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Auto, la crisi dei chip morde l’UE: ecco perché e che fare



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Allarme Acea: i chip per l’automotive stanno finendo e molte linee produttive rischiano di fermarsi. La causa immediata è il blocco all’export dei chip Nexperia deciso da Pechino, ma la radice del problema è europea: il Chips Act è debole e lento. Il ministro Urso propone un “Chips Act 2”, ma servono soluzioni più rapide

Pubblicato il 31 ott 2025

Sergio Boccadutri

Consulente antiriciclaggio e pagamenti elettronici



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L’allarme è arrivato dal luogo più concreto dell’economia europea: la fabbrica. ACEA, l’associazione dei costruttori automobilistici, ha messo nero su bianco pochi giorni fa che i cosiddetti foundational microchips stanno scarseggiando e che molte linee produttive rischiano lo stop a giorni.

La crisi dei chip per le automobili europee

La dichiarazione di Sigrid de Vries, direttore generale di ACEA, non lascia spazio a interpretazioni: dalle indagini condotte la settimana scorsa tra i membri dell’associazione, alcuni prevedono uno stop imminente delle linee di assemblaggio, e le forniture di componenti si stanno già interrompendo.

How the Nexperia chip crisis threatens Europe's auto industry | DW News

Non parliamo dei chip più scintillanti per data center o per l’ultima generazione di smartphone, ma di componenti umili e ubiqui: microcontrollori che aprono i finestrini, circuiti analogici che governano l’illuminazione, driver e discreti di potenza che accendono e proteggono. Se mancano, l’auto non si chiude, il cambio non dialoga, l’accensione non risponde.

La stessa ACEA ha avvertito che, mentre si prova a risolvere diplomaticamente il blocco, le scorte si assottigliano e alcuni costruttori si preparano a fermare gli impianti. La situazione non riguarda solo l’Europa: in Giappone, Guillaume Cartier, chief performance officer di Nissan, ha dichiarato durante un salone automobilistico a Tokyo che l’azienda ha scorte sufficienti solo fino alla prima settimana di novembre. La domanda politica che rimbalza tra Bruxelles e le capitali è seducente nella sua semplicità: non basterebbe un “Chips Act 2” per cambiare passo? Il ministro delle Imprese e del Made in Italy, Adolfo Urso, in missione a Bruxelles per incontri con i commissari Séjourné, Virkkunen e Fitto, ha rilanciato proprio questa proposta, sostenendo l’urgenza di garantire l’autonomia strategica europea e la salvaguardia delle filiere produttive.

La risposta, tuttavia, se si ascolta l’industria e si leggono le carte, è no. L’Europa ha già una strategia, il Chips Act, che indica con chiarezza cosa fare. Ciò che manca è la sua esecuzione, nei tempi e nei volumi richiesti da una filiera che vive di settimane, non di anni. Pensare oggi di aprire un nuovo cantiere legislativo significa spostare il problema, non risolverlo.

Da dove nasce una parte del problema: la vicenda Nexperia

Per capire perché le fabbriche europee possono fermarsi per un chip da pochi euro, bisogna guardare alla catena di fornitura così com’è, non come vorremmo che fosse. Nexperia è una società con quartier generale nei Paesi Bassi e proprietà cinese che produce una vasta gamma di componenti maturi, tipicamente certificati per l’uso automotive, con una parte rilevante del back-end — packaging e test — localizzata in Cina.

A fine settembre, precisamente il 30, il governo olandese è intervenuto sulla governance della società, assumendone il controllo e sospendendo l’amministratore delegato cinese per motivi di sicurezza sollevati anche dagli Stati Uniti.

In risposta, il 4 ottobre il ministero del commercio cinese ha bloccato l’export dalla Cina dei chip Nexperia.

Un portavoce di Wingtech, la proprietà cinese di Nexperia, ha definito la carenza di chip “autoinflitta” e “risultato delle misure sconsiderate del governo olandese” che hanno “messo a repentaglio la continuità del business globale”. La divisione cinese dell’azienda ha già intrapreso passi verso l’indipendenza dalla realtà olandese e ha ripreso a vendere prodotti ai clienti cinesi domestici, segnale che la crisi potrebbe protrarsi ben oltre le speranze di una risoluzione rapida.

L’effetto pratico è stato immediato perché, pur avendo l’Europa siti produttivi di primo piano per fasi diverse della filiera, il confezionamento e il collaudo di circa il 70% di quei componenti avviene ancora in Asia. Il collo di bottiglia è fisico prima che politico: se non esci dai gate di uno stabilimento di packaging, non entri nei magazzini dell’automotive europeo.

A Bruxelles il dossier è finito sul tavolo del vicepresidente esecutivo per il Commercio, Maros Sefcovic, e si incrocia con un’altra controversia strategica, le restrizioni cinesi sulle terre rare. Il portavoce della Commissione per il Commercio, Olof Gill, ha confermato che Sefcovic è stato in contatto “sia con funzionari cinesi che olandesi” e che una delegazione di tecnici del governo cinese arriverà a Bruxelles per un incontro faccia a faccia con i funzionari dell’esecutivo UE proprio su quest’altra crisi. Le fonti suggeriscono che il governo olandese crede di poter negoziare una risoluzione con la Cina che ripristinerà l’azienda in una struttura unificata olandese-cinese, ma i tempi restano incerti mentre l’industria conta le ore.

Il quadro che già abbiamo: il Chips Act non va riscritto, va fatto funzionare

Il European Chips Act, proposto dalla Commissione Europea l’8 febbraio 2022 e entrato in vigore il 21 settembre 2023 dopo l’approvazione finale del Parlamento e del Consiglio, rappresenta già una risposta strutturale alle vulnerabilità europee nel settore dei semiconduttori. Con l’ambizione di mobilitare 43 miliardi di euro di investimenti pubblici e privati entro il 2030, di cui 3,3 miliardi direttamente dal budget UE attraverso i programmi Horizon Europe e Digital Europe, il Chips Act ha fissato un obiettivo politico chiaro: raddoppiare la quota europea di produzione globale di semiconduttori dal 10% attuale al 20% entro la fine del decennio.

L’architettura del Chips Act si articola su tre pilastri fondamentali.

Il primo, la “Chips for Europe Initiative”, supporta lo sviluppo di capacità tecnologiche su larga scala e l’innovazione in tutta l’UE, con un budget previsto di 11 miliardi di euro entro il 2030 considerando i fondi degli Stati membri. Questo pilastro include cinque obiettivi operativi specifici: lo sviluppo di linee pilota avanzate per testare tecnologie di processo innovative, la creazione di una piattaforma di design cloud-based per facilitare l’accesso alle risorse di progettazione, il supporto ai chip quantistici, la creazione di centri di competenza per rafforzare le competenze in tutta l’Unione, e un Chips Fund per supportare startup e PMI nel settore.

Il secondo pilastro crea un framework per garantire la sicurezza dell’approvvigionamento attraendo investimenti e capacità produttiva aumentata nei semiconduttori, con particolare attenzione alle “Integrated Production Facilities” e alle “Open EU Foundries” che possono beneficiare di livelli molto elevati di finanziamento pubblico per impianti “first-of-a-kind”. Il terzo pilastro stabilisce un meccanismo di gestione delle crisi con strumenti per monitorare la catena di fornitura, anticipare carenze e rispondere rapidamente alle interruzioni, inclusa la creazione di un European Semiconductor Board con rappresentanti degli Stati membri.

Il Chips Joint Undertaking, inaugurato ufficialmente il 30 novembre 2023, è il principale attuatore dell’iniziativa e gestisce un budget atteso di quasi €11 miliardi entro il 2030 proveniente dall’UE e dagli Stati partecipanti. Tra i compiti: linee pilota pre-commerciali, una Design Platform cloud e competenze per quantum chips e centri di competenza/skills. Le prime call hanno incluso FD-SOI (roadmap verso 7 nm), eterointegrazione/assembly (advanced packaging) e wide-bandgap.

Questa struttura è l’evoluzione del Key Digital Technologies JU e sta finanziando pilot line su eterointegrazione/packaging avanzato (oltre a quelle su nodi leading-edge e WBG), cioè le aree necessarie a chiudere in Europa il ciclo oggi fragile sul back-end.

Il quadro è affiancato dall’IPCEI Microelectronics and Communication Technologies (ME/CT), notificato da 14 Stati membri, con fino a €8,1 miliardi di aiuti pubblici destinati a 56 imprese/68 progetti e a mobilitare ulteriori investimenti privati; tra i player figurano grandi gruppi come Airbus, STMicroelectronics, Infineon e ASML.

Questa cornice non vive nel vuoto, ma dentro una geografia industriale in movimento. In Italia STMicroelectronics realizza a Catania un campus SiC da circa €5,4 miliardi, con circa €2 miliardi di aiuti approvati dalla Commissione il 31 maggio 2024; avvio previsto nel 2026 e piena capacità entro il 2032/33, per l’elettronica di potenza ad alta efficienza in auto elettrica ed energia.

In Germania Infineon ha ottenuto l’approvazione UE a €920 milioni di sostegno per la Smart Power Fab di Dresda; avvio produzione nel 2026 con focus analog/mixed-signal e power (wide-bandgap inclusi).

Sul back-end, l’accordo GlobalFoundries–Amkor trasferisce linee 300 mm bump & sort da Dresda a Porto, creando il primo polo “at-scale” di packaging e test in Europa, con qualificazioni orientate agli standard automotive.

A monte, la ESMC (JV a Dresda guidata da TSMC con Bosch, Infineon e NXP) punta a produrre dal 2027, con capacità pianificata di circa 40.000 wafer/mese su 28/22 nm (e varianti FinFET 16/12 nm), agendo sul primo anello debole evidenziato dal Chips Act: fonderia su nodi maturi; il secondo è packaging a scala, al quale contribuisce il progetto GF–Amkor.

Chip auto e Chips Act: cosa non sta funzionando. La diagnosi degli esperti e il monito della Corte dei conti

Se tutto questo è vero, perché siamo con l’acqua alla gola? Perché, al netto delle buone scelte di principio, l’Europa ha eseguito poco e tardi. Lo ha scritto con puntualità Mario Dal Co su Agendadigitale.eu: il Chips Act ha promesso molto e mobilitato numeri altisonanti, ma gli stanziamenti non si sono tradotti con la necessaria rapidità in risorse effettivamente disponibili.

I 3,3 miliardi di budget UE, divisi equamente tra Horizon Europe e Digital Europe Programme, con 2,875 miliardi implementati attraverso il Chips Joint Undertaking, 125 milioni attraverso InvestEU e 300 milioni attraverso l’European Innovation Council, rappresentano solo una frazione dei 43 miliardi totali promessi, e la mobilitazione dei fondi nazionali procede a rilento. L’architettura finanziaria resta frammentata tra livello europeo e bilanci nazionali. È un problema di governance che si paga sull’ultimo miglio: tempi autorizzativi lunghi, percorsi amministrativi opachi, duplicazioni che scoraggiano i grandi investimenti.

A ricordare che il tempo non è infinito ci ha pensato la Corte dei conti europea: nella relazione speciale 12/2025 ha scritto che, senza un’accelerazione su finanziamenti e coordinamento, la quota UE di mercato rischia di fermarsi all’11% nel 2030, ben lontana dal 20% promesso.

Il dato è particolarmente allarmante se confrontato con gli sforzi paralleli di Stati Uniti e Asia: il CHIPS and Science Act americano mobilita 76 miliardi di dollari, quasi il doppio dell’investimento europeo, con procedure di approvazione e distribuzione dei fondi molto più rapide. Questo significa che l’Europa non solo mancherà i suoi obiettivi dichiarati, ma resterà pericolosamente dipendente da catene di fornitura che, come il caso Nexperia dimostra, possono essere interrotte da un giorno all’altro per ragioni geopolitiche.

Su un altro versante, Vincenzo Giardino ricorda che la sovranità tecnologica europea non coincide con l’autarchia, ma con la capacità di presidiare gli anelli in cui l’Europa possiede o può costruire massa critica: power electronics in SiC e GaN, RF e componenti rad-hard, packaging per ambienti severi. Il Chips Act aveva già identificato queste priorità, includendo nel suo scope tecnologie come i chip sub-2nm, processori ultra-low power efficienti, nuovi materiali, integrazione eterogenea e 3D, e architetture open-source come RISC-V. È un approccio pragmatico che il Chips Act aveva già fatto proprio: anziché inseguire i giganti asiatici sul terreno dei nodi più spinti per l’hyperscale, conviene rafforzare la parte della filiera che alimenta i programmi europei dell’aerospazio e della difesa. Per Giardino, la vera cartina di tornasole non è l’annuncio, ma il passaggio dall’R&D al banco di collaudo e da lì alla qualifica.

Perché un “Chips Act 2” sarebbe un diversivo

In questo contesto, è importante riconoscere il limite della proposta di chi sostiene, come il ministro Urso, che serve un “secondo atto” per semplificare la burocrazia, mettere i chip per l’IA al centro delle priorità e immettere nuove risorse nella catena di fornitura.

L’obiettivo è condivisibile, ma sottovaluta un’urgenza cruciale: quella dei tempi. L’attuale Chips Act già finanzia tecnologie disruptive e capacità per l’IA — piattaforme di design, pilot line avanzate e ricerca e innovazione — attraverso il programma Chips for Europe e le iniziative Horizon Europe e Digital Europe. Parallelamente, l’EIC e i fondi InvestEU/STEP offrono strumenti di equity e garanzie per startup e scale-up specializzate in semiconduttori e hardware per l’IA.Aprire ora un nuovo cantiere legislativo rischierebbe di spostare l’attenzione dall’unico fronte che conta nell’immediato: sbloccare capacità su nodi maturi e back-end tra il 2025-2026. Il primo Chips Act ha richiesto tempi lunghi: annuncio nel SOTEU del 15 settembre 2021, proposta della Commissione 8 febbraio 2022, entrata in vigore il 18 settembre 2023. Un nuovo iter avrebbe tempistiche analoghe, mentre l’automotive europeo segnala rischi di fermi di linea nel giro di giorni per nuove tensioni su forniture di chip.

In sintesi: accelerare l’esecuzione dell’Act esistente (FOAK, pilot line, design cloud, supporto a OSAT europei, incentivi su nodi “foundational/legacy”) e usare EIC/STEP/InvestEU come leva subito, lasciando il dibattito su un “Chips Act 2.0” a quando non assorbirà risorse politiche e amministrative critiche nell’immediato.La nuova realtà geopolitica rende ancora più pericolosa la distrazione di un nuovo iter legislativo. Lo stesso Dal Co ricorda che l’Europa ha già pagato il prezzo di iter lenti e frammentati, e che la cura non può essere più cornice, ma più sostanza: regia centralizzata dei fondi, procedure perentorie, erogazioni milestone-based e un canale unico per autorizzazioni e contratti di programma. Il Chips Act prevedeva già la possibilità di derogare alle procedure ambientali per impianti considerati di “interesse pubblico prevalente”, ma questa clausola non è stata implementata con la necessaria rapidità. Intanto il pressing politico verso un “2.0” rischia di replicare l’errore censito dalla Corte dei conti: costruire nuove ambizioni su una macchina che non ha ancora dimostrato di saper correre alla velocità richiesta dall’industria.

Il timing è particolarmente critico considerando che non sappiamo cosa si siano veramente detti Xi Jinping e Donald Trump in Corea del Sud, dove potrebbero trovato un accordo commerciale sulle terre rare cosa che potrebbe colpire anche le consegne all’UE. Le terre rare, in particolare i magneti, sono utilizzate in tutta l’industria automobilistica per aperture di finestre, porte e bagagliai, mentre i chip sono critici per tutta l’elettronica nei veicoli.

Dalla crisi alla cura: come evitare che il prossimo caso Nexperia ci trovi di nuovo scoperti

L’Europa ha bisogno di colmare il vuoto tra oggi e il 2027, quando ESMC entrerà in produzione, con accordi di capacity sharing e incentivi rapidi al ramp-up negli impianti esistenti. Il Chips Act aveva previsto strumenti specifici per questo attraverso il suo meccanismo di crisi e il ruolo del European Semiconductor Board, ma questi strumenti non sono stati attivati con la necessaria tempestività.

È vero che i tempi di qualifica automotive non si comprimono per decreto, ma si possono accorciare se la domanda viene coordinata e se le specifiche convergono su famiglie standard di microcontrollori, analogici, power discreti. De Vries di ACEA ha sottolineato che mentre esistono fornitori alternativi, potrebbero volerci mesi per costruire la capacità aggiuntiva necessaria.

Nel frattempo, vanno stretti accordi transitori con fonderie non-UE che impegnino volumi automotive in cambio di packaging e test in Europa, così da ridurre l’esposizione sul tratto della filiera che oggi si spezza. Esempi concreti mostrano che spostare fasi di bump/sort e test in UE è fattibile e rafforza la resilienza della catena per l’automotive.

L’intesa GlobalFoundries–Amkor ha già trasferito 50 tool da Dresda a Porto per creare il primo back-end “at-scale” in Europa (bump 300 mm e sort) e qualificare i primi prodotti clienti: è coerente con gli obiettivi del Chips Act (ma non risulta “finanziata” direttamente dal Chips Act) e punta proprio a una supply chain UE/USA più robusta per l’auto.

La seconda lezione riguarda proprio il back-end. Il Chips Act prevede capacità e investimenti su advanced packaging, test e assembly: questo è esplicito nel Pillar II (“security of supply and resilience”) che abilita investimenti e regimi di aiuto per impianti first-of-a-kind in manufacturing, advanced packaging, test e assembly; in parallelo, il Pillar I (“Chips for Europe”) finanzia pilot line e capacità R&I, inclusi 3D heterogeneous integration e advanced packaging (es. la pilot line APECS da circa €730 M co-finanziata da Chips JU e Stati membri). La messa a terra procede, ma varie analisi indipendenti segnalano che i tempi di approvazione e di esecuzione delle misure restano lenti rispetto ai bisogni industriali.

La terza lezione è sulla domanda pubblica. Il quadro del Chips Act coordina con altri programmi UE (in primis Horizon Europe, Digital Europe e InvestEU) e tiene conto dei lavori dell’Industrial Alliance on Processors and Semiconductor Technologies; gli IPCEI (Microelectronics e ME/CT) complementano il Chips Act come canale di aiuti di Stato per progetti transnazionali lungo l’intera value chain. Collegare davvero Chips Act + IPCEI con strumenti difesa/spazio (es. EDF, programmi space/defence e cooperazioni PESCO dove rilevanti) significa costruire programmi pluriennali di procurement su power devices in SiC/GaN, RF e componenti rad-hard – aree già richiamate nella documentazione della proposta di Act e nelle call/pilot line più recenti – fornendo commitment di acquisto a 3-5 anni per sbloccare capex su impianti europei

C’è poi un blocco di vincoli “silenziosi” che il Chips Act aveva riconosciuto ma non affrontato con sufficiente decisione. La progettazione dipende ancora dalla triade EDA — Synopsys, Cadence, Siemens — che controlla oltre il 70% del mercato globale. Il Chips Act prevede una “cloud-based virtual design platform” per abbassare le barriere d’accesso a startup/PMI; l’infrastruttura è stata avviata ma il roll-out è ancora in corso (Design Platform di Chips JU/EuroCDP), con accesso cloud a suite EDA e librerie IP.

Sul fronte materie prime, gallio e germanio restano soggetti a licenze di esportazione dalla Cina, con impatti periodici sui flussi verso l’UE.

Qui la risposta europea prevista dal terzo pilastro del Chips Act è costruire ridondanza tramite monitoraggio e meccanismi di emergenza: mappatura/alert della filiera, priority-rated orders e common purchasing quando dichiarata la fase di crisi. Scorte strategiche e percorsi di co-qualifica fra OEM non sono esplicitati nel regolamento, ma sono coerenti con la logica di coordinamento del Pilastro III e potrebbero essere implementati via European Semiconductor Board e accordi tra Stati membri/industria. Serve regia e finanziamento che mettano allo stesso tavolo acquisitori pubblici, grandi committenti industriali e fornitori.

Prima i chip, poi le carte

La crisi innescata dal blocco all’export dei chip Nexperia non è un incidente isolato, ma il punto d’incontro tra geopolitica e catena del valore. L’Europa ha asset tecnologici di prim’ordine, un Chips Act ambizioso con 43 miliardi di investimenti pianificati e un’agenda corretta articolata su tre pilastri strategici. Ciò che le è mancato è la capacità di trasformare in mesi, non in anni, le decisioni in produzione. Un “Chips Act 2” rischia di essere un diversivo pericoloso, perché sposta tempo e attenzione dalla sola mossa che oggi può evitare lo stop delle fabbriche: applicare il primo Chips Act con brutalità esecutiva.

Il Chips Act del 2023 ha tutti gli strumenti necessari: il Chips Joint Undertaking con 11 miliardi di budget, il meccanismo di crisi con il European Semiconductor Board, gli investimenti in linee pilota e packaging avanzato, il supporto a startup attraverso il Chips Fund e l’European Innovation Council. Non serve riscrivere la strategia, serve eseguirla: accelerando gli impianti su nodi maturi già finanziati, implementando davvero la piattaforma di design cloud-based promessa, attivando il meccanismo di emergenza previsto dal terzo pilastro per gestire le scorte strategiche, semplificando le procedure autorizzative usando le deroghe già previste per impianti di interesse pubblico prevalente.

In questo senso, le analisi convergono. Vincenzo Giardino invita a concentrare gli sforzi su power, RF, componenti rad-hard e packaging avanzato, con l’obiettivo di tradurre gli investimenti in chip qualificati pronti a salire su piattaforme europee entro il 2030. Mario Dal Co ammonisce che senza una cura di governance – centralizzazione dei fondi, rapidità amministrativa, chiarezza degli incentivi – i target resteranno sulla carta e la quota europea potrebbe fermarsi all’11%, lontanissima dal 20% promesso dal Chips Act.

È una doppia bussola che indica la stessa rotta: meno annunci di nuovi Act, più implementazione di quello esistente; meno commissioni per studiare nuove strategie, più task force per eseguire quella approvata appena un anno fa; meno promesse per nuovi fondi, più velocità nel distribuire i 43 miliardi già stanziati. Mentre de Vries esorta tutte le parti a “raddoppiare gli sforzi” e i tecnici cinesi si preparano ad arrivare a Bruxelles, l’industria europea conta le ore. Il Chips Act ha già previsto tutto: dall’investimento di 3,3 miliardi dal budget UE ai meccanismi di crisi, dalle linee pilota per nodi avanzati al supporto per packaging e test. Non serve un sequel legislativo mentre il primo film non ha ancora finito la produzione. Serve che l’Europa impari a muoversi alla velocità delle crisi, non delle commissioni. Qui e ora, usando gli strumenti che già ha, prima che l’ultima linea di assemblaggio si fermi e che il costo di una nuova distrazione legislativa diventi insostenibile.

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