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Slow marketing: perché la Gen Z rifiuta la comunicazione invasiva



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La Gen Z, cresciuta nell’era dell’iperconnessione, spinge oggi verso modelli comunicativi più equilibrati. Lo slow marketing emerge come risposta alla stanchezza digitale e ridisegna strategie aziendali, puntando su presenza selettiva e contenuti duraturi

Pubblicato il 18 set 2025

Alessio Pecoraro

coordinatore PAsocial Emilia-Romagna, marketing & communication manager



urbanistica di genere (1) Slow marketing

In Europa è in crescita la tendenza dei ritiri “offline”, cioè, creare un’oasi di calma e sollievo dalla frenesia digitale di una vita vissuta, always on/sempre connessi, attraverso il vetro di uno smartphone. Nascono così gli offline hangout dove disconnettersi per qualche ora prendendosi del tempo per un’attività internet free.

La spinta alla disconnessione digitale

Tra i più interessati non solo i nostalgici degli anni Novanta, ma anche – e soprattutto – i più giovani, la Gen Z, quelli che avrebbero dovuto incarnare la connessione perpetua. E invece no. Sempre più spesso dicono basta. Non vogliono essere sempre raggiungibili, sempre notificati, sempre attenti. Non vogliono vivere “online” come condizione costante.

Un’indagine del British Standard Institution, l’ente nazionale di certificazione britannica, rivela che quasi la metà (46%) dei giovani tra i 16 e i 21 anni preferirebbe un mondo senza internet, a dimostrazione delle crescenti preoccupazioni circa l’impatto negativo della vita online. Circa il 70% si sente peggio dopo aver trascorso tempo on-line (soprattutto sui social media) e il 50% è favorevole a un coprifuoco digitale per limitare l’uso delle app dopo le 22.

Dalle nuove tendenze, supportate dai dati, nasce un nuovo scenario culturale, sociale e anche di marketing e comunicazione del quale le aziende e i loro brand devono tenerne conto.

La stanchezza digitale come fenomeno sociale

I marketer lo percepiscono quotidianamente: l’attenzione non è più infinita, né disponibile a comando. L’utente medio non è più solo un target. È esausto. E soprattutto, ha iniziato a rivendicare il diritto a non esserci.

Molti utenti stanno disattivando i social, o usandoli solo per periodi limitati. Cresce il successo di format che promuovono la disconnessione, mentre i contenuti “slow”, silenziosi, essenziali, stanno guadagnando terreno.

Secondo l’ultimo sondaggio Deloitte Digital Consumer Trends, un consumatore su cinque (20%) ha dichiarato di aver eliminato un’app di social media negli ultimi 12 mesi, percentuale che sale a quasi uno su tre (29%) tra la Generazione Z.

Un quarto (25%) di coloro che hanno eliminato un’app di social media ha dichiarato di averlo fatto perché gli portava via troppo tempo, mentre uno su cinque (21%) ha attribuito la colpa alla disinformazione visualizzata sull’app o all’impatto negativo sulla propria salute mentale (20%).

Più che un rifiuto tecnologico, è una reazione culturale: Internet non è più vissuto come uno spazio neutro o liberatorio, ma come un ambiente tossico e sovraccarico di informazioni, troppo spesso di bassa qualità o poco interessanti.

Ci sono chiari segnati di stanchezza digitale e de-digitalizzazione, un approccio critico alla tecnologia. Secondo il Decoding the digital home study di Ernest&Young il 42% dei consumatori cerca attivamente la disconnessione digitale, limitando il tempo di utilizzo del proprio smartphone o di altri apparecchi digitali.

Il bisogno di sostenibilità digitale nel lavoro

“Il dato di EY evidenza un’esigenza sempre più diffusa: quella di ritrovare spazi di benessere disconnesso, anche come risposta all’iperconnessione che oggi caratterizza molte realtà lavorative” spiega Valentina Marini, consulente, formatrice e autrice e LinkedIn Top Voice nella sezione lavoro.

Leggendo il “Work Trend Index 2025” di Microsoft emerge chiaramente quanto questa pressione digitale sia concreta e pervasiva. Alcuni dati sono emblematici: ogni giorno, un lavoratore riceve in media 117 e-mail, spesso lette entro un minuto dalla loro ricezione; il 57% delle riunioni è organizzato all’ultimo momento, senza un calendario condiviso; ogni 2 minuti avviene un’interruzione tra call, notifiche, messaggi.

Per Marini “A mio avviso non basta più adattarsi. Serve formarsi e ripensare alla radice regole, abitudini e cultura del lavoro. La sostenibilità, anche digitale, deve diventare un principio organizzativo. Alcune aziende hanno già intrapreso questo percorso. Oltre alla formazione su una cultura ‘sana’ del digitale si stanno diffondendo iniziative di ‘disconnessione gentile’ come, ad esempio, momenti liberi da videocall, linee guida sull’invio di e-mail in orario extra lavorativo o la sensibilizzazione all’uso consapevole di canali interni. Azioni semplici ma che aiutano a ridurre il sovraccarico digitale e promuovono una maggiore consapevolezza nel comunicare”.

Tra intelligenza artificiale e nuove relazioni con il digitale

Non siamo all’alba di un ritorno nostalgico all’offline. È piuttosto un nuovo modo di immaginare la presenza digitale, più selettiva, meno invasiva.

Paradossalmente, proprio l’intelligenza artificiale sembra alimentare questo nuovo equilibrio.

Secondo i dati diffusi da Deloitte il 73% della Gen Z e il 73% dei Millennial italiani afferma che la GenAI ha liberato tempo e ha migliorato il work-life balance.

Gli strumenti basati su AI – assistenti, chatbot, generatori – permettono di delegare e automatizzare alcune attività digitali, liberando tempo e attenzione per ciò che conta. La Gen Z non è anti-tecnologica: è anti-saturazione. Ama l’innovazione, ma pretende controllo sull’esposizione. L’IA viene vissuta come uno strumento per vivere meglio, non di più.

Strategie comunicative tra FOMO e autenticità

“Il marketing – come spiega la psicologa Vania Marchionna – ha imparato a conoscere (e sfruttare) quella serie di processi socio-emotivi profondi che l’ambiente digitale attiva. Primo fra tutti il bisogno di appartenenza: la partecipazione ai social media risponde all’esigenza di sentirsi parte di una comunità, reale o percepita. La paura di essere esclusi — la cosiddetta FOMO (Fear of Missing Out) — che spinge le persone a connettersi continuamente per non perdere aggiornamenti, conversazioni o tendenze. Altro elemento centrale è il bisogno di riconoscimento e approvazione, che si manifesta nella ricerca di like, visualizzazioni e commenti. Ogni interazione genera micro-risposte dopaminiche che rinforzano la permanenza online”.

Verso una comunicazione autentica

Ora, questa nuova relazione con il digitale si sta già riflettendo nelle strategie di comunicazione. Le aziende e i brand più lungimiranti stanno riscoprendo la lentezza come valore di marketing, proponendo contenuti che non chiedono attenzione costante, ma la guadagnano per assenza. Silenzi che sanno comunicare, campagne che invitano a spegnere il telefono, esperienze che premiano la distanza, non la connessione.

La comunicazione deve privilegiare la presenza autentica e non quella costante. Le esperienze umane privilegiano intenzionalità e genuinità della connessione indipendentemente dal medium utilizzato. Online e offline non sono distinti, sono pezzi del mosaico comunicativo in cui ci muoviamo. Le aziende devono privilegiare l’autenticità, riconoscere il costo energetico delle interazioni quindi non diventare ossessive. Offrire valore genuino e presenza selettiva. La comunicazione deve essere invitante, è la qualità non la quantità a portare valore”. La pensa così Cristiano Ferrari, digital strategist di lungo corso.

I comunicatori bifronti

In questo scenario, sta emergendo una figura interessante: quella dei comunicatori “bifronti”, che hanno vissuto (e lavorato) in un’epoca pre-social e oggi si trovano ad adattare il loro sguardo all’ecosistema digitale contemporaneo. Sono i professionisti della comunicazione che conoscono la profondità di un pensiero non interrotto da notifiche, che hanno imparato a costruire narrazioni senza dover inseguire un algoritmo.

E proprio questa memoria analogica si sta rivelando un asset. In un mondo in cui il digitale è ovunque, saperne fare a meno diventa una competenza strategica. I marketer e i creativi che riescono a comunicare senza urlare, senza saturare, senza per forza essere “always on”, stanno dettando un nuovo stile. E sono sempre di più quelli che scelgono una presenza pensata per lasciare spazio, non per invaderlo.

La cura come innovazione

Marisandra Lizzi, tra le voci del “Digital Detox Festival” a Sauris, un borgo a 1400 metri sul livello del mare nelle Alpi Carniche in Friuli Venezia Giulia è tra quelle: “Penso che, oggi, una comunicazione davvero efficace è quella che riduce il rumore. In un mondo che ci vuole sempre connessi la vera innovazione è la cura, la lentezza, la profondità”.

Slow Marketing: come cambia la comunicazione dei brand

Questa tendenza ha impatti anche molto concreti. Le agenzie di comunicazione stanno ripensando le metriche di successo: non più solo reach e impression, ma qualità dell’interazione, impatto emotivo, durata della memoria. L’engagement non si misura più solo nei click, ma nella capacità di “abitare il silenzio” tra un contenuto e l’altro.

Alcuni brand stanno già testando campagne a “bassa frequenza”, con contenuti pensati e costruiti per durare nel tempo che escono con minor frequenza. Altri stanno rivalutando media considerati “lenti” come la newsletter, la stampa, o gli eventi fisici, come spazi di relazione reale e non solo digitale.

A confermare questa tendenza anche Luca Pelati, CEO dell’agenzia di comunicazione Ventie30 “Stiamo registrando anche noi una rivalutazione dei media lenti. La crescita di formati come newsletter curate, riviste cartacee di nicchia, i podcast lunghi e gli eventi esperienziali riflette un bisogno reale: rallentare per tornare a dare valore”.

Esempi di slow marketing in azione

BPER Banca ha investito su “Due punti” una rinnovata versione della sua newsletter aziendale che somiglia ad un curatissimo magazine con articoli di approfondimento e contenuti esclusivi che proprio in questi giorni compie un anno. Ferrari, il brand italiano più forte secondo Brand Finance, punta a comunicare solo quando è necessario con una comunicazione mirata, non invasiva, istituzionale e focalizzata sui valori del brand. Il sito web ufficiale di Ferrari è il principale canale di comunicazione aziendale e costituisce il fulcro della presenza digitale del brand. Iris Ceramica Group ha puntato su qualità ed eventi, in presenza, con l’architettura e l’innovazione al centro. Illumia, player energetico bolognese, sostiene una serie di eventi culturali denominati “incontri esistenziali”.

“Un contenuto curato ha più probabilità di essere salvato, condiviso, discusso. Un contenuto ben fatto diventa un punto fermo in mezzo al rumore” l’opinione di Pelati.

In tutto questo, torna una parola dimenticata: cura. Curare il contenuto, curare la relazione, curare il tempo. In una parola: slow, slow marketing.

Il corpo al centro della comunicazione

“Serve una comunicazione più umana, più semplice, più ricca di respiro. Personalmente sto lavorando molto su questo concetto integrando la scrittura con pratiche corporee, bioenergetiche e teatrali. Rimettere il corpo al centro della relazione, perché nessuna strategia regge, se non vibra nella verità di chi la crea” dice ancora Lizzi, fondatrice di Mirandola Comunicazione e autrice del libro “Lettera a Jeff Bezos.

Una rivoluzione che riporti le persone al centro delle proprie decisioni e le organizzazioni più visionarie stanno inserendo nei loro business flow – prevalentemente interni ma con forti ricadute anche sul marketing e l’immagine aziendale – il Chief Happiness Manager. Saverio Cuoghi, Chief Strategy Officer di 2BHappy, prima società italiana che forma e certifica i Chief Happiness Officier (già più di 500 nel nostro Paese) chiarisce: “L’energy management, cioè la gestione dell’energia fisica, emotiva, mentale e spirituale, è ancor più rilevante del time management. In particolare, per chi come i marketing and communication manager ha nel timing delle proprie azioni una parte significativa dell’efficacia”.

Verso un marketing più etico

Ma cosa accadrebbe se si diffondesse, a livello culturale, una consapevole di disconnessione? Per Vania Marchionna “Emergerebbero nuovi bisogni psicologici e nuove opportunità per un marketing più etico e sensibile. Immaginando il desiderio di profondità, prossimità relazionale e autonomia emotiva, il contatto umano diretto potrebbe diventare centrale. I brand, per rimanere rilevanti, dovrebbero allora trasformarsi in facilitatori di esperienze offline, in narratori di senso e non solo di consumo, in promotori di comunità reali anziché virtuali”.

Il futuro della presenza significativa

Il marketing futuro, in quest’ottica, non sarà solo un “sistema di persuasione”, ma uno strumento per accompagnare le persone nella transizione verso un equilibrio più sostenibile tra connessione e presenza.

“Non è più il tempo della presenza continua a tutti i costi, è il tempo della presenza significativa” spiega Pelati che aggiunge: “non si tratta di abbandonare il digitale, ma di usarlo in modo più sostenibile. Più che di digital detox parlerei di digital balance”.

Provocatoriamente potremmo dire che internet è finito. Non tecnicamente, certo, ma culturalmente, qualcosa è cambiato. Siamo entrati in una nuova fase della relazione tra esseri umani e digitale. Non è più tempo di euforia, ma di consapevolezza. Dobbiamo, forse, iniziare a immaginare un marketing più lento e strategie più sostenibili. Una comunicazione dove connettersi non è un obbligo, ma una scelta.

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