Negli ultimi anni, complice un contesto economico sempre più volatile e un mercato pubblicitario in profonda trasformazione, il marketing ha vissuto una metamorfosi silenziosa. Non solo per i nuovi strumenti, le tecnologie o le piattaforme emergenti, ma per il modo stesso in cui le aziende scelgono — o non scelgono — di comunicare. È in questo scenario che si è affermato un fenomeno sempre più diffuso: il going dark, letteralmente “andare al buio”.
Una tendenza che non riguarda solo i grandi brand, ma che – come conferma Michaela Matichecchia, consulente di Digital Marketing con una vasta esperienza nel settore – si registra concretamente anche tra le piccole e medie imprese.
“Andare al buio” significa sospendere, anche solo temporaneamente, le attività di marketing e comunicazione. Un gesto che spesso nasce da esigenze di budget o da un impulso di prudenza in tempi difficili ed in alcuni casi può significare – anche – mettere in scena l’imperfezione come scelta strategica disruptive.
In un momento in cui i costi crescono e i margini si assottigliano, il marketing appare — a molti Consigli di amministrazione — come la prima voce da tagliare. La CMO Survey 2025 – la ricerca annuale promossa da Duke University, Deloitte e American Marketing Association – segnala come il 44% dei Direttori Marketing abbia deciso di ridurre i budget nell’ultimo anno, principalmente per cautela economica.
Una riduzione apparentemente logica: perché spendere per comunicare quando il mercato rallenta e la domanda si indebolisce?
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Perché il going dark marketing erode fiducia e brand equity
Eppure, tutto è marketing. Advocacy, partnership, policy e gestione reputazionale. Il raggio d’azione del marketing si espande e sconfina oltre il classico perimetro.
Spegnere il flusso di comunicazione può sembrare una mossa cauta, ma in realtà è un azzardo che compromette la relazione costruita nel tempo con i consumatori. Un’azienda che smette di parlare smette, in qualche modo, di esistere nella percezione collettiva. La memoria di marca si indebolisce, la fiducia si assottiglia, e quel capitale intangibile che chiamiamo brand equity si erode giorno dopo giorno, spesso in modo irreversibile.
I dati mostrano fino al 13% di brand equity in meno dopo sei mesi di silenzio.
Dal CMO al Chief Brand Officer: il brand come piattaforma
Oggi, per le aziende, ogni touchpoint comunica identità perché il brand non è solo messaggio, ma uno strumento narrativo che attraversa cultura, tecnologia e strategia. Se il marketing resta confinato alle campagne, perde presa sul racconto complessivo. Per questo le aziende integrano sempre di più branding e decisioni strategiche, creando nuovi ruoli capaci di presidiare il capitale reputazionale e guidare la visione, non solo l’esecuzione tattica.
Il ruolo del Chief Marketing Officer si trasforma sempre più in quello di Chief Brand Officer. Non è solo un cambio di titolo, ma un cambio di paradigma. Il brand non è più una somma di campagne o di prodotti, ma una piattaforma culturale, un ecosistema di valori e significati che abita le conversazioni, le scelte e persino le emozioni delle persone. Una svolta strategica fondamentale ed ineludibile, come conferma Matichecchia.
In un mondo in cui la pubblicità tradizionale fatica a catturare attenzione, il brand diventa l’architettura narrativa di un’impresa. È ciò che permette a un’azienda di prendere posizione, di costruire fiducia, di essere riconosciuta non solo per ciò che vende, ma per ciò che rappresenta.
Secondo McKinsey un’azienda con le funzioni di CBO e CMO integrate è in grado di generare un tasso di crescita di 2,3 volte superiore a chi divide le funzioni o che non ha scelto di avere un Chief Brand Officer nel suo organigramma.
Gli esempi non mancano. Starbucks, con l’arrivo di Tressie Lieberman come Chief Brand Officer globale, ha unificato le funzioni – a livello dirigenziale – marketing, comunicazione e affari aziendali per puntare decisi sull’identità di brand come prima leva di marketing e comunicazione. In Tommy Hilfiger la CBO, Avery Baker, si occupa della visione creativa del marchio, del design del prodotto, comunicazione, marketing e dell’esperienza d’acquisto.
Paura di sbagliare, contenuti imperfetti e alternative al going dark marketing
C’è poi un altro aspetto, più sottile ma altrettanto decisivo. Molte aziende scelgono di “andare al buio” non solo per una questione economica, ma per paura. Paura di dire la cosa sbagliata, di non essere allineate con la sensibilità del momento, di incorrere in un errore che possa trasformarsi in un danno reputazionale.
È un’ansia comprensibile, in un’epoca in cui ogni parola viene amplificata e ogni gesto può diventare virale nel bene e nel male. Ma è anche un’illusione pericolosa: quella di credere che il silenzio equivalga alla sicurezza.
Nell’età dell’incertezza, il silenzio non è una tutela. È una resa. Le persone non chiedono ai brand di essere perfetti, ma di essere presenti, coerenti e umani. L’errore, se gestito con trasparenza, non distrugge la fiducia: la rafforza. Mostrare imperfezioni, riconoscere limiti, accettare di non avere sempre la risposta giusta — tutto questo genera empatia, prossimità, autenticità.
Secondo la consulente di Digital Marketing Michaela Matichecchia “È fondamentale distinguere le motivazioni. La decisione di Bottega Veneta, ad esempio, di spegnere la comunicazione social è stata una mossa di preciso posizionamento del brand, non di ‘going dark’, infatti hanno continuato ad avere un impegno elevatissimo nella realizzazione di contenuti delegando il dialogo pubblico ad account gestiti da privati che veicolano in modo naturale i contenuti del brand. Questo atteggiamento è distante anni luce dalla PMI che interrompe le pubblicazioni perché è in affannosa ricerca dell’agenzia partner perfetta. Nelle aziende sane, quelle che non hanno ragione di preoccuparsi di scandali o di semplici recriminazioni, la paura la vedo sempre più spesso, ma non mi sembra sia il timore di chi non vuole cadere in un ‘pandoro gate’ ma piuttosto l’ansia del marketing manager di non deludere la direzione. Il vero timore non è il commento in sé, quanto il fatto che quel commento non sia compreso ai livelli più alti dell’azienda”.
Il contenuto imperfetto, nel marketing contemporaneo, è diventato (anche) una leva strategica per ottenere risonanza. È la dimostrazione che dietro un logo ci sono persone, non algoritmi; dialogo, non monologo.
Attenzione però: “Per creare contenuti che sembrino meno curati e quindi più autentici serve una grande qualità. Il rischio, oggi, è che i prodotti della comunicazione vengano considerati beni usa e getta, pensati per bruciarsi in poche ore. Spesso questo accade quando manca una strategia e la si sostituisce con la tattica, rincorrendo trend e KPI come fossero una bussola. Questo fenomeno è assecondato anche dalle agenzie di comunicazione e avviene perché l’orizzonte temporale appare molto limitato, tutto sembra essere estremamente volatile, ma, in realtà, non lo è” spiega Davide Bacarella, COO dell’agenzia di comunicazione Rebel, esperto di comunicazione, digital e comunicazione istituzionale.
Nell’anno che il The Economist ha definito dell’incertezza e dell’instabilità, la pianificazione lineare è resa sempre più fragile e si devono adottare approcci flessibili. I team marketing e comunicazione devono imparare a convivere con l’incertezza e con gli errori. Siamo nell’epoca dell’effectuation, per dirla come Saras Sarasvathy, docente di imprenditorialità all’Università della Virginia, che ha elaborato una teoria per supportare gli imprenditori oltre le strategie predittive. Un approccio attuale (e utile) anche per i marketer.
Come ha spiegato l’esperto di comunicazione pubblica e istituzionale Domenico Repetto durante l’ultima edizione di Smart Life Festival “In un’epoca segnata da crisi e incertezze, a fare da bussola è la comunicazione istituzionale”. E proprio dalla comunicazione istituzionale possono prendere spunto le aziende e i loro brand. Non limitarsi solo ad informare, ma anche ispirare e produrre cultura.
Bacarella aggiunge: “Due cose le aziende potrebbero imparare dalla comunicazione istituzionale ben fatta: la prima è la prudenza, la seconda è la capacità di mediare tra ciò che i vertici vorrebbero comunicare e ciò che è davvero opportuno dire, mantenendo uno stile autorevole e una continuità con i valori dell’istituzione rappresentata”.
Marketing del futuro tra relazione, ascolto e responsabilità
Pensare al going dark come ad una strategia di protezione finisce per esporre l’azienda a rischi ben maggiori. Perché chi si ritira dal dialogo perde non solo visibilità ma anche la capacità di comprendere il proprio pubblico, di intercettare cambiamenti culturali, di adattarsi a nuove sensibilità.
Il mercato, come la società, non si ferma mai. Restare in ascolto, anche quando non si comunica in modo diretto, è una forma di investimento. Continuare a presidiare i canali, anche con messaggi più sobri, riflessivi o con dettagli meno curati (e con tempi di lavorazione più bassi), significa mantenere una presenza viva, riconoscibile, che resiste alle oscillazioni dei cicli economici.
In un’epoca in cui il brand è un attore culturale a tutti gli effetti, uscire di scena non porta benefici.
Essere presenti non significa però comunicare a ogni costo o senza misura. Significa essere abili nel dosare tono, linguaggio e contenuti in funzione del contesto. Il marketing del futuro non sarà solo quello dei grandi spot o delle campagne monumentali, ma quello della relazione continua, della coerenza narrativa, anche dei dubbi, purché condivisi con il proprio pubblico.
In questa logica, il compito dei marketer cambia radicalmente: non è più solo “convincere a comprare”, ma “coltivare significato”. Il valore di un brand non si misura soltanto in termini di fatturato, ma nella capacità di contribuire con responsabilità e creatività alla costruzione di senso, di essere parte del discorso collettivo.
Il going dark è, in definitiva, la tentazione di spegnere la luce quando il cammino si fa incerto, ma anche l’abilità di muoversi “a vista” con i marketer a tracciare la rotta come fossero skipper in un mare agitato.
La comunicazione, in tempi difficili, non è un lusso al quale è bene rinunciare: è una bussola, per l’azienda, la sua governance e per tutti i collaboratori e per il pubblico (audience).
Tagliare il marketing, quindi, significa molto più che risparmiare qualche punto percentuale sul budget annuale: significa rinunciare a un pezzo della propria identità pubblica ed a contribuire a tracciare nuove rotte nella complessità.








