Cosa succede quando le università escono dalle loro “torri d’avorio” e iniziano a dialogare davvero con la società? È questo il cuore della cosiddetta “Terza missione” delle Università italiane, oggi al centro di una profonda trasformazione concettuale, organizzativa e culturale.
Ma c’è di più: secondo il recente rapporto della CRUI (Conferenza dei Rettori delle Università Italiane), il termine stesso “Terza missione” è ormai superato.
Il concetto chiave è “valorizzazione delle conoscenze”, intesa non come funzione residuale rispetto a didattica e ricerca, ma come parte integrante della missione pubblica dell’università.
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Dal trasferimento tecnologico alla generazione di impatto sociale
Definire che cos’è la Terza Missione è un compito tutt’altro che semplice. Negli ultimi anni, infatti, questa espressione ha assunto significati progressivamente più ampi e talvolta ambigui, tanto da generare interpretazioni diverse e, in alcuni casi, persino confusioni concettuali. In estrema sintesi, per Terza Missione si intende “l’insieme delle attività con le quali l’Università entra in interazione diretta con la società, ne favorisce lo sviluppo economico, culturale e sociale, attraverso la trasformazione, la messa a disposizione e la circolazione della conoscenza prodotta principalmente con l’attività di ricerca”. È una responsabilità istituzionale alla quale l’Università deve rispondere in funzione delle proprie specificità.
La Terza Missione viene ciclicamente valutata dall’Agenzia Nazionale per la Valutazione del Sistema Universitario e della Ricerca (ANVUR) nell’ambito della Valutazione della Qualità della Ricerca (VQR). Nell’ultimo bando, l’ANVUR utilizza sia l’espressione Valorizzazione delle conoscenze che quella di Terza Missione ed Impatto Sociale, indicando una serie di aree tematiche, quali: area tematica relativa al trasferimento tecnologico; area tematica relativa alla produzione, gestione di beni pubblici; area tematica relativa al public engagement; area tematica relativa alle scienze della vita e salute; ed infine area tematica relativa alla sostenibilità ambientale, alla inclusione e al contrasto alle diseguaglianze.
Il dibattito intorno alla Terza Missione non si esaurisce nella sua definizione o nelle sue potenzialità, ma tocca anche le possibili criticità che essa comporta per la vita universitaria. Diverse voci, di recente, hanno messo in guardia dai rischi legati a un’eccessiva enfasi su questo ambito.
In primo luogo, l’università si trova già oggi a dover rispondere a sfide interne considerevoli: studenti con livelli di preparazione più eterogenei rispetto al passato, che richiedono maggiore attenzione nella didattica; carichi burocratici sempre più complessi che sottraggono tempo prezioso all’attività scientifica; una concorrenza crescente da parte di altri attori – media, istituti culturali, fondazioni – nel campo della divulgazione e del trasferimento della conoscenza.
In un contesto così densamente impegnativo, chiedere ai docenti di dedicarsi anche a progetti di Terza Missione rischia di tradursi in una dispersione di energie e in una minore cura delle due missioni originarie, ossia l’insegnamento e la ricerca. A questo si aggiunge il problema della burocratizzazione: le attività di Terza Missione non solo richiedono progettazione e attuazione, ma necessitano anche di una rendicontazione puntuale per ottenere la valutazione dell’ANVUR, con effetti diretti sul finanziamento agli atenei. Come ha osservato Marazzini, quando la Terza Missione diventa un obbligo da “misurare e pesare a scopo di valutazione collettiva e individuale” si corre il rischio di generare una distorsione, in cui le università e i docenti si trovano a inseguire parametri burocratici anziché rispondere alla loro vocazione principale.
Su una linea simile, Giunta ha evidenziato come l’idea originaria di un’attività volontaria e saltuaria, intesa come forma di restituzione alla società, rischi di degenerare in una pratica normata e competitiva, che premia più la visibilità che la sostanza.
Il quadro che emerge è quindi complesso. Da un lato si riconosce il valore dell’apertura dell’università verso la società, dall’altro si teme che un’eccessiva istituzionalizzazione della Terza Missione finisca per gravare su docenti e ricercatori già sovraccarichi, minacciando la qualità della didattica e della ricerca. Si tratta di un dilemma cruciale, che obbliga a riflettere su quale debba essere la priorità dell’università e su come bilanciare l’esigenza di innovazione e responsabilità sociale con la tutela delle sue funzioni originarie.
Il progetto ITA.CON: analisi e prime proposte
Il progetto ITA.CON (acronimo di Italia-conoscenze, in inglese Italy-knowledge) mira a formulare opzioni di riforma politica praticabili per sostenere le università statali italiane nella generazione di valore culturale ed economico con e per la società. Tali riforme dovrebbero promuovere una collaborazione più esplicita e sistematica tra le università e i loro partner esterni. Sebbene concepito prima dello scoppio della pandemia, il progetto è stato avviato nel 2021, in piena emergenza globale da COVID-19 e con i suoi profondi impatti socio-economici, in un momento in cui le università di tutto il mondo sono state costrette a riorganizzare radicalmente le proprie attività quotidiane. La trasformazione ha comportato il repentino spostamento di lezioni, riunioni ed eventi in formato virtuale.
Le attività di ricerca hanno subito ritardi e l’accesso ai campus fisici è diventato difficoltoso. Tuttavia, la pandemia ha avuto anche un effetto catalizzatore sulle attività di collaborazione tra università e imprese. In particolare, la crisi sanitaria ha messo in evidenza l’importanza di tali partnership, i cui sforzi congiunti sono stati determinanti per accelerare la ricerca sui potenziali vaccini, contenere la diffusione del virus e accrescere la resilienza complessiva delle nostre economie e società. Il rafforzamento delle attività di Knowledge Exchange and Collaboration (KEC) nel sistema universitario italiano rappresenta dunque una grande opportunità.

Criticità emerse e soluzioni proposte
L’analisi condotta, attraverso questionari e interviste realizzati con 56 università statali italiane e i loro partner, ha mostrato che gli atenei sono già attivamente impegnati in attività di Knowledge Exchange and Collaboration con un impatto concreto sulla società.
Negli ultimi anni, infatti, le università hanno intensificato le collaborazioni con imprese, istituzioni e comunità locali, contribuendo a rispondere a sfide sociali ed economiche. Tuttavia, il quadro italiano presenta ancora ostacoli significativi che frenano la piena valorizzazione di queste attività.
In particolare, sono emerse tre criticità principali:
- le caratteristiche degli ecosistemi produttivi circostanti;
- la mancanza di riconoscimento e di incentivi di carriera per il personale accademico impegnato in KEC;
- il peso eccessivo della burocrazia.
Ne deriva la necessità di riforme capaci di rendere il sistema universitario più flessibile, aperto e in grado di generare valore culturale ed economico con e per la società. Le soluzioni, come evidenziato da ITA.CON, non possono essere unidimensionali, ma devono affrontare contemporaneamente più piani – organizzativo, culturale e normativo – per favorire relazioni stabili tra università e partner esterni e rafforzare l’impatto sociale della conoscenza.
Le tre aree di intervento prioritarie
Per rafforzare lo scambio di conoscenze (Knowledge Exchange and Collaboration – KEC) tra università e società, il progetto ITA.CON propone tre aree di intervento prioritarie.
La prima riguarda l’organizzazione e gestione strategica delle università con l’introduzione di piani strategici KEC obbligatori e finanziati, la creazione di uffici dedicati con competenze trasversali, strumenti digitali per monitorare attività e impatti, oltre a una maggiore flessibilità nei corsi di studio per favorire interdisciplinarità e collegamento con i fabbisogni del territorio.
La seconda area è la Governance delle politiche di innovazione sociale che punta a incentivare forme di collaborazione “federativa” tra università vicine, istituire un helpdesk nazionale presso il MUR per supportare le strategie e adottare il principio europeo “il più possibile aperto, il più possibile chiuso” per rendere più trasparenti ed efficaci i partenariati.
Infine, la terza area riguarda risorse umane e finanziarie. Più fondi stabili per le attività KEC, la stabilizzazione dei professionisti oggi a contratto, premi annuali per le esperienze più innovative e il sostegno alla citizen science come strumento di coinvolgimento diretto della società.
Insieme, queste proposte delineano una strada per rendere le università italiane più aperte, collaborative e capaci di generare valore culturale, sociale ed economico per i territori.
Verso nuovi modelli di valutazione dell’impatto
Una delle sfide centrali è valutare l’effettivo impatto delle attività di Terza missione. Secondo la CRUI non si tratta soltanto di una questione valutativa o rendicontativa, ma di un vero e proprio orientamento strategico che ridefinisce la missione accademica in rapporto alla società. L’università, infatti, non è più valutata unicamente in termini di produzione scientifica o di formazione di capitale umano, ma anche rispetto alla sua capacità di generare cambiamento nei territori, incidere sulle comunità e favorire transizioni verso modelli di sviluppo sostenibili.
In questa prospettiva, la misurazione dell’impatto assume una duplice funzione. Da un lato consente di rendere visibili gli effetti sociali, culturali, economici e ambientali delle attività universitarie; dall’altro diventa strumento di apprendimento organizzativo e di orientamento delle scelte future.
L’università del 2030: trasformazione e nuovo contratto sociale
Modelli come l’Impact Pathway, promossi a livello europeo, mostrano come sia possibile collegare input, output e outcome in un percorso logico che rende trasparenti i benefici e i cambiamenti prodotti a medio e lungo termine.
Il documento UNESCO Futures of Education sottolinea inoltre la necessità di ripensare l’educazione attraverso un nuovo contratto sociale, inclusivo e sostenibile, che ponga l’università al centro di una rinnovata alleanza con la società. In tale prospettiva, l’università del 2030 deve superare una concezione chiusa e autoreferenziale per configurarsi come istituzione aperta e interconnessa, capace di valorizzare la collaborazione con i territori e di contribuire attivamente allo sviluppo sociale, economico e ambientale. Ciò implica una trasformazione profonda della sua missione: non più soltanto formazione tecnica e professionale, ma anche crescita integrale delle persone, promozione della responsabilità sociale e stimolo al rinnovamento creativo.
Ripensare la carriera accademica: didattica e terza missione
Un ulteriore elemento che meriterebbe maggiore attenzione riguarda il sistema di progressione di carriera accademica. Se da un lato appare ormai condivisa l’idea che la Terza Missione debba essere considerata nelle valutazioni individuali, dall’altro sarebbe opportuno estendere la prospettiva anche alla didattica, valorizzandone la qualità e l’innovatività.
L’università del futuro non può più basarsi unicamente su parametri di ricerca e pubblicazioni: occorre riconoscere il ruolo strategico della formazione, includendo nei criteri di avanzamento la capacità di sperimentare metodologie didattiche nuove, l’uso di tecnologie digitali e l’attenzione agli esiti dell’apprendimento. In questo senso, anche i giudizi degli studenti possono rappresentare una fonte preziosa di valutazione, da integrare con strumenti trasparenti e strutturati che diano rilievo al contributo educativo dei docenti.
Così come per la Terza Missione, anche la didattica deve diventare parte integrante di un modello di carriera che premi non solo l’eccellenza scientifica ma anche l’impatto formativo e sociale.
Il ruolo strategico dell’educazione superiore
In questo quadro, l’educazione superiore assume una funzione strategica per la costruzione di società più eque e resilienti, in grado di coniugare produzione di conoscenza, innovazione e cittadinanza attiva. L’Università non è solo il luogo di trasmissione del sapere, ma è lo spazio di trasformazione della persona, il motore della formazione dei leader di domani, capaci di decisioni etiche rigorose e di un’autentica leadership intellettuale.
Capacità ordinarie vs capacità dinamiche
Nel racconto della terza missione conviene tuttavia sottolineare e distinguere tra ciò che fa funzionare la macchina (capacità ordinarie) e ciò che la fa evolvere (capacità dinamiche).
Le capacità ordinarie identificano l’insieme di routine e risorse che garantiscono continuità operativa e qualità verificabile, comprendono strutture e procedure per proprietà intellettuale, contratti con imprese e amministrazioni, gestione di brevetti, licenze, spin off, protocolli per scienza aperta e protezione dei risultati, pianificazione e rendicontazione dei progetti, servizi per formazione continua e iniziative di public engagement.
La governance per l’evoluzione universitaria
Le capacità dinamiche esprimono invece l’attitudine a leggere i bisogni degli stakeholder e le traiettorie tecnologiche, mobilitare e riallocare risorse, riconfigurare unità organizzative e incentivi, costruire e governare portafogli di partnership.
Le prime assicurano efficienza, tracciabilità e scalabilità, le seconde orientano la direzione strategica, riducono l’incertezza e accelerano l’adozione di soluzioni utili. Le prime tengono in ordine la macchina organizzativa mentre le seconde traducono le priorità sociali in percorsi di lavoro e di sviluppo. Quando le due dimensioni operano in sincronia l’università trasforma conoscenza in risultati tangibili. Se invece prevalgono solo gli adempimenti o, all’opposto, sperimentazioni isolate, le risorse si disperdono e l’impatto si affievolisce.
Il dialogo necessario con le imprese
La chiave dunque è una governance che tenga insieme ordine ed evoluzione. Servono responsabilità chiare, incentivi e tempi allineati, uso di dati aperti e valutazioni trasparenti, così che didattica, ricerca e valorizzazione si rafforzino a vicenda. Allo stesso tempo, però, anche le imprese devono farsi trovare pronte. La trasformazione delle università può generare valore solo se incontra organizzazioni capaci di accogliere nuove forme di collaborazione, abbandonando l’idea tradizionale e talvolta riduttiva di un’università chiusa nella sua dimensione teorica. Solo in questo dialogo reciproco, fatto di adattamento e innovazione da entrambe le parti, la conoscenza potrà tradursi in soluzioni utili per la società e lo sviluppo dei territori.
Micro-missioni: una nuova frontiera territoriale
Le università si trovano dunque davanti a una tensione tra le aspettative di eccellenza nella ricerca e nella didattica, che tendono a privilegiare carriere e collaborazioni di respiro nazionale e internazionale, e il crescente invito a radicarsi nei territori come attori dello sviluppo place-based.
Questo genera diversi ostacoli. Da un lato la scarsità di incentivi per i ricercatori a impegnarsi con le esigenze locali; dall’altro la difficoltà delle imprese e delle amministrazioni a riconoscere, accedere e assorbire le competenze disponibili. A ciò si aggiungono sfide contestuali, come la frammentazione dei sistemi regionali di innovazione e il disallineamento tra gli orientamenti della ricerca universitaria e i bisogni industriali o sociali locali, particolarmente accentuati nelle aree meno sviluppate.
Alcune evidenze scientifiche (Henderson et al., 2024) propongono di leggere questi limiti non solo come barriere, ma come motivazioni per ridefinire i ruoli delle università. Da qui l’idea di elaborare delle micro-missioni intese come interventi di innovazione orientati a sfide circoscritte, collocate in uno spazio territoriale definito e riconoscibili dai cittadini e dagli attori locali.
A differenza delle grandi missioni nazionali o europee, esse si caratterizzano per un approccio più mirato, inclusivo e pragmatico, che consente di mobilitare risorse a scala ridotta e di sperimentare soluzioni radicate nei contesti locali.
Università come ancore territoriali e broker civici
Tali iniziative potrebbero offrire un terreno fertile per sperimentare nuovi modelli di partnership e processi di co-progettazione con costi di coordinamento più bassi e al tempo stesso rafforzano le capacità delle amministrazioni pubbliche e degli attori del territorio. In questo quadro, le università diventano “ancore territoriali” con una vasta gamma di expertise capaci di convenire attori diversi intorno a problemi comuni.
Le micro-missioni permettono infatti di valorizzare anche le competenze delle scienze sociali e umanistiche, essenziali per leggere i bisogni delle comunità, accompagnare processi inclusivi e valutare impatti sociali ed ecologici. Le università diventano così “broker civici”, capaci di offrire spazi sperimentali e comunità di pratica in cui amministratori, imprese e cittadini co-producono conoscenza e soluzioni.
Trasformare la frammentazione in opportunità
Attraverso questo ruolo, esse contribuiscono a superare due ostacoli rilevanti: da un lato la distanza tra gli obiettivi accademici, spesso proiettati su scala nazionale o internazionale, e le esigenze quotidiane delle comunità locali; dall’altro la frammentazione dei sistemi regionali di innovazione, che rischia di indebolire il potenziale di sviluppo delle aree meno avanzate. Le micro-missioni, al contrario, possono trasformare tale frammentazione in un’opportunità, stimolando l’apprendimento condiviso e costruendo nuove capacità collettive di innovazione place-based.











