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AI, primi segnali di bolla: che succede (no panic)



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Investimenti da trilioni, accordi incrociati e ritorni ancora incerti, primi cali in borsa: il boom dell’intelligenza artificiale mostra crepe sempre più visibili. L’ottimismo della CFO di OpenAI contrasta con i timori crescenti. Ma c’è anche chi sostiene che questa non sia una bolla, bensì un ciclo di innovazione strutturale. Facciamo una lettura razionale alla questione

Pubblicato il 10 nov 2025

Maurizio Carmignani

Founder & CEO – Management Consultant, Trainer & Startup Advisor

Alessandro Longo

Direttore agendadigitale.eu



bolla intelligenza artificiale

Quando la direttrice finanziaria di OpenAI, Sarah Friar, ha dichiarato sul palco del Wall Street Journal Tech Live che “non c’è abbastanza entusiasmo sull’AI”, la frase ha sorpreso analisti e investitori.

I segnali della bolla AI

Proprio in questi giorni il vento è cambiato su Wall Street e il segnale è arrivato dal cuore della “AI trade”.

La perdita delle azioni tech, timori bolla finanziaria

Nella settimana chiusa venerdì 7 novembre 2025 il Nasdaq ha messo a segno il peggior arretramento da aprile, circa il 3% su base settimanale, con vendite concentrate su semiconduttori e titoli più esposti all’intelligenza artificiale. Il movimento non è rimasto confinato agli Stati Uniti: Asia ed Europa hanno replicato la correzione, a conferma che il rally AI-guidato ha lasciato il mercato in una condizione di forte interdipendenza settoriale.

Il dato che ha fatto il giro del mondo riguarda la velocità con cui il valore è evaporato. Tra martedì e venerdì, i colossi legati all’AI hanno perso complessivamente tra 800 miliardi e quasi 1.000 miliardi di dollari di capitalizzazione. Solo Nvidia, termometro dell’intera catena del valore, ha bruciato nell’arco di pochi giorni tra 350 e oltre 440 miliardi secondo diverse stime di mercato, mentre il comparto dei chip ha cancellato da solo circa 500 miliardi. Sono cifre da “wipeout” che spiegano perché il settore abbia chiuso la sua settimana peggiore da mesi.

Mentre cresce il timore di una bolla speculativa da mille miliardi di dollari, Friar ha invitato a guardare avanti con fiducia: “Penso alle implicazioni pratiche e a ciò che questa tecnologia può davvero fare per le persone. Dobbiamo continuare a correre in quella direzione.”

Il problema: dietro l’appello all’“esuberanza” da OpenAI, termine che evoca l’“irrazionale euforia” della bolla dot-com, si muove però un settore in cui le cifre superano ormai ogni proporzione industriale.

Triliardi di dollari in infrastrutture AI

OpenAI ha annunciato piani per spendere oltre 1.400 miliardi di dollari in infrastrutture AI, secondo Bloomberg, nonostante l’azienda non sia ancora redditizia. Per sostenere questa espansione, ha siglato accordi colossali con Nvidia, AMD e Oracle, spesso descritti come operazioni di finanziamento circolare:

  • Nvidia investirà fino a 100 miliardi di dollari nella costruzione dei data center di OpenAI;
  • OpenAI, in cambio, riempirà quelle strutture con milioni di chip Nvidia;
  • Oracle fornirà infrastrutture cloud per altri 300 miliardi di dollari.

Friar respinge le accuse:

“Non vedo nulla di circolare. Stiamo costruendo infrastrutture che permetteranno al mondo di avere più capacità di calcolo.” Questo intreccio tra hardware, software e finanza si inserisce nella più ampia “battaglia del secolo” per il controllo dell’infrastruttura dell’intelligenza artificiale, di cui abbiamo parlato. Friar ha inoltre confermato che OpenAI sta valutando nuove forme di finanziamento, incluso il debito privato, con il supporto di “banche e fondi di private equity”. Nessun piano immediato per una IPO: “Non ci stiamo preparando a una quotazione in Borsa. Non è nei nostri piani attuali.”

Debiti e altri modi per il grande buco AI

Eppure, Big Tech ha un “buco” da 1.5 trilioni di dollari per finanziare la corsa all’AI entro il 2028. Secondo Morgan Stanley, i colossi del cloud (Meta, Amazon, Alphabet, Microsoft, Oracle) genereranno cassa per circa 1.4 trilioni, a fronte di 2.9 trilioni di capex previsti: il resto va coperto con debito tradizionale, strutture fuori bilancio e soprattutto private credit. Ne nasce un playbook finanziario nuovo, che rimescola rapporti con Wall Street e sposta rischio verso veicoli dedicati e investitori istituzionali.

Il caso-scuola è Hyperion, il super-campus AI di Meta nella parrocchia di Richland, Louisiana: un’operazione da 27 miliardi strutturata in joint venture dove fondi Blue Owl detengono l’80% e Meta il 20%. Meta non consolida il debito perché “parcheggiato” in una SPV; l’azienda prenderà in leasing il sito dal 2029. Per la flessibilità richiesta dai hyperscaler, private credit e project finance battono le banche regolamentate: Blue Owl finanzia parte dell’equity con debito piazzato a Pimco e ad altri investitori, offrendo a Meta controllo e opzioni di uscita maggiori rispetto a un bond ordinario.

In parallelo esplode il fenomeno “neocloud”: operatori come CoreWeave noleggiano GPU per capacità AI on-demand. CoreWeave, nata dal mining crypto, è cresciuta grazie a un rapporto simbiotico con Nvidia: accesso anticipato ai chip, investimento azionario (Nvidia oggi intorno al 6.6%), e un accordo rivelato nel 2025 che obbliga Nvidia ad acquistare fino a 6.3 miliardi di dollari di capacità cloud invenduta fino al 2032. Nvidia, forte di 72 miliardi di free cash flow su 12 mesi al luglio 2025, sta reinvestendo nei propri clienti: 100 miliardi promessi a OpenAI, 2 miliardi in una SPV legata a xAI, 5 miliardi in Intel. Obiettivo: accelerare il build-out e sostenere le proprie vendite.

Il vendor financing riduce l’esborso iniziale dei clienti e blinda ricavi per i fornitori, ma aumenta il rischio di sovracapacità. Gli analisti ricordano i precedenti delle telco nell’era dot-com, pur sottolineando le differenze: oggi i campioni dell’AI hanno rating e flussi di cassa solidi. Resta il fatto che alcune controparti “sponsorizzate” non generano ancora cassa sufficiente: CoreWeave ha chiuso con perdite superiori al miliardo sui 12 mesi a giugno, mentre OpenAI avrebbe perso 13.5 miliardi su 4.3 miliardi di ricavi nel primo semestre (dato riportato da The Information).

200 miliardi di debiti big tech

Altro tassello: gli “equity wrap” dei big del cloud a favore di nuovi hoster AI. Google ha garantito fino a 3.2 miliardi degli impegni di Fluidstack verso TeraWulf e 1.4 miliardi verso Cipher Mining, ricevendo warrant in cambio e priorità di capacità futura. Con il “cosigner” di Mountain View, TeraWulf è riuscita a emettere 3.2 miliardi di high-yield bond, valutati BB da Fitch: il segnale che perfino emittenti deboli possono accedere al mercato se dietro c’è un hyperscaler.

I corporate bond restano utili ma non dominanti. Oracle ha collocato 18 miliardi a settembre (anche tranche a 40 anni); Meta ha fatto 10.5 miliardi nel 2024 e altri 30 miliardi nel 2025, includendo scadenze a 40 anni; Alphabet sta vendendo miliardi con maturità fino a 50 anni.

Eppure Morgan Stanley stima che i bond copriranno solo circa 200 miliardi del ciclo 2025-2028: i grandi della tech vogliono evitare troppi interessi in conto economico e preferiscono formule che non schiaccino il free cash flow.

Qui entra la finanza “collateral-based”: leasing finanziari e operativi su data center e attrezzature, SPV garantite da flussi contrattuali e da asset come GPU e reti. Costano tipicamente il 7-10% annuo dell’esborso iniziale: più del debito investment-grade, ma abbastanza “affordabile” per chi genera molta cassa. Microsoft e Oracle stanno aumentando l’uso di finance lease; Meta per Hyperion ha firmato leasing operativi quadriennali con clausole di indennizzo agli investitori in caso di recesso anticipato nei primi 16 anni, trasferendo parte del rischio ma assumendo potenziali passività se lo scenario peggiora.

Il private credit è il vero motore: fondi come Blue Owl e Blackstone stanno chiudendo mega-veicoli di infrastrutture digitali con rendimenti oggi superiori ad altre strategie di debito. Blue Owl ha chiuso a maggio il suo terzo fondo a 7 miliardi e ha già inanellato tre deal da 22, 15 e 27 miliardi. Per CoreWeave, Blackstone e Magnetar hanno strutturato linee garantite da GPU e networking, con diritto di escussione degli SPV in default. Il rovescio della medaglia è il costo: per CoreWeave il tasso medio sul debito a breve è salito al 12.3% a giugno 2025, sopra il 9.6% di fine 2024, e le spese per interessi superano il reddito operativo.

Il quadro che emerge è un ecosistema in cui domanda e scarsità di capacità resteranno tese per 3-5 anni, ma con rischi asimmetrici distribuiti su catene di leasing, garanzie e impegni di acquisto futuro.

Se la domanda calasse o l’offerta si sbloccasse troppo in fretta, le clausole di backstop potrebbero rientrare nei conti dei big; se invece la domanda tenesse, la leva finanziaria moltiplicherebbe i rendimenti per hyperscaler e fornitori di chip. In ogni caso, i data center stanno diventando una vera classe di attivi investibile, e il mercato del credito privato è il perno che rende possibile l’intera architettura.

Che succede se scoppia la bolla AI

Uno dei motivi per cui gli investitori temono un crollo dell’IA è il forte legame tra le più grandi aziende americane, i suoi mercati e questa tecnologia.

Nel 2000, primo dello scoppio della bolla delle dot.com, le 20 maggiori aziende dell’indice S&P 500 rappresentavano il 39% del suo valore totale. Undici di queste erano società legate a Internet.

Oggi le prime 20 rappresentano il 52%, con lo stesso numero di aziende che hanno investito massicciamente nell’intelligenza artificiale. Se la tecnologia non riuscisse a garantire rendimenti succulenti, tutte queste aziende ne risentirebbero pesantemente, insieme a un gran numero di investitori anche di piccolo importo.

Con un impatto quindi sui consumi, in un circolo vizioso per l’economia.

E se la bolla dell’AI scoppiasse adesso, con i cantieri aperti per i datacenter e i finanziamenti già impilati su SPV, leasing e private credit?

L’impatto non sarebbe un replay del 2008, ma colpirebbe punti nevralgici dell’economia reale e del credito non bancario.

Il primo effetto sarebbe un taglio netto dei capex: data center rinviati, ordini di GPU congelati, ridimensionamento delle reti elettriche dedicate. La domanda che oggi appare inesauribile si trasformerebbe in capacità in eccesso. Le valutazioni dei fornitori di chip e di networking scenderebbero in fretta, costringendo a svalutazioni di magazzino e a revisioni delle roadmap produttive. È la dinamica classica del ciclo dei semiconduttori, ma su scala più ampia perché qui le catene di investimento coinvolgono costruzioni, impiantistica, logistica, utility, assicurazioni e fondi pensione.

La seconda onda colpirebbe l’ecosistema “periferico” che ha alimentato l’espansione. I neocloud ad alta leva, gli hoster nati da pivot di business meno solidi, gli operatori di colocation con contratti energetici aggressivi vedrebbero restringersi i margini fino a violare covenant. I contratti di backstop o take-or-pay firmati da big tech attenuerebbero l’impatto per alcuni investitori, ma solo entro i limiti delle clausole. Se la domanda scende e i prezzi si muovono al ribasso, le penali non coprono l’erosione del valore degli asset né i costi finanziari accumulati.

Laddove i progetti siano veicolati in società veicolo con debito senza ricorso, l’insolvenza resterebbe formalmente confinata alla SPV. Ma l’effetto reputazionale e la stretta creditizia si propagherebbero al settore, alzando i rendimenti richiesti su nuove emissioni e rendendo più difficili i rifinanziamenti.

La finanza privata sarebbe il baricentro dello shock. Fondi di private credit e BDC con esposizioni a data center e attrezzature come collateral dovrebbero ricalibrare i modelli di perdita attesa, segnare al ribasso il NAV e, nei veicoli a finestra di rimborso, limitare i riscatti. Le tranche mezzanine e junior soffrirebbero di più. Le assicurazioni e alcuni fondi pensione, che negli ultimi anni hanno cercato rendimento fuori dall’investment grade tradizionale, registrerebbero perdite contabili e pressioni regolamentari. Non si tratterebbe di corse agli sportelli, ma di un irrigidimento diffuso delle condizioni di finanziamento per progetti infrastrutturali simili.

Le banche resterebbero esposte soprattutto in modo indiretto. La regolazione post-crisi ha spinto una parte rilevante del rischio fuori dai bilanci bancari. Gli istituti globali dovrebbero assorbire perdite su inventory di mercato, bridge loan non sindacati e derivati, ma non sarebbero il fulcro del contagio. Più vulnerabili sarebbero banche regionali con portafogli di real estate industriale e construction loan legati a campus digitali in aree specifiche.

Aumenti dei crediti deteriorati, svalutazioni sulle garanzie immobiliari, cali degli spread su depositi istituzionali sono scenari plausibili. La risposta tipica sarebbe di natura micro: cessioni di portafoglio, fusioni assistite, ricapitalizzazioni private. Un bail-out sistemico, con capitale pubblico a tappare voragini, è improbabile perché il rischio oggi è più disperso e perché i soggetti con leva più alta non sono “too big to fail”.

I grandi del cloud resterebbero in piedi. Hanno rating elevati, cassa, flessibilità di spesa. La priorità diventerebbe preservare il free cash flow. Si vedrebbero renegoziazioni in catena: leasing ristrutturati, opzioni di riscatto rinviate, acquisti di capacità ridotti, clausole di uscita attivate dove possibile. Alcuni impegni fuori bilancio rientrerebbero nei conti come oneri o passività potenziali. La conseguenza naturale sarebbe un freno ai piani di buyback e una selezione più dura dei progetti. Nella supply chain ciò si traduce in sconti sui chip esistenti, allungamento dei cicli di prodotto, pressione sui margini dei fornitori più dipendenti dall’AI.

I data center come asset class verrebbero rivalutati con criteri più severi. Crescerebbe lo sfitto nei mercati dove la domanda era trainata quasi solo da AI, i cap rate salirebbero e i REIT specializzati adeguerebbero i portafogli. Le utility riprogrammerebbero investimenti in generazione e rete, rinegoziando PPA e connessioni ad alta potenza. Questo impatterebbe le filiere di componenti pesanti, dal rame ai trasformatori, e le economie locali che hanno beneficiato dell’indotto.

Sul fronte delle politiche pubbliche, l’intervento probabile sarebbe di liquidità e non di salvataggio. Le banche centrali possono ampliare temporaneamente il perimetro del collateral nelle operazioni di rifinanziamento e rendere più elastici alcuni requisiti di liquidità per evitare vendite forzate. I regolatori possono introdurre finestre transitorie per gestire le perdite non realizzate nei veicoli infrastrutturali detenuti da investitori istituzionali, senza snaturare la disciplina di mercato.

I governi potrebbero offrire garanzie selettive per completare infrastrutture energetiche critiche già oltre una certa soglia di avanzamento, per non sprecare capitale già impegnato e per salvaguardare sicurezza di rete e approvvigionamenti. Sono misure mirate, non nazionalizzazioni.

Il punto chiave è la diversa architettura del rischio rispetto al passato. La leva più pericolosa è stata usata fuori dal perimetro bancario tradizionale e legata ad asset specifici, spesso con ricorso limitato. Questo riduce la probabilità di una crisi sistemica di liquidità, ma aumenta la pressione su fondi meno liquidi e su progetti che dipendono da ipotesi di utilizzo elevate. Se la domanda rallenta, gli effetti si concentrano dove i contratti e il debito sono più rigidi. Se invece l’adozione reale dell’AI continua, anche a ritmi più lenti, la filiera può riassorbire l’eccesso con sconti e tempi più lunghi, e i grandi operatori useranno la loro forza di bilancio per consolidare il mercato.

Tradotto in termini operativi: niente panico sistemico, ma una correzione profonda e selettiva. I soggetti più fragili nella periferia del mercato pagherebbero per primi. I flussi di cassa dei big stabilizzerebbero il nucleo. Le istituzioni pubbliche sosterrebbero la liquidità, non gli azionisti. E l’AI, spogliata dell’euforia, resterebbe come infrastruttura industriale con cicli più simili a quelli dell’energia e delle telecomunicazioni che non a una moda passeggera.

Boom o bolla? Il mercato si divide

Non tutti, però, condividono la lettura “scettica” che domina in questi mesi.
Nel dibattito internazionale sulla “bolla dell’AI vs. boom dell’innovazione”, analisti e gestori, tra cui Nancy Curtain, Mike Co e Kevin Man[1] , sostengono che il mercato dell’AI non sia una bolla classica, ma un mercato rialzista trainato dall’innovazione, destinato a durare più a lungo del previsto.

Secondo Curtain, i mercati guidati dall’innovazione “aggiungono produttività e valore strutturale all’economia”, a differenza dei cicli puramente speculativi. Mike Co ricorda che, diversamente dalla fine degli anni ’90, le aziende di oggi hanno ricavi reali e margini record: Nvidia, per esempio, mostra margini netti superiori al 50%, mentre Cisco, durante la bolla dot-com, scambiava a oltre 200 volte gli utili. Oggi Nvidia vale circa 30 volte, “un multiplo non estremo nel contesto storico”. Kevin Man ritiene che “chi aspetta che la bolla scoppi rischia di perdere i rendimenti più importanti”. Alcuni hedge fund come quello di Michael Burry[2] (il celebre investitore della crisi subprime) hanno assunto posizioni ribassiste su Nvidia e Palantir, indicando la disconnessione tra fondamentali e valutazioni.

In questo contesto, è utile chiarire due indicatori chiave:

  • P/E (Price/Earnings): esprime il rapporto tra prezzo dell’azione e utili per azione. Un P/E forward di 31–32x, come quello di Nvidia, significa che gli investitori pagano oggi 31 volte gli utili previsti per l’anno successivo. È un valore elevato ma non eccessivo per un’azienda con forte crescita e margini solidi.
  • P/S (Price/Sales): misura il prezzo in rapporto ai ricavi. Un P/S di 85x, come nel caso di Palantir, indica che il titolo è “prezzato alla perfezione”, ossia riflette già aspettative di crescita altissime difficili da mantenere. Con un P/E corrente oltre 400x, la valutazione risulta molto lontana dai fondamentali reali.

Eppure, anche in questo caso, la distinzione è sottile: Palantir mostra fondamentali solidi, un run rate di oltre 4 miliardi di dollari e una crescita del 63%, consolidando il suo ruolo nel software AI per aziende e governi.

L’ecosistema AI e la corsa infrastrutturale

Secondo il panel, il ciclo attuale non è trainato solo da speculazione ma da capex reali e diffusi. Gli hyperscalers, da Alphabet ad Amazon, hanno superato le attese di ricavi e utili, continuando a investire massicciamente in data center, chip e infrastrutture.

Si stima che gli investimenti in infrastruttura AI possano raggiungere i 3–4 trilioni di dollari entro il 2030, alimentando un ecosistema che va dai chip di Nvidia e TSMC, ai sistemi di raffreddamento (Vertive, Modine), fino alle utility energetiche, sempre più coinvolte come “fornitori di base” del nuovo boom tecnologico. Curtain suggerisce di “pattinare dove sta andando il disco”: spostare l’attenzione dai costruttori di infrastruttura ai beneficiari di seconda ondata, le aziende che useranno l’AI per aumentare produttività, efficienza e redditività. In questa transizione che si giocherà la sostenibilità del ciclo: dai chip alle applicazioni.

AI, tra euforia e realismo

L’ottimismo di Sarah Friar trova dunque riscontro in parte del mercato, ma contrasta con gli allarmi di Bain & Co. e di gestori come David Einhorn, secondo cui “una quantità enorme di capitale rischia di essere distrutta in questo ciclo”. Anche i segnali tecnici parlano di possibile surriscaldamento: secondo Bloomberg, il mercato è “in ritardo per una correzione”, con possibili flessioni del 2-3% nel breve termine, anche se la liquidità disponibile resta elevata e i mesi invernali, storicamente, favoriscono i rimbalzi dei titoli tech.

Tra boom e bolla: una corsa a due velocità

Nel frattempo, il quadro appare duplice. Da un lato, Nvidia consolida una posizione dominante, spinta da una domanda di chip che supera l’offerta e margini mai visti. Dall’altro, titoli come Palantir o Super Micro mostrano la fragilità di valutazioni iperboliche: anche quando battono le stime, i titoli correggono bruscamente, segno di aspettative eccessive e volatilità crescente. Gli analisti invitano a “comprare sui ribassi” solo in presenza di fondamentali solidi, e a diversificare verso settori collegati ma più difensivi, come energia e industria, che beneficiano indirettamente dell’espansione AI.

Visione o bolla?

Alla fine, il dibattito resta aperto: bolla o boom? Per molti investitori, il mercato dell’AI è una corsa automobilistica in cui i produttori di chip stanno costruendo le autostrade digitali del futuro. Ma, come ricordano gli strateghi, “non si vince scommettendo solo su chi costruisce la strada, bensì anche su chi la percorrerà”: i settori che sapranno sfruttare questa infrastruttura, energia, sanità, biotech, manifattura, potrebbero essere i veri vincitori del decennio.

L’appello di Sarah Friar a “correre verso il futuro” coglie un punto essenziale: l’AI non è una moda passeggera, ma una trasformazione sistemica. L’“esuberanza” che lei invoca rischia di diventare cieca se non accompagnata da realismo economico, prudenza finanziaria e sostenibilità energetica. Perché la linea che separa visione e bolla, come la storia insegna, si vede quasi sempre solo dopo che è scoppiata.

Glossario finanziario

P/E (Price to Earnings) Rapporto tra prezzo dell’azione e utili per azione. Indica quante volte gli investitori pagano gli utili di un’azienda. Un P/E alto riflette aspettative di forte crescita futura, ma può segnalare anche sopravvalutazione.

P/S (Price to Sales) Rapporto tra prezzo di mercato e fatturato per azione. Serve a valutare aziende con utili ancora bassi ma crescita dei ricavi elevata. Valori molto alti, come nel caso di Palantir, indicano che il mercato sta scontando ricavi futuri molto superiori a quelli attuali.

Run rate Indicatore che annualizza i ricavi di un periodo (ad esempio un trimestre) per stimare la performance su base annua.

Capex (Capital Expenditure) Spese in conto capitale, cioè investimenti a lungo termine in infrastrutture, impianti o tecnologie.

Hyperscalers I grandi operatori globali del cloud computing (come Amazon, Google, Microsoft) che gestiscono enormi capacità di calcolo e infrastrutture dati utilizzate per l’AI.


[1] AI’s next market catalyst and bubble concerns https://www.youtube.com/watch?v=WSD8v5xBJ-c

[2] https://en.wikipedia.org/wiki/Michael_Burry

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