cittadinanza digitale

Educare i ragazzi al digitale: oltre i divieti per una cittadinanza attiva



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Le normative basate su divieti non bastano. L’educazione digitale deve accompagnare i giovani nello sviluppo di cittadinanza consapevole, coltivando senso critico ed empatia negli ambienti ibridi che abitano quotidianamente

Pubblicato il 28 mag 2025

Mirta Michilli

direttrice generale della Fondazione Mondo Digitale



scuola

Nel dibattito pubblico sull’impatto delle tecnologie digitali sui più giovani, assistiamo oggi a una polarizzazione crescente: da un lato, il ricorso a misure restrittive e divieti generalizzati; dall’altro, la domanda urgente di nuovi modelli educativi capaci di accompagnare i ragazzi nella costruzione della propria identità digitale.

È in questo contesto che si colloca la sfida dell’educazione digitale come leva di empowerment giovanile, non solo in termini di alfabetizzazione tecnica, ma soprattutto di sviluppo civico, creativo e relazionale.

Vietare non basta: serve un disegno educativo

Le quattro proposte di legge attualmente in discussione in Parlamento mostrano chiaramente la tendenza prevalente alla regolazione attraverso il divieto.

Dall’innalzamento dell’età per il consenso digitale alla limitazione dell’accesso a servizi ritenuti a rischio (proposta Richetti, AC 1217), dalla tutela patrimoniale dei baby influencer e il diritto all’oblio (Sportiello, AC 1771 e Bonelli, AC 1800), fino alla previsione di canali diretti di emergenza e alla nullità dei contratti per i minori senza consenso genitoriale (Madia-Mennuni, AC 1863), il focus si concentra sulla protezione e sul controllo, più che sull’educazione.

Basti pensare che nelle quattro proposte (44 pagine in totale) il termine “educazione” compare solo quattro volte (un’occorrenza è parte del titolo di una rivista citata).

Ma vietare non basta. La regolazione normativa, se non inserita in un più ampio disegno educativo, rischia di consolidare una visione adultocentrica e paternalistica, che esclude proprio i soggetti che intende proteggere: i giovani.

Le nuove generazioni abitano uno spazio che non può più essere descritto nei termini della distinzione tra online e offline. È uno spazio ibrido, onlife, come lo definisce Luciano Floridi, oppure firtuale, nella definizione che preferiamo, elaborata da Alfonso Molina, in cui le dimensioni fisiche e digitali si integrano senza confondersi. È lì che si apprendono linguaggi, si costruiscono relazioni, si forma la cittadinanza. Ed è lì che deve collocarsi anche l’azione educativa.

Un modello educativo orientato alla co-costruzione di competenze digitali

In risposta a uno scenario sempre più polarizzato tra proibizionismo e abbandono, con la Fondazione Mondo Digitale ETS stiamo sviluppando un modello educativo orientato alla co-costruzione di competenze digitali, sociali e civiche. Un approccio che valorizza la sinergia tra scuola, famiglia e comunità educante, cioè l’insieme di soggetti pubblici e privati (istituzioni, enti culturali, media, forze dell’ordine, garanti, associazioni) che, a vario titolo, concorrono alla formazione delle nuove generazioni, e si fonda su metodologie attive e inclusive: laboratori esperienziali, role play, ambienti immersivi, narrazioni condivise.

La realtà che non deve esistere

Particolarmente significativa si è rivelata l’esperienza immersiva di storytelling partecipativo realizzata in collaborazione con la Polizia Postale e Rai Cinema con il format “La realtà che non deve esistere”, Il percorso, pensato per le scuole, affronta in modo innovativo tematiche complesse come la violenza di genere online, l’hate speech, il revenge porn, il body shaming, la dipendenza da social network e le vulnerabilità legate all’intelligenza artificiale e alla manipolazione dei contenuti digitali.

L’obiettivo non è soltanto informare sui rischi, ma creare vere e proprie occasioni collettive di apprendimento trasformativo, dove le narrazioni negative vengono decostruite e reinterpretate. I “decaloghi digitali” che emergono da questi percorsi non rappresentano elenchi prescrittivi, ma strumenti di consapevolezza e responsabilità condivisa, frutto del confronto tra pari, adulti ed esperti.

Gli adulti come co-protagonisti educativi

Un altro elemento qualificante del modello è il ruolo degli adulti. Non si tratta di “esperti” che spiegano da una cattedra, ma di figure educative che entrano nei contesti formativi come facilitatori e co-autori. Poliziotti, attivisti, creator, giornalisti, garanti della privacy, insegnanti: tutti vengono coinvolti nei laboratori accanto agli studenti, condividendo esperienze, competenze e anche dubbi. In questo modo si rompe la logica trasmissiva e si favorisce una relazione educativa fondata sull’ascolto reciproco e sull’apprendimento intergenerazionale.

Il benessere come diritto educativo

L’educazione digitale, per essere realmente trasformativa, deve occuparsi anche del benessere psicologico e relazionale dei minori. Il recente dibattito suscitato dal libro The Anxious Generation di Jonathan Haidt ha avuto il merito di riportare l’attenzione sull’impatto che la vita connessa può avere sulla salute mentale. Tuttavia, molte letture si sono fermate a una condanna dei social media, trascurando il fatto che il disagio giovanile non nasce solo online, ma anche, anzi soprattutto, dalla progressiva erosione degli spazi fisici di socialità: piazze, oratori, cortili, biblioteche, palestre. Dalle difficoltà di stare in relazione, soprattutto tra e con gli adolescenti.

In questo senso, la proposta educativa della Fondazione Mondo Digitale punta a reintegrare le esperienze fisiche e digitali in un percorso sinergico, in cui le tecnologie siano strumenti per potenziare, e non sostituire, la relazione educativa. Il benessere viene così riconosciuto come diritto educativo fondamentale: ogni ragazzo ha diritto a un accompagnamento consapevole e non giudicante, a una guida adulta che non tema il conflitto, ma sappia attraversarlo con strumenti di cura e ascolto.

Contro il pessimismo tecnologico: educare con fiducia critica

Nel ragionare sull’educazione digitale, occorre interrogarsi anche sulle cornici culturali da cui essa viene narrata. Come osserva Giovanni De Mauro in un editoriale pubblicato su Internazionale nel febbraio 2025, siamo immersi in un clima crescente di pessimismo tecnologico, in cui ogni innovazione è recepita con sospetto e spesso interpretata solo alla luce dei suoi potenziali danni.

Dall’uso dell’intelligenza artificiale nei compiti scolastici ai social network vissuti come minaccia alla salute mentale, l’immaginario collettivo tende a costruire scenari apocalittici, dimenticando il potenziale trasformativo della tecnologia.

Ma un educatore non può permettersi questo pessimismo. Non perché debba farsi ingenuo entusiasta del progresso, ma perché ha la responsabilità di attivare negli studenti una postura riflessiva e generativa. L’educazione non può limitarsi a raccontare ciò che va evitato: deve ispirare ciò che può essere costruito. E per farlo, deve abitare la complessità del presente, riconoscendo il digitale come parte integrante delle vite dei giovani, non come un intruso da neutralizzare.

Noi consideriamo la tecnologia come un acceleratore sociale: uno strumento potente per favorire l’inclusione, ridurre le disuguaglianze, creare spazi di protagonismo e cittadinanza. A condizione, però, che venga accompagnata da un’azione educativa profonda, che connetta la competenza tecnica alla coscienza critica, l’innovazione alla giustizia sociale, l’intelligenza artificiale alla responsabilità umana. Solo così il digitale può davvero diventare un alleato nella costruzione di una società più equa e partecipativa.

Un approccio educativo centrato sul protagonismo giovanile

Educare al digitale non significa semplicemente “prevenire i pericoli”, ma accompagnare le nuove generazioni nello sviluppo di cittadinanza consapevole in ambienti complessi e in continua evoluzione. Significa coltivare senso critico, empatia, responsabilità; offrire occasioni per esplorare dilemmi etici, interrogarsi sulla propria presenza online e costruire insieme visioni alternative. Per farlo, è necessario adottare un approccio educativo che riconosca ai giovani un ruolo attivo e creativo. Un approccio che investa sulla loro capacità di produrre immaginari, reinterpretare la rete come spazio di senso e non solo di consumo, e assumersi la responsabilità condivisa di immaginare – e costruire – una realtà più giusta, inclusiva e umana.

Superare le proibizioni fini a sé stesse significa riconoscere che i divieti, se non accompagnati da esperienze formative autentiche, rischiano di produrre esclusione, sfiducia, infantilizzazione. L’educazione digitale non è un ambito solo tecnico o regolatorio: è uno spazio relazionale, culturale e sociale in cui si costruiscono identità, appartenenze e prospettive. Non si tratta solo di insegnare a usare le tecnologie, ma di viverle in modo consapevole, trasformarle, immaginarle diverse.

Per questo, oggi più che mai, serve un nuovo patto educativo tra generazioni. Un’alleanza che non opponga fisico e digitale, giovani e adulti, ma che costruisca ponti dove oggi sembrano esserci solo barriere. Perché la cittadinanza digitale non si trasmette: si abita, si condivide, si co-progetta. Insieme e in relazione.

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