Ogni giorno, all’interno degli ambienti comunicativi che frequentiamo, siamo sommersi da migliaia di parole che, tuttavia, sembrano non avere più nessun valore sociale.
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La parola e il suo ruolo nella società digitale
Nella comunicazione odierna, assistiamo spesso a promesse contraddittorie e dichiarazioni prive di impegno reale, dove la parola data pare aver perso la capacità di tenere insieme le persone.
Questa condizione di appiattimento del potere e della credibilità del linguaggio è amplificata oggi dai social media, dove aggressività verbale e disordine informativo favoriscono un uso cinico e strumentale delle parole, privilegiando l’effetto sull’aderenza alla verità (Tota, 2020; Couldry 2023; Buoncompagni, 2024).
Sappiamo, inoltre, come il capitalismo contemporaneo abbia contribuito negli anni a dissolvere i significati stabili, portando a un relativismo in cui “tutto è negoziabile sul piano dei significati” e, in questo contesto, la parola perde la sua capacità di orientare e costruire senso, riducendosi a strumento di manipolazione (Magatti, 2019).
Per contrastare questa deriva, appare necessaria una nuova ecologia della parola, che recuperi la sua dimensione relazionale e generativa.
“Parole in cammino”, capaci di dare voce al senso di precarietà e di orientare nel tempo che viviamo. Queste parole dovrebbero essere “transitive”, cioè aperte al passato e al futuro, e “deponenti”, in grado di ricevere e trasformare, anziché imporre (Giaccardi, Magatti, 2024).
La parola nella società contemporanea ha bisogno, dunque, di essere riabilitata come strumento di costruzione di legami e di senso condiviso, superandone l’uso strumentale e alimentando la sua funzione generativa e orientativa.
Nel cuore della modernità avanzata le democrazie occidentali si confrontano con una trasformazione profonda del linguaggio pubblico. Il “discorso” nel sociale e del sociale, inteso come spazio di mediazione simbolica e costruzione collettiva del significato, appare attraversato da una crisi strutturale che coinvolge il suo statuto epistemico, etico e relazionale.
Perché la parola si è trasformata in strumento di conflitto
Lungi dal costituire un luogo di incontro, la parola sembra così sempre più ridursi a strumento di conflitto, performatività strategica o semplice veicolo di disintermediazione emotiva (Postman, 1985; Sunstein, 2017).
Questa trasformazione, per quanto latente, si è acutizzata con l’emergere di tre dinamiche convergenti:
- la disgregazione del tessuto simbolico comune,
- l’ascesa di modalità comunicative disintermediate (in primis sui social media) e
- la crescente incapacità istituzionale di governare il conflitto attraverso processi negoziali.
Il risultato è un impoverimento del linguaggio pubblico che rende difficile, se non impossibile, la costruzione di significati condivisi, la gestione del dissenso e la progettazione collettiva del futuro (Habermas, 1981; Buoncompagni, 2023; Magatti, Giaccardi, 2019).
A fronte di tale fenomeno, è necessaria una riflessione sociologica sul valore della parola e sul suo ruolo nella tenuta del legame sociale.
La crisi della negoziazione nel linguaggio pubblico
Il presente contributo, infatti, si propone di indagare, in una prospettiva teorico-critica, il nesso tra crisi della parola e fine della negoziazione nell’era digitale e dei conflitti.
Un legame che va interpretato non solo come procedura politica o giuridica, ma come forma simbolica di coabitazione delle differenze. In particolare, ci si interroga sulla possibilità — o sull’impossibilità — di conservare uno spazio comunicativo capace di ospitare il conflitto in forma non distruttiva, e sulla funzione che la parola può ancora avere nel costruire ponti tra soggetti, identità e visioni del mondo eterogenee.
A partire da una ricognizione teorica che coinvolge autori classici e contemporanei della sociologia, il contributo intende mettere in luce come la parola abbia progressivamente perso le sue qualità generative e negoziali. In luogo di un agire comunicativo fondato sul riconoscimento reciproco e sull’intesa, prevalgono oggi forme comunicative frammentate, iper-semplificate o strategicamente orientate alla manipolazione.
Parallelamente, attraverso l’analisi di pratiche discorsive in ambito politico, mediale e sociale, si cercherà di evidenziare come questa crisi linguistica sia al tempo stesso sintomo e con-causa dell’erosione del contratto sociale.
La parola svuotata del suo valore simbolico smette di essere vincolo, promessa, responsabilità; e senza parola vincolante, la negoziazione stessa diventa impossibile.
Infine, il paper propone alcune prospettive sociologiche ed etico-culturali per il recupero di un linguaggio capace di sostenere la pluralità e la costruzione del senso, nella convinzione che una società che non riesce più a negoziare, è una società esposta alla paralisi o alla violenza.
Nota metodologica
Questo studio adotta una metodologia qualitativa e interpretativa radicata nella teoria sociologica. Nello specifico la ricerca si basa su tre livelli di analisi (Karlsen, 2021):
- desk analysis. Le principali teorie sociologiche riguardanti il linguaggio, la comunicazione e la sfera pubblica sono esaminate criticamente per costruire una lente concettuale attraverso la quale interpretare il ruolo contemporaneo del linguaggio nella vita sociale;
- approccio comparativo orientato ai casi studio. Il paper include due casi studio – i recenti conflitti tra Russia e Ucraina e tra Israele e Gaza – scelti per la loro elevata rilevanza geopolitica e per la centralità simbolica del linguaggio nel plasmare le percezioni nazionali e internazionali. Ogni caso viene esplorato attraverso le dichiarazioni ufficiali, le narrazioni diplomatiche e i media pubblici, concentrandosi sul modo in cui il linguaggio contribuisce all’escalation o al blocco dei negoziati.
Le radici teoriche della crisi nella comunicazione digitale
Il valore della parola nella società contemporanea non può essere compreso senza un richiamo alle principali tradizioni teoriche che hanno affrontato il tema della comunicazione come fondamento della vita sociale.
Tre le prospettive, nello specifico, risultano essenziali per costruire un’analisi critica della crisi del linguaggio pubblico e della sua funzione negoziale: la teoria dell’agire comunicativo di Jürgen Habermas (1981), l’approccio sistemico di Niklas Luhmann (1968), e l’idea di “parola generativa” elaborata più recentemente da Bauman (2000) e integrata dagli studiosi e dalle studiose italiani/e Mauro Magatti, Chiara Giaccardi (2019; 2024) e Anna Lisa Tota (2020).
Procedendo con ordine, nel pensiero di Jürgen Habermas, la parola è considerata il luogo originario della costruzione della razionalità intersoggettiva.
Nella sua Theorie des kommunikativen Handelns (1981), Habermas contrappone l’agire comunicativo all’agire strumentale: nel primo, i soggetti mirano all’intesa attraverso argomentazioni reciprocamente valide; nel secondo, invece, la comunicazione è ridotta a strumento di manipolazione o controllo.
La crisi della parola, secondo Habermas, coincide con la “colonizzazione del mondo vitale” da parte dei sistemi economico-amministrativi, che svuotano il linguaggio della sua funzione dialogica e orientata alla verità. In questo senso, il venir meno della negoziazione può essere letto come effetto della crescente predominanza di logiche strumentali nei contesti pubblici.
Niklas Luhmann, invece, elabora, dal canto suo, un paradigma alternativo in cui la comunicazione non è intesa come trasmissione di significati condivisi, ma come operazione di selezione tra informazioni, messaggi e comprensioni.
La comunicazione è autopoietica, cioè si produce e riproduce in funzione del sistema stesso. Ciò implica che la parola, nei diversi sottosistemi (politica, diritto, economia), non assume valore universale ma funzionale.
Da questa prospettiva, la crisi della parola non si configura tanto come una “degenerazione”, quanto una conseguenza strutturale della differenziazione funzionale della società moderna. Ogni sistema parla una “lingua” propria, rendendo sempre più ardua la negoziazione intersistemica.
Parola generativa versus comunicazione digitale performativa
Più noto, rispetto a quanto accennato sopra, è il pensiero sociologico di Zygmunt Bauman, in particolare la sua tesi principale ben espressa all’interno del suo scritto Modernità liquida (2000), dove lo studioso polacco descrive una società in cui i legami sociali e i codici simbolici diventano instabili, fluttuanti, precari.
Il linguaggio, in questo contesto, perde la sua capacità di ancoraggio: le parole non rimandano più a significati condivisi e duraturi, ma si moltiplicano in flussi continui, effimeri, spesso autoreferenziali.
La comunicazione pubblica diventa così un’arena frammentata, in cui il confronto è sostituito dallo scontro, e il tempo breve dei like o dei meme soppianta la lunga durata del dialogo e della deliberazione.
Dentro questo scenario, la negoziazione appare sempre più come un’eccezione ritualizzata piuttosto che come una pratica ordinaria.
In “opposizione” a questa deriva, i due sociologi italiani, Mauro Magatti e Chiara Giaccardi, hanno recentemente proposto il concetto di parola generativa (2014, 2020), intesa come atto capace di aprire futuro, creare relazione e promuovere fiducia.
In un tempo segnato da crisi multiple e da una crescente disaffezione nei confronti della parola pubblica, gli autori individuano nella riscoperta di una parola “abitata”, cioè responsabile e incarnata, una delle poche vie possibili per riattivare dinamiche sociali inclusive e costruttive. La parola generativa non è neutra né tecnica, ma relazionale e simbolica, radicata in un’etica del dono e della cura. Essa si oppone alla parola strategica e alla parola cinica, oggi dominanti nei contesti politici e comunicativi.
Rimanendo dentro il campo scientifico nazionale, la sociologa Anna Lisa Tota, infine, prendendo a riferimento soprattutto il suo recente lavoro “Ecologia della parola” (2020), invita a riconoscere i segni della disfunzione nel modo di conversare di ognuno. È questo un modo peculiare di agire politicamente nella società, nella convinzione che promuovere un miglioramento della qualità della conversazione dei singoli contribuisca a migliorare la qualità della vita di tutti.
Ma cosa significa conversare meglio?
La studiosa tiene a precisare come non si tratta nell’odierno contesto sociale di applicare delle “regolette” in maniera meccanica, piuttosto di convocare i saperi alti, articolati, multidisciplinari come intrinsecamente non possono che essere gli studi di comunicazione.
E questo a cominciare dalla critica della concezione dell’io e della coscienza come istanza ontologicamente fondata e posizionata in un preciso orizzonte spazio-temporale in quanto è possibile sostituire l’idea che l’identità stessa sia un effetto di senso, una configurazione discorsiva frutto delle tante conversazioni in cui siamo imbrigliati.
È, infatti, nella conversazione che si gioca la partita dell’identità, che uno appare vittima o carnefice, vincitore o vinto. In questo modo la parola diviene quel luogo (di senso) da presidiare per non lasciarsi risucchiare dal ruolo e dall’immagine che gli altri vorrebbero affibbiarci.
Tutte queste prospettive convergono su un punto cruciale: la comunicazione come elemento fondamentale della negoziazione non è solo un fatto procedurale, ma una forma simbolica che implica la fiducia nella parola come vincolo.
Quando il linguaggio perde la sua affidabilità, la negoziazione diventa impossibile, perché non si dà più un terreno comune su cui costruire compromessi, riconoscimenti reciproci o narrazioni condivise. La parola smette di essere promessa e si riduce a prestazione; cessa di costruire ponti e diventa barriera. Il quadro teorico qui delineato offre dunque le coordinate per comprendere come la crisi della parola si traduca in una paralisi del legame sociale e della capacità collettiva di decidere e agire insieme.
La politica nell’era della comunicazione digitale
Se il breve quadro teorico ha cercato di mostrata come la parola sia costitutiva del legame sociale e della capacità negoziale, l’osservazione empirica dei linguaggi pubblici contemporanei mette in evidenza una trasformazione strutturale del modo in cui il linguaggio è oggi usato, percepito e agito. In questa sezione si esploreranno alcune dinamiche discorsive — prevalentemente in ambito politico, mediale e digitale — che contribuiscono al progressivo svuotamento del valore negoziale della parola.
Uno dei luoghi più visibili della crisi della parola è la scena politica.
Il dibattito democratico, che presuppone la possibilità di compromesso e la ricerca di una verità intersoggettiva, viene sostituito da una comunicazione politica basata sulla semplificazione estrema, sullo slogan e sulla retorica dell’antagonismo.
I linguaggi populisti — come mostrano alcune ricerche (Mudde, 2004; Laclau, 2005) — tendono a ridefinire il linguaggio pubblico in chiave moralistica e binaria: il “popolo puro” contro le “élite corrotte”. Seguendo questa logica, l’avversario non è più un interlocutore con cui dialogare, ma un nemico da delegittimare.
Questo rende la negoziazione non solo impraticabile, ma addirittura indesiderabile, poiché vista come compromesso con il “male”.
Ciò diviene oggi, particolarmente visibile nei social media, lungi dal rappresentare semplici canali di espressione democratica, che hanno prodotto un ecosistema comunicativo profondamente alterato rispetto ai modelli tradizionali di discussione pubblica.
Algoritmi ottimizzati per il coinvolgimento emotivo favoriscono contenuti polarizzanti, mentre le logiche di visibilità premiano l’urgenza, la reazione e l’identificazione tribale. L’interazione digitale assume sempre più la forma di una performance identitaria, in cui la parola serve a rafforzare la propria appartenenza piuttosto che a cercare un terreno comune.
La perdita di contesto, la velocità e la brevità dei messaggi rendono difficile la costruzione di un discorso articolato e negoziale. Il linguaggio pubblico si riduce così a una sequenza di posizionamenti “incivili” che escludono l’ascolto, rendendo la negoziazione una pratica inattuale (Bentivegna, Boccia Artieri, 2021; Couldry, 2023).
Parallelamente alla spettacolarizzazione della parola nei media, si osserva un processo opposto ma altrettanto critico: la tecnicizzazione del linguaggio nei sistemi giuridici, economici e burocratici. Il linguaggio formale e specialistico, pur necessario in determinati ambiti, può produrre esclusione simbolica quando diventa impermeabile al cittadino comune.
Come sottolinea Pierre Bourdieu (1991), il “potere simbolico” del linguaggio istituzionale risiede nella sua capacità di legittimare o delegittimare l’accesso al discorso.
In questo senso, anche l’eccesso di codificazione linguistica può impedire la negoziazione democratica, poiché sottrae al confronto pubblico le decisioni rilevanti, relegandole a spazi di competenza tecnica inaccessibili.
Covid-19: paradigma della comunicazione digitale in crisi
Se prendiamo, come esempio, la gestione della recente crisi pandemica di Covid19, quest’ultima ha rappresentato un momento paradigmatico della crisi della parola.
Se da un lato si è fatto un massiccio ricorso alla comunicazione pubblica, dall’altro la parola istituzionale ha spesso faticato a risultare credibile e inclusiva. In molti casi, il linguaggio adottato è stato autoritario, unidirezionale, tecnocratico, generando reazioni di sfiducia, negazione o radicalizzazione (Buoncompagni, 2023).
La polarizzazione tra “negazionisti” e “scientisti”, tra chi rifiutava qualsiasi restrizione e chi invocava misure drastiche, ha messo in crisi lo spazio della mediazione. Il discorso pubblico ha perso la sua funzione integrativa e deliberativa, mostrando in pieno l’impossibilità della parola di farsi luogo di ri-composizione del conflitto verbale, culturale e scientifico (Kerr, et al., 2021).
La progressiva perdita di valore della parola come strumento di mediazione e costruzione del senso condiviso non produce solo effetti comunicativi.
Conseguenze sociali del fallimento della comunicazione digitale
Essa incide profondamente sulla struttura del legame sociale, sulla tenuta democratica e sulla capacità collettiva di gestire le tensioni che attraversano la società complessa.
Tre principali conseguenze sociali ormai visibili: la crisi della fiducia, la paralisi della capacità decisionale e l’emergere di forme latenti o manifeste di violenza.
Come ha ampiamente mostrato Niklas Luhmann, la fiducia costituisce una condizione strutturale della società moderna, in quanto riduce la complessità e permette agli attori di agire senza conoscere tutti i dettagli del contesto.
La parola pubblica, in questo contesto, funziona come veicolo fiduciario: garantisce continuità simbolica tra promesse, azioni e aspettative. Quando la parola perde credibilità — perché smentita dai fatti, abusata in chiave strategica o frammentata da retoriche contrapposte — si produce una rottura nel circuito della fiducia sociale. La delegittimazione non riguarda solo chi parla, ma si estende ai sistemi politici, scientifici e mediatici, minando le fondamenta stesse della cooperazione sociale.
Laddove la parola non riesce più a generare consenso né a regolare il conflitto, si assiste a una crescente paralisi della capacità collettiva di decidere. Il dissenso, invece di essere elaborato attraverso forme di negoziazione democratica, viene rimosso, ignorato o radicalizzato. In assenza di un linguaggio comune, anche il dissenso legittimo si trasforma in ostilità, alimentando un senso diffuso di impotenza o di passività politica.
La società, priva di strumenti condivisi per gestire le differenze, tende allora a frammentarsi in nicchie comunicative impermeabili, ciascuna delle quali rivendica la propria verità senza cercare un terreno di confronto. Ne risulta un “blocco simbolico” che impedisce l’elaborazione di visioni collettive e l’azione concertata (Turkle, 2015; Tota, 2020).
Quando il linguaggio fallisce nel suo compito regolativo e negoziale, la violenza — simbolica o reale — diventa l’unica modalità di espressione del conflitto.
Come affermava Hannah Arendt (1969), la violenza si manifesta tipicamente quando la parola non è più efficace: non è la prosecuzione del dialogo con altri mezzi, ma il segno del suo fallimento. Ciò vale sia per le dinamiche sociali, come le proteste non mediate da rappresentanza o discorso, sia per la dimensione individuale, in cui la frustrazione comunicativa può sfociare in forme di aggressività verbale o comportamentale.
La perdita della negoziazione, dunque, non è solo un problema teorico o istituzionale: è un rischio concreto di instabilità e frattura sociale.
Infine, la crisi della parola può produrre una forma ancora più pervasiva di disfunzione sociale: il mutismo pubblico, ovvero la rinuncia a prendere parte al discorso comune.
Quando i cittadini percepiscono che la parola non ha più efficacia, che non produce cambiamento né riconoscimento, si ritirano dallo spazio pubblico, contribuendo al fenomeno della disaffezione democratica.
Il silenzio, in questo contesto, non è forma di ascolto ma segno di sfiducia, di rassegnazione.
La parola senza valore non è più atto, ma rumore; e in una società del rumore permanente, il silenzio non è apertura, ma chiusura (Tota, 2020).
La guerra russo-ucraina: comunicazione digitale e conflitto
Il recente conflitto russo-ucraino, scoppiato con l’invasione russa del febbraio 2022, rappresenta emblematicamente la degenerazione di una lunga crisi comunicativa e diplomatica in una guerra totale. Esso può essere letto — alla luce delle analisi sviluppate in questo contributo — come un caso paradigmatico di esaurimento del potere negoziale della parola nei contesti internazionali contemporanei.
Le tensioni tra Russia e Occidente, e tra Russia e Ucraina, non sono nate nel 2022, ma affondano le radici in una traiettoria di incomprensioni, rivalità narrative e fratture discorsive che risalgono almeno agli anni successivi alla fine della Guerra fredda. A partire dall’allargamento della NATO a Est e dalla rivoluzione arancione del 2004 in Ucraina, fino agli eventi di Euromaidan (2013–2014)[1] e all’annessione della Crimea da parte della Russia, il terreno simbolico del dialogo è andato progressivamente erodendosi.
Ogni evento è stato interpretato all’interno di cornici discorsive inconciliabili, rendendo sempre più difficile una negoziazione basata su significati condivisi.
Con l’inizio delle ostilità, il conflitto ha prodotto un’escalation linguistica parallela a quella militare. La parola ha cessato di essere strumento di diplomazia per diventare arma retorica.
I discorsi ufficiali, da entrambe le parti, hanno assunto toni assolutistici, moralistici e spesso apocalittici: si è parlato di “denazificazione”, “resistenza contro il male”, “lotta per la civiltà” o “fine dell’impero russo” (Lorusso, Santoro, 2025)
Questi frame non favoriscono il compromesso, ma cristallizzano posizioni identitarie. Come evidenzia il paradigma habermasiano, quando la parola non mira più all’intesa ma alla vittoria simbolica, il dialogo diventa impossibile (Lombardi, 2023).
Il conflitto ha visto anche l’apertura di una guerra informativa globale, dove il linguaggio mediale è stato manipolato, piegato, militarizzato.
Le fake news, la censura, la propaganda, la disinformazione e le campagne sui social hanno contribuito a erodere la fiducia nella parola pubblica. In questo senso, l’ecosistema digitale ha amplificato la frattura: la realtà stessa è stata narrata in forme radicalmente divergenti, creando universi simbolici paralleli. Ancora una volta, la parola ha cessato di unire per diventare fattore di disgregazione.
Forse l’aspetto più inquietante è che, in mancanza di parole capaci di riaprire il confronto, la guerra stessa diventa linguaggio, forma estrema di comunicazione.
Utile richiamare in questa sede il pensiero di Michel Foucault, secondo il quale la guerra non è solo la prosecuzione della politica con altri mezzi, piuttosto l’unico linguaggio rimasto quando tutte le altre forme si sono esaurite.
Ecco che la diplomazia, in questo caso, appare come retorica vuota o rituale, incapace di invertire la logica binaria del conflitto.
Applicando, inoltre, il concetto di “parola generativa” di Magatti e Giaccardi, possiamo chiederci quale tipo di linguaggio — oggi assente — potrebbe riaprire lo spazio della negoziazione. Serve una parola che non sia né neutra né bellicosa, ma relazionale, simbolica, responsabile: una parola che riconosca la sofferenza, la complessità, la pluralità delle memorie storiche.
In assenza di questa parola, la pace resta un discorso astratto, incapace di essere pronunciato.
Israele-Gaza: comunicazione digitale e narrazioni polarizzate
Il conflitto tra Israele e Gaza, riaccesosi con estrema violenza a partire dal 7 ottobre 2023, rappresenta uno degli esempi più drammatici dell’impossibilità contemporanea della parola come mediazione. In un contesto segnato da decenni di violenza, occupazione, attentati e repressione, il linguaggio pubblico internazionale è apparso impotente, polarizzato, incapace di costruire uno spazio discorsivo che non sia immediatamente schierato.
Questo caso evidenzia con chiarezza le conseguenze della perdita di un vocabolario comune, in cui la parola non solo non genera comprensione, ma acuisce lo scontro (Buoncompagni, 2024).
Il conflitto israelo-palestinese è anche, e forse soprattutto, un conflitto di narrazioni storiche, dove ogni parola (terra, resistenza, terrorismo, sicurezza, genocidio) è caricata di significati incompatibili. Le identità collettive si definiscono in opposizione, e ogni tentativo di neutralità linguistica viene percepito come tradimento.
La parola, anziché creare ponti, diventa marcatore di campo. Come osserva Edward Said, in Culture and Imperialism (1993), in contesti coloniali e post-coloniali la lingua è parte della lotta per la definizione della realtà.
Il conflitto si è riflesso immediatamente nello spazio pubblico globale, producendo una polarizzazione quasi speculare a quella già osservata nel caso russo-ucraino. L’universo discorsivo occidentale si è frammentato in schieramenti contrapposti, in cui la possibilità della parola intermedia è stata delegittimata.
Chi chiede il cessate il fuoco è accusato di antisemitismo, mentre chi denuncia Hamas è accusato di negare la sofferenza palestinese. La discussione pubblica perde così ogni dimensione deliberativa, diventando uno scontro di griglie morali incompatibili.
Anche le grandi istituzioni — ONU, UE, Vaticano — hanno mostrato la propria impotenza discorsiva. I loro appelli, spesso formulati in linguaggi burocratici o eufemistici, sono stati recepiti come vuoti o ipocriti da entrambe le parti.
Ciò dimostra come, in assenza di una fiducia preliminare, la parola istituzionale non venga riconosciuta come significativa, e non riesca più a produrre effetti di realtà. Il linguaggio della diplomazia appare così stanco, rituale, inadeguato alla radicalità del dolore e alla profondità delle fratture simboliche.
Uno degli effetti più profondi della crisi della parola in questo conflitto è l’impossibilità del lutto pubblico comune. Ogni morte viene raccontata da una parte sola, ogni sofferenza è usata per alimentare la propria ragione.
La parola non serve tanto a creare una “situazione pubblica di dolore e tristezza” (Rizzuto, 2016), ma a rafforzare identità divise.
In molti contesti, si è assistito a una censura esplicita o implicita: parole come “genocidio”, “diritto alla resistenza”, “occupazione” o “diritto alla sicurezza” sono diventate tabù, o utilizzabili solo in modo partigiano. La parola che potrebbe aprire lo spazio dell’empatia è quindi sistematicamente rimossa o manipolata.
Riprendendo anche in questo caso l’idea di parola generativa, sopra citata, è necessario interrogarsi su quale linguaggio possa oggi costituire un primo passo per la fuoriuscita dal conflitto simbolico. Il nodo non è solo politico, ma semiotico e antropologico: finché non sarà possibile riconoscere la validità parziale del discorso dell’altro, e accettare la co-esistenza di memorie e ferite, ogni parola continuerà a essere strumento di esclusione.
In questo senso, la pace non può che passare per una pedagogia del riconoscimento: un processo lungo, fragile, ma essenziale, in cui la parola torna a essere possibilità e non solo arma.
Con questo secondo caso si rafforza l’idea centrale del paper: senza una parola che sappia negoziare il senso, il conflitto diventa strutturale e la società si disgrega.
Verso una nuova ecologia della comunicazione digitale
Questa riflessione chiude l’analisi delle dinamiche in atto e prepara la conclusione del paper, che potrà concentrarsi su prospettive e piste per un possibile ripensamento sociologico e culturale della parola come bene comune.
Nel corso di questo contributo si è cercato di mostrare come la parola, intesa non solo come mezzo di comunicazione ma come infrastruttura simbolica del legame sociale, sia oggi attraversata da una crisi profonda. Tale crisi, lungi dall’essere un semplice problema linguistico, investe il cuore stesso della convivenza democratica: la possibilità di costruire significati condivisi, di gestire pacificamente il dissenso, di deliberare collettivamente sul futuro. In un contesto segnato dalla polarizzazione discorsiva, dalla spettacolarizzazione mediatica e dalla tecnicizzazione istituzionale, la negoziazione — intesa come pratica dialogica e relazionale — sembra giunta a un punto di esaurimento.
Abbiamo evidenziato, attraverso un’analisi teorica e sociologica, come il venir meno della parola generativa e responsabile porti con sé tre esiti critici: la frattura del circuito fiduciario, la paralisi della progettualità collettiva e il rischio di esplosioni conflittuali non elaborate simbolicamente.
All’interno di tale scenario, si fa urgente una riflessione sulla possibilità di recuperare il valore della parola come bene comune, capace non solo di informare, ma di trasformare e tenere insieme.
Un primo passaggio è di natura educativa e riguarda la necessità di formare cittadini alla responsabilità discorsiva.
La parola non è un atto neutro: essa costruisce o distrugge legami, apre o chiude mondi.
Insegnare la grammatica del rispetto, dell’ascolto, della complessità — in famiglia, nella scuola, nei media — significa gettare le basi per una nuova etica del linguaggio.
Un secondo livello è quello istituzionale.
Occorre ripensare gli spazi e le forme del dibattito pubblico, sottraendoli tanto alla tecnocrazia quanto alla retorica identitaria.
La qualità del discorso democratico deve tornare ad essere criterio di valutazione dell’azione politica e mediatica.
Questo implica investimenti nella “cura del linguaggio” nella sua comprensibilità, accessibilità, veridicità.
Infine, a livello simbolico-culturale, è necessario riscoprire il potere generativo della parola: la sua capacità di “fare mondo”, di aprire possibilità, di generare fiducia.
In un’epoca di sfiducia diffusa, la parola può ancora essere atto fondativo, se abitata da responsabilità, da alterità, da visione.
Recuperare la parola non significa tornare indietro, ma avanzare verso una nuova forma di modernità: una modernità dialogica, che sappia riconoscere nella differenza non una minaccia, piuttosto un’opportunità per la costruzione condivisa del senso.
Dentro tale prospettiva, la parola non è solo mezzo, ma fine; non solo strumento, ma un reale fondamento.
Una società che vuole restare democratica deve tornare ad avere fiducia nella parola e a prendersene cura.
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[1] Si tratta di un neologismo che combina “Euro” (Europa) e “Maidan” (piazza Indipendenza di Kiev).
Euromaidan fu un periodo di intense proteste politiche in Ucraina, iniziate il 21 novembre 2013 e culminate nella rivoluzione del 2014, nota anche come rivoluzione della dignità. La manifestazione iniziò in piazza Majdan Nezaležnosti a Kiev, in risposta alla decisione del presidente Viktor Janukovyč di sospendere l’accordo di associazione con l’Unione Europea.










