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Bulimia social: quando l’iperconnessione diventa malattia



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L’iperconnessione genera una forma di bulimia digitale dove esistere significa essere visibili online. Gli algoritmi amplificano questo bisogno compulsivo di attenzione, trasformando gli utenti in produttori instancabili di contenuti per ottenere gratificazione virtuale

Pubblicato il 18 set 2025

Marino D'Amore

Docente di Sociologia generale presso Università degli Studi Niccolò Cusano



AI lavoro giovani social e licenziamenti bulimia social

L’esplosione dei social network ha modificato radicalmente la socializzazione, le dinamiche relazionali e la percezione identitaria. L’individuo always connected vive in uno spazio sociocomunicativo coinvolgente e pervasivo, in cui l’interazione è continua e il silenzio, l’assenza, la disconnessione, sono percepiti come vuoti da colmare, come un pericolo incombente. In tale scenario prende forma una nuova patologia sociale e simbolica: la bulimia social.

Con questo termine si intende un comportamento ossessivo-compulsivo, caratterizzato da una feroce sovraesposizione digitale, da consumo di contenuti e da relazioni virtuali, comportamenti accompagnati dal bisogno di gratificazione che si attualizza attraverso like, visualizzazioni e commenti. Insomma, una vera e propria modalità di esistenza e autorappresentazione, che si fonda sulla performatività del sé, sull’iperconnessione e la dipendenza (Bauman, 2003).

Questa sindrome sociale rappresenta una delle esteriorizzazioni più evidenti delle dinamiche postmoderne: l’individualismo narcisistico, la spettacolarizzazione e l’erosione irreversibile del confine tra pubblico e privato.

La natura del fenomeno bulimia social

La bulimia social si caratterizza per un’ iperproduzione e consumo, direttamente propozionale, di contenuti digitali, dovuta a una necessità costante di attenzione e di presenza nell’arena pubblica virtuale. Il concetto riprende analogicamente quello della bulimia alimentare, dove a fasi di ingurgitamento compulsivo seguono sensi di colpa, ansia e il bisogno di purificazione.

Nel contesto digitale, l’overposting, l’implementazione compulsiva di stories, reels, aggiornamenti e selfie, non rappresentano soltanto pratiche comunicative, ma espressioni sintomatologiche di un disagio profondo. L’utente non comunica per condividere, ma per esistere. La sua identità si fonda sulla visibilità e sull’interazione continua: “più mi vedono, più sono” (Marwick, 2013).

Le piattaforme social diventano il luogo in cui si consuma una relazione tra sé e gli altri, incentrata sulla prestazione e sull’autorappresentazione effimera. Il profilo personale diventa il palco dell’identità e la relazione con gli altri è mediata dal bisogno di essere riconosciuti, approvati, cliccati.

Il pensiero di Papa Leone XIV sulla bulimia digitale

In un recente discorso in Piazza San Pietro, Papa Leone XIV ha affrontato in modo diretto e coraggioso il tema della “bulimia social”, definendola una malattia dell’anima che svuota il cuore mentre promette di riempirlo di consensi. Il Pontefice ha sottolineato come il bisogno incessante di essere presenti, di mostrarsi continuamente, non è un esercizio di libertà ma una nuova forma di schiavitù che logora la verità del sé e l’autenticità dei legami.

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Papa Leone XIV ha spesso richiamato l’urgenza di una ecologia dell’interiorità, capace di resistere all’overload comunicativo e all’ossessione per la visibilità. Il Pontefice ha parlato della necessità di riscoprire il valore del silenzio, della discrezione, che non cerca i riflettori ma costruisce relazioni vere e profonde. Tale riflessione si inserisce in una linea di pensiero già sviluppata da Papa Francesco, il quale aveva più volte criticato la cultura dell’apparenza superficiale promossa dai media digitali (Francesco, 2020). Tuttavia, Papa Leone XIV porta questa critica a un livello ancora più strutturale, parlando apertamente di anoressia relazionale e bulimia dell’io, per descrivere il paradosso per cui l’iperesposizione del sé in rete coincide spesso con un vuoto identitario e affettivo.

Il contributo del Papa non è solo religioso o morale, ma anche profondamente sociologico, poiché evidenzia le dinamiche di potere, alienazione e consumo che regolano la vita online. In tal senso, il suo intervento rappresenta un forte appello a ripensare l’etica della comunicazione digitale, mettendo al centro la persona nella sua interezza e non nella duplice veste di prodotto/contenuto.

Cause socioculturali e effetti sulle relazioni sociali della bulimia social

L’origine di questo comportamento affonda le radici in vari fattori culturali e strutturali. Innanzitutto, la società della performance e del consumo (Han, 2012) ha creato un individuo che deve costantemente brandizzare sé stesso. Il soggetto contemporaneo è imprenditore della propria immagine e il social network è il luogo privilegiato in cui si concretizza questo lavoro simbolico.

In secondo luogo, la perdita di riferimenti comunitari stabili e delle old agency, come famiglia, scuola, gruppo religioso, ha aumentato la necessità di appartenere a nuove comunità simboliche, spesso fondate sulla condivisione digitale. Il senso di appartenenza si costruisce attraverso la partecipazione online.

Infine, la cultura dello spettacolo (Debord, 1967) e la logica della mediatizzazione della vita quotidiana (Couldry, 2012) contribuiscono a creare un contesto in cui non esistere nel flusso mediale significa, in un certo senso, non esistere affatto. La bulimia social è figlia diretta di questa condizione.

I principali effetti della bulimia social si registrano a livello psicologico e relazionale. Dal punto di vista psichico, si osservano sintomi legati all’ansia da prestazione, all’insicurezza, alla dipendenza dalla visibilità: l’assenza di notifiche può generare frustrazione, senso di fallimento e stati depressivi (Twenge, 2017). Le relazioni vengono spesso ridotte a interazioni superficiali, a legami deboli (Granovetter, 1973), che non riescono a offrire un vero supporto emotivo. Sul piano sociale, la bulimia digitalizza i rapporti, riducendo la complessità delle relazioni a metriche (cuori, like, reaction). L’alterità non si presenta più attraverso l’unicità della persona ma come pubblico standardizzato e invisibile. In questo scenario, si parla sempre più spesso di “solitudine connessa”, una forma nuova di isolamento relazionale (Turkle, 2011).

Meccanismi del narcisismo digitale e logiche algoritmiche

Uno dei motori principali della bulimia social è il narcisismo digitale. Le piattaforme incoraggiano la costruzione di un’immagine idealizzata di sé, costantemente curata, editata, filtrata. Il concetto di “panottico orizzontale” (Foucault, 1975) diventa fortemente attuale: ciascuno osserva e viene osservato, in un circuito infinito di visibilità reciproca. L’identità non è più un dato, una caratteristica, ma una narrazione continua. Chi non aggiorna il proprio profilo rischia di scomparire, come se l’identità fosse in stand by.

Il narcisismo digitale non è il risultato di uno stato patologico in sé, ma diventa tale quando è compulsivo, dipendente e insaziabile. Il soggetto si trasforma in una macchina produttiva di contenuti, soggetto a cicli alternati di euforia e delusione, e vittima del giudizio costante degli altri (Lasch, 2018). Non si può comprendere la bulimia social senza analizzare il funzionamento tecnico delle piattaforme. Gli algoritmi sono progettati per massimizzare il tempo di permanenza, la produzione e il consumo di contenuti. Il meccanismo di “reward” intermittente (Zuboff, 2019) produce un effetto simile a quello del gioco d’azzardo: non si sa mai quale contenuto avrà successo, ma si è sempre incentivati a produrne uno nuovo per raggiungere quello stesso successo.

La logica dell’engagement, che premia la visibilità a scapito della profondità, alimenta l’ansia performativa. Chi si ferma, perde; chi non si espone, si eclissa. Le piattaforme non sono neutrali, ma agiscono come amplificatori piramidali di bisogni e dinamiche di tipo compulsivo (Pariser, 2012).

L’impatto della bulimia social sui nativi digitali

I nativi digitali sono la macrocategoria particolarmente esposta a questa dinamica, per ragioni evolutive e culturali. Durante l’adolescenza, il bisogno di appartenenza e di identità è massimo e i social network offrono un palcoscenico in cui sperimentare il proprio ruolo, ma anche un campo di prova, elargitore di giudizi e confronti. Il fenomeno del compare and despair è amplificato dalla continua esposizione a contenuti idealizzati e appositamente selezionati da dinamiche algoritmiche sempre più invasive. L’identità si costruisce sulla base del feedback e il valore personale è spesso misurato sui numeri e le statistiche generate da quest’ultimo. Questo porta a un’instabilità emotiva, alla paura dell’esclusione (FOMO) e, nei casi più gravi, a disturbi del comportamento, isolamento e depressione (Keles et al., 2019), sintomi depressivi, ansia sociale, disturbi del sonno (Andreassen, 2015). Il bisogno incessante di connessione compromette la capacità di concentrazione e l’equilibrio emotivo e il sovraccarico informativo-relazionale genera una forma di stress cognitivo che si traduce in alienazione (Carr, 2011).

Prospettive di soluzione e cambiamento culturale

La bulimia social rappresenta uno dei fenomeni più rilevanti e al contempo più sottovalutati del nostro tempo, poiché coinvolge la soggettività do ogni utente. Non si tratta solo di un disturbo comportamentale individuale, ma di un riflesso sistemico di una società interconnessa, iperperformativa e continuamente affamata di riconoscimento. In questo scenario, la distinzione tra benessere digitale e disagio psicosociale si fa sempre più labile. Il corpo sociale sembra aver interiorizzato una logica compulsiva che si regge su due assi fondamentali: la necessità di visibilità continua e la misurazione del valore personale attraverso parametri esterni, spesso riduttivi e meramente quantitativi (come follower, like, visualizzazioni). La conseguenza è la trasformazione dell’individuo in brand, impegnato in una narrazione permanente di sé che riduce la complessità dell’identità alla sua rappresentazione socialmente desiderabile.

A livello sociologico, possiamo parlare di una colonizzazione della sfera dell’intimità da parte dell’economia dell’attenzione (Citton, 2014), in cui anche le emozioni diventano un valore misurabile. La vita privata diventa contenuto, la vulnerabilità viene esibita come strategia di engagement e la verità rischia di diventare un simulacro calcolato. In questa logica, anche il dolore viene performato per ottenere empatia virtuale e costituisce il paradosso di una società che, pur desiderando autenticità, la sostituisce con una “simulazione affettiva”, come ha osservato Sherry Turkle (2015).

La soluzione al problema non può che essere multidisciplinare e multifattoriale:

  • educativa: con l’inserimento di programmi scolastici di percorsi alfabetizzazione digitale e affettiva che aiutino i giovani a distinguere tra identità reale e rappresentazione online, a sviluppare il pensiero critico e a costruire un rapporto sano con i media.
  • tecnologica: con un maggiore impegno da parte delle piattaforme social nell’introdurre strumenti di moderazione del tempo d’uso, notifiche intelligenti, indicatori di benessere digitale, e modelli algoritmici meno aggressivi.
  • culturale: con la promozione di una nuova idea di successo, svincolata dalla popolarità digitale, e con il riconoscimento del valore del tempo, della disconnessione, dell’assenza. La disconnessione non deve essere interpretata come isolamento, ma come resistenza attiva a una società che tende a consumare tutto, anche la persona.

È necessario riconoscere che i social network non sono solo strumenti, ma ambienti di vita, e come tali influenzano strutturalmente la salute e la qualità delle relazioni. Solo con una presa di coscienza collettiva sarà possibile contenere l’“abbuffata identitaria” digitale che caratterizza la nostra epoca.

Sul piano educativo, occorre promuovere lo sviluppo di senso critico, di capacità di gestione del proprio tempo esistenziale e autoconsapevolezza. Anche le piattaforme, che devono essere chiamate a un maggiore senso di responsabilità attraverso l’implementazione di meccanismi di monitoraggio e promozione di contenuti significativi, che possono contribuire a ridurre l’effetto compulsivo.

Infine, come spiegato, è auspicabile un cambio culturale che valorizzi la disconnessione, il silenzio, la profondità relazionale. Ritrovare il valore dell’invisibilità può essere una forma nuova di libertà coadiuvata dalla possibilità di assentarsi e di non condividere nulla anche se solo per un breve periodo. La libertà non sta solo nel pubblicare tutto, ma anche nel poter scegliere cosa tenere per sé: in una società dove tutto è comunicazione, imparare a sottrarsi alla visibilità può diventare il gesto più autentico e radicale da attuare.

Bibliografia

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  • Turkle, S. (2015). Reclaiming conversation: the power of talk in a digital age. New York: Penguin Books.
  • Twenge, J. M. (2017). iGen: why today’s super-connected kids are growing up less rebellious, more tolerant, less happy—and completely unprepared for adulthood. New York: Atria Books.
  • Zuboff, S. (2019). The age of surveillance capitalism: The fight for a human future at the new frontier of power. New York: PublicAffairs.

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