per ciascun profilo, considerando anche il relativo volume di attivazioni.

Dall’analisi emerge, ovviamente, una concentrazione significativa di competenze digitali nei ruoli legati all’IT, con una progressiva diffusione in altri ambiti manageriali. Inoltre, l’analisi mette in luce l’interconnessione tra competenze digitali e green, suggerendo come l’AI possa favorire lo sviluppo sostenibile e supportare i principi dell’economia circolare.

Le “skills chiave” di un manager nel settore privato per gestire i processi di sviluppo dell’AI in azienda

A questo punto dell’analisi, sono state estrapolate dall’archivio ESCO le “skills chiave”, set di conoscenze e capacità di base che un manager nel settore privato dovrebbe possedere per gestire i processi di sviluppo dell’AI in azienda. La rappresentazione ottenuta mostra le competenze e conoscenze digitali maggiormente ricorrenti e quantifica le competenze digitali più frequentemente menzionate nei profili manageriali.

L’analisi delle competenze manageriali per l’AI rivela pertanto un panorama complesso e stratificato. Abilità digitali si affiancano alle competenze tradizionali. I ruoli IT sono centrali. Emerge un nucleo di competenze digitali condivise, essenziale per tutti i manager (analisi dati web, gestione di progetti per lo sviluppo di contenuti, marketing digitale ecc.). L’analisi rivela tre cluster principali di profili professionali, caratterizzati da competenze condivise. Questo suggerisce la necessità di un approccio formativo manageriale differenziato, pur mantenendo una base comune di conoscenze.

Dall’analisi dei dati emerge una prima importante riflessione sulla formazione manageriale nell’era dell’AI. L’analisi delle competenze rivela un nucleo di conoscenze e abilità essenziali che dovrebbero costituire la base della preparazione dei manager orientati allo sviluppo dell’AI in azienda. Questo “sapere minimo condiviso” include competenze tecniche come l’analisi dei dati web e la conoscenza dei software industriali, ma anche abilità gestionali come la pianificazione di strategie di marketing digitale e la gestione dei processi di sviluppo dei contenuti. Tuttavia, la riflessione si estende oltre, evidenziando che per un’efficace implementazione dell’AI, inclusa quella generativa, i manager necessitano di una formazione che abbracci non solo lo sviluppo, ma anche la sicurezza informatica. Tale visione olistica della formazione manageriale si rivela essenziale per navigare le complessità dell’integrazione dell’AI, bilanciando innovazione e protezione del patrimonio informativo aziendale.

Il rapporto tra competenze digitali e competenze green

Un’ulteriore analisi è stata dedicata ad approfondire il rapporto tra competenze digitali e competenze green, con l’obiettivo di individuare le aree di competenze e conoscenze in comune essenziali per i piani di sostenibilità. Difatti, competenze AI e green sono due aree interconnesse e sempre più importanti nel panorama lavorativo odierno ed entrambe cruciali per affrontare le sfide più urgenti del nostro tempo, come il cambiamento cli-matico e la trasformazione digitale.

Le competenze AI si riferiscono alle capacità di sviluppare, implementare e utilizzare sistemi di intelligenza artificiale, mentre le competenze green si riferiscono alle conoscenze e alle capacità necessarie per affrontare le sfide ambientali e promuovere la sostenibilità. L’intelligenza artificiale può, quindi, svolgere un ruolo fondamentale nel promuovere la sostenibilità in diversi settori, tra cui: lo sviluppo di reti elettriche intelligenti, dove l’AI viene utilizzata per ottimizzare la distribuzione dell’energia e integrare le fonti rinnovabili; la gestione degli edifici intelligenti, in cui l’AI contribuisce a ridurre il consumo energetico negli edifici ottimizzando l’illuminazione, il riscaldamento e il raffreddamento; l’agricoltura di precisione, in cui l’AI ottimizza l’uti-lizzo di acqua, fertilizzanti e pesticidi; la logistica e i trasporti, con l’AI che ottimizza i percorsi di consegna e riduce le emissioni di gas serra; il monitoraggio ambientale, in cui l’AI viene impiegata per monitorare lo stato dell’ambiente e identificare potenziali problemi.

AI e sviluppo dell’economia circolare

Considerando, in particolare, lo sviluppo dell’economia circolare, l’AI può contribuire: a ottimizzare la progettazione del prodotto; alla gestione intelligente dei rifiuti; alla promozione dell’economia dei prodotti come servizio; al monitoraggio e sensibilizzazione; alla creazione di nuove opportunità di business per le aziende che adottano modelli di economia circolare; a maggiore trasparenza; a decisioni più informate sulla gestione dei materiali e dei rifiuti.

Modelli e competenze organizzative

Un capitolo a parte merita il tema dei modelli e delle competenze organizzative. Le AI, infatti, sembrerebbero condurre verso nuovi modelli organizzativi non più basati su “qualifiche”, ma su “competenze”, liberando energie creative e tecnologiche spesso ingabbiate in silos e modelli organizzativi disegnati solo sulla massimizzazione dell’efficienza.

In particolare, i modelli organizzativi ispirati alle teorie di Taylor, e più in generale tutti quelli definiti “scientifici”, sembrerebbero poco adatti ad ospitare sistemi di AI. Questi modelli, infatti, attribuiscono alla leadership il compito quasi esclusivo di aumentare l’efficienza dell’organizzazione attraverso una visione quasi meccanicistica dell’azienda. Modelli così concepiti sono, oggi, non solo particolarmente esposti a gravi patologie organizzative, ma tendono a utilizzare la AI per sostituire le persone o per un rinnovato taylorismo digitale, atteggiamento, questo, che nel medio periodo potrebbe rivelarsi profondamente miope e distruttivo per il nostro sistema industriale.

Inoltre, in gran parte delle aziende novecentesche i manager erano addestrati quasi prevalentemente per compiti specifici – spesso ripetitivi – che non richiedevano competenze particolarmente aggiornate o una visione aperta, ampia e complessa del business e del contesto nel quale si muove l’impresa. Oggi l’innovazione e le sue implicazioni produttive, ambientali ed etiche impone ai manager di operare in organizzazioni sempre più “liquide” e aperte che vivono e interagiscono con il contesto territoriale, antropologico, ecologico, sociale ecc. con il quale può anche co-creare la sua identità organizzativa.

Imprenditori e manager che adottano in modo importante innovazioni di ultima generazione sembrerebbero orientati a passare da modelli focalizzati sulla specializzazione (di competenze e funzioni) e sulla gestione dei processi interni, a modelli organizzativi disegnati e ridisegnati sull’interconnessione tra processi interni e processi esterni, focalizzati sul cliente e sulle sue mutazioni, orientati al territorio e alle sue esigenze, pensati per sviluppare la capacità di ogni singolo dipendente a contribuire all’obiettivo comune di creare valore e rigenerazione ambientale.

Il concetto di apprendimento organizzativo

Uno dei cardini fondamentali per tali modelli è il concetto di apprendimento organizzativo, ossia:

  • L’acquisizione continua di nuove competenze per sviluppare sempre nuove abilità;
  • La generazione e sperimentazione di nuove idee;
  • Il miglioramento continuo di prodotti, processi e governance;
  • L’analisi continua del posizionamento dell’organizzazione rispetto alle altre imprese e ai consumatori.

L’apprendimento organizzativo richiede a tutti i soggetti aziendali, e in particolare ai manager, di sviluppare una dote essenziale: la learning agility; ossia, la capacità d’imparare ad apprendere in modo veloce, continuo e su uno spettro molto ampio di domini di conoscenza. A questo proposito, non è un caso se molte business school stiano rimodulando l’offerta formativa e didattica nella direzione di questi cambiamenti e che il mercato formativo si stia arricchendo di piattaforme ibride con funzioni di knowledge sharing manageriale, networking e open innovation.

All’apprendimento organizzativo si associa spesso anche un altro pilastro per questo tipo di organizzazioni: il benessere organizzativo, concepito sia per migliorare la dimensione relazionale delle persone che operano nell’organizzazione, sia per sbloccare il potenziale della forza lavoro e per creare un ambiente di lavoro in cui le persone abbiano più autonomia e possibilità di crescita.

Il potenziale umano, un asset fondamentale

Secondo questi embrionali nuovi paradigmi organizzativi, il potenziale umano rappresenta un asset fondamentale e le persone non rappresentano unicamente una “risorsa” ossia uno strumento funzionale al raggiungimento degli obiettivi di crescita e di efficienza, ma possono fare la differenza a patto di essere messe nelle giuste condizioni individuali e collettive e a condizione che il management sappia governare l’intera comunità aziendale verso i cambiamenti.

In questi modelli organizzativi il manager, contrariamente alla visione tayloristica, oltre a svolgere il suo compito specialistico:

  • Custodisce, condivide e alimenta la visione aziendale;
  • Progetta e alimenta i processi di apprendimento organizzativo e incoraggia tutti ad apprendere;
  • Stimola l’innovazione, il miglioramento continuo e l’apertura verso l’esterno;
  • Affianca i dipendenti aiutandoli a identificare e raggiungere i loro obiettivi;
  • Elimina gli ostacoli, i colli di bottiglia e i gap informativi;
  • Disegna sistemi premiali, ricompense e sistemi per incrementare il benessere lavorativo.

Ad ogni manager, pertanto, è richiesto sempre più spesso di occuparsi del people management e di operare per garantire il benessere organizzativo, funzione, questa, non più demandata esclusivamente alla funzione HR.

In queste organizzazioni grande è lo sforzo del management per creare una visione condivisa per il futuro della comunità aziendale, per alimentare il senso di appartenenza, incentivare la crescita e lo sviluppo individuale e stimolare il cambiamento e l’innovazione.

Il manager come agente del cambiamento e guida per la transizione digitale e sostenibile è anche consapevole dell’importanza del lato umano ed emozionale delle persone, che molti studi scientifici indicano come responsabile di più del 50% della performance.

Intelligenza integrale e introduzione dell’AI in azienda

Torna pertanto il tema dell’intelligenza integrale che per i manager impegnati nell’introduzione in azienda della AI, significa:

  • intelligenza emotiva
  • intelligenza culturale e gestione della diversità
  • intelligenza creativa
  • intelligenza etica

Soprattutto è importante focalizzare l’attenzione sull’intelligenza collaborativa e la leadership.

La necessità di valorizzare le competenze e le potenzialità delle persone esalta stili di leadership alternativi a quelli “autoritari” (il cui principio ispiratore è che “solo il capo decide”) o burocratici (“io non ho deciso, decidono le norme”). Si stanno diffondendo, pertanto, stili quali:

  • Leadership di supporto;
  • Leadership direttiva;
  • Leadership partecipativa;
  • Leadership orientata al risultato;
  • Leadership etica.

Come governare l’introduzione dell’AI nelle piccole imprese italiane

In conclusione, lo studio ci consente di indirizzare alle imprese alcuni suggerimenti per governare correttamente l’introduzione dell’AI nelle piccole imprese italiane:

  • Investire molte più risorse (soprattutto temporali) nella riqualificazione di tutto il personale (dai manager ai tecnici, dagli impiegati ai collaboratori esterni) non solo AI Literacy, ma anche in Data Literacy. Agevolare lo strumento fondamentale dell’autoformazione. Collaborare con università, centri di ricerca e associazioni di categoria. Le piccole imprese raramente hanno la capacità di sviluppare soluzioni AI in-house. Pertanto, è essenziale collaborare con fornitori o partner esperti e affidabili, ma soprattutto con le imprese più evolute della propria filiera o del proprio ecosistema produttivo. L’AI generativa, inoltre, può diventare uno straordinario supporto alla formazione di tutto il personale.
  • Aumentare notevolmente l’attenzione alla cybersicurezza e alla protezione dei dati. L’AI si basa sui dati, per cui è essenziale che le piccole imprese sviluppino un sistema efficiente per riconoscere gestire e valorizzare i dati.
  • Comprendere le esigenze aziendali, fissare obiettivi chiari e facilmente raggiungibili. Ad esempio, riscrivere i contenuti del sito web, avviare campagne sui social, automatizzare i processi ripetitivi o pericolosi, migliorare l’analisi dei dati, ecc.. Obiettivi concreti e, almeno all’inizio, non troppo complessi, aiutano a selezionare le tecnologie e le competenze più adatte. Avviare tanti micro progetti sperimentali può ridurre i rischi legati all’introduzione dell’AI e creare un clima di cooperazione in azienda.
  • Avvicinarsi al tema dell’etica. L’AI deve essere utilizzata in modo etico. Le piccole imprese dovrebbero iniziare a ragionare in modo etico fin dalla ideazione dei sistemi AI.
  • L’introduzione dell’AI non dovrebbe essere una rivoluzione ma un’evoluzione quasi naturale dei processi. Integrare gradualmente l’AI nei processi aziendali esistenti, assicurando che le tecnologie siano compatibili con le operazioni quotidiane, minimizza l’interruzione delle attività e facilita l’adozione da parte dei dipendenti.
  • Prepararsi a cambiamenti culturali, di business e organizzativi radicali. L’introduzione dell’AI può generare paure o eccessivi entusiasmi e può innescare molto rapidamente modificazioni organizzative e del modello di business. È importante affrontare tensioni verso il cambiamento promuovendo una cultura aziendale che veda l’AI come un alleato e uno strumento che potenzia l’azienda nel suo complesso.
  • Imparare a ragionare a lungo termine. Le piccole imprese spesso hanno un orizzonte temporale molto ristretto, l’investimento in AI è sostenibile e strategicamente vantaggioso solo se concepito nel medio e nel lungo periodo.
  • Innovazione e competitività. L’AI può essere uno strumento per guadagnare competitività nel mercato, ma occorre essere pronti a innovare continuamente. Una volta implementati i primi sistemi AI, bisogna continuare a esplorare nuove possibilità per migliorare i processi, sviluppare nuovi prodotti e servizi, e rispondere più rapidamente alle esigenze del mercato e dei consumatori che diventeranno sempre più esigenti.

In definitiva, le aziende dovranno liberare e enfatizzare al massimo “l’intelligenza integrale” individuale e collettiva, la cooperazione tra tutte le forze sane e produttive che l’azienda, spesso inconsapevolmente, custodisce.

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