Cause negli Usa ed Europa

Big tech, ora l’antitrust Usa-Ue fa sul serio: si passa a rimedi strutturali



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Negli Stati Uniti e in Europa le autorità antitrust stanno intensificando le azioni contro le Big Tech per abuso di posizione dominante. Ora si cominciano a valutare azioni strutturali. Mai come ora diventa vicina l’ipotesi di spezzare le big tech, come Google e Meta negli Usa. L’Europa invece chiede cambi strategici nel modello di business…

Pubblicato il 24 apr 2025

Francesca Niola

Fellow – ISLC, Università degli Studi di Milano



Chrome (1)

Nel corso dell’udienza del 21 aprile 2025, dinanzi alla U.S. District Court for the District of Columbia, il Dipartimento di Giustizia statunitense ha formalizzato una richiesta di disarticolazione della struttura societaria di Google, indicando la cessione del browser Chrome quale misura essenziale per ripristinare le condizioni di un’effettiva contendibilità del mercato della ricerca online.

Google Partially Loses Antitrust Case

Sulle big tech, Google in primis, gli Stati Uniti sembrano pronti a fare sul serio, sul fronte antitrust. In stato avanzato anche la causa su Meta, pure con la minaccia di separazione obbligatoria – da Instagram – sempre allo scopo di ripristino della concorrenza.

E ricordiamo che è in corso anche un’altra causa negli Usa, contro Google, minacciando la separazione dal suo business tecnologico pubblicitario. Proprio il 17 aprile giudice distrettuale Leonie Brinkema ha emesso una sentenza che riconosce Google colpevole di violazione delle leggi antitrust in questo mercato.

Ma fa sul serio anche l’Europa che ha appena sanzionato per 500 milioni Apple e 200 milioni Meta per violazione delle regole antitrust del Dma. Soprattutto, la sanzione è solo la cima dell’iceberg perché l’EU ha chiesto ai big di cambiare il modo di fare business.

Antitrust su big tech: rimedi strutturali

La scelta di procedere mediante rimedi strutturali, e non attraverso meri correttivi comportamentali, accomuna le autorità Usa ed Ue (anche se è comunanza conflittuale, vedi le ire del presidente Usa Trump contro la sanzione Ue ai suoi campioni nazionali).

E manifesta un orientamento di sistema, improntato alla rimozione delle radici funzionali della posizione dominante, piuttosto che alla mera regolazione delle sue manifestazioni sintomatiche.

Il caso Google in Usa

La tesi accusatoria, fondata sulla constatazione di un intreccio inscindibile tra il motore di ricerca, l’infrastruttura del browser e le pratiche di preinstallazione su dispositivi mobili, costruisce un impianto logico secondo cui l’accesso all’informazione risulta vincolato da scelte tecniche che veicolano il traffico verso una sola piattaforma. La dipendenza dell’utente dall’ecosistema Google, infatti, non si produce per adesione volontaria ma per progettazione architetturale, mediante una rete di convenzioni distributive, design funzionale e preconfigurazioni che restringono in radice il campo delle alternative effettivamente praticabili.

All’interno di questa cornice si inserisce la testimonianza di Nick Turley, dirigente di OpenAI, il quale ha dichiarato l’interesse della società all’acquisto di Chrome, qualora l’ordine di vendita venisse pronunciato. La dichiarazione, resa sotto giuramento, ha posto l’accento sul valore strategico del browser quale canale privilegiato per la diffusione di sistemi intelligenti in grado di integrare, sostituire o orientare le interrogazioni dell’utente.

L’ingresso di OpenAI nel circuito distributivo della ricerca implicherebbe una mutazione profonda della catena informativa, giacché combinerebbe la funzione di mediazione algoritmica con quella di generazione autonoma di risposte, alterando il paradigma della conoscenza digitale. La fusione tra motore di interrogazione e modello linguistico predittivo verrebbe così a produrre un’unità funzionale in grado di concentrare, in un solo dispositivo, il governo dell’informazione ricercata e la sintesi del contenuto somministrato.

Tale assetto reclama, da parte della teoria costituzionale, una riflessione articolata sul ruolo del potere economico nei processi di formazione del sapere. La pretesa del giudice federale di intervenire sull’assetto proprietario della tecnologia non può interpretarsi come un’ingerenza tecnica in una dinamica di mercato, ma come un atto di ricostituzione di uno spazio pubblico dell’intelligenza. Il diritto antitrust, nella sua accezione più profonda, non tutela l’efficienza concorrenziale come fine autosufficiente, ma opera quale strumento per impedire la riduzione dell’autonomia personale a funzione derivata da scelte private.

L’algoritmo di ricerca esercita un’attività ordinatrice della realtà accessibile. Ogni risultato restituito al termine di una query costituisce l’esito di una sequenza di calcolo che stabilisce connessioni, priorità, gerarchie. La struttura computazionale, incorporata nel codice del motore, dispone le informazioni secondo logiche interne che riflettono interessi, strategie e finalità non dichiarate. L’interfaccia, nell’atto di rispondere, produce una mappa cognitiva, delimita uno spazio semantico, propone un ordine del mondo. In tale cornice, la tecnica cessa di operare come ausilio neutro e assume una funzione normativa, poiché orienta l’esperienza conoscitiva, plasma la percezione del vero, suggerisce l’orizzonte del possibile.

L’attività delle piattaforme digitali introduce un nuovo paradigma di costituzione materiale della sfera pubblica. L’informazione, veicolata attraverso dispositivi tecnici altamente strutturati, viene filtrata, ricombinata, interpretata. Le grandi imprese tecnologiche, in virtù del controllo sulle infrastrutture cognitive, intervengono nella definizione degli oggetti discorsivi, influenzano la selezione delle fonti, determinano la visibilità dei contenuti. Tali funzioni attribuiscono loro un ruolo costituente, non formalizzato ma incisivo, nel processo di formazione dell’opinione pubblica. La dimensione epistemica del potere si manifesta, dunque, nell’autorità algoritmica di costruire il reale, organizzare il sapere, disciplinare l’accesso.

AI più ricerca, dilemma antitrust

Il progetto, espresso con chiarezza nelle dichiarazioni di OpenAI, di fondere un browser dominante con un modello linguistico generativo inaugura una nuova forma di concentrazione. L’ambiente risultante da tale integrazione disporrebbe di una capacità pervasiva: interrogare, generare, sintetizzare, riformulare, suggerire. Ogni elemento dell’interazione cognitiva risulterebbe interno al perimetro di una sola architettura, che fungerebbe da mediatore unico tra il soggetto e il mondo. La complessità della ricerca verrebbe risolta nell’immediatezza dell’output automatizzato. La molteplicità delle fonti cederebbe il passo a un’unica voce computazionale. La pluralità dei percorsi si troverebbe inglobata in un solo flusso predittivo.

Nel contesto delineato, il diritto costituzionale assume una funzione di delimitazione. L’ordinamento individua nella pluralità delle fonti, nell’accesso non esclusivo al sapere, nella libertà di interrogare secondo percorsi differenziati, elementi costitutivi della democrazia. L’architettura cognitiva non appartiene al dominio delle scelte tecniche, ma costituisce materia propria della garanzia dei diritti fondamentali. La costruzione del pensiero richiede dissenso, deviazione, sovrapposizione. Ogni struttura informativa che produce convergenza assoluta esercita un’autorità che esige risposta giuridica. L’intervento del giudice, in questa prospettiva, compie un’operazione di giustizia epistemica: interrompe la verticalità dell’informazione, riapre spazi di pluralità, restituisce al sapere la sua natura aperta e dialogica.

Il nuovo scenario Antitrust Usa

Il rimedio strutturale richiesto dal Dipartimento di Giustizia statunitense nel procedimento antitrust contro Google, e oggi oggetto di valutazione da parte del giudice Amit Mehta, implica la dismissione forzata del browser Chrome.

Tale proposta, priva di precedenti nella recente esperienza giurisprudenziale americana per entità e impatto sistemico, si colloca all’intersezione tra diritto della concorrenza e salvaguardia delle condizioni minime di un ordinamento democratico dell’informazione. La vendita coattiva di un’infrastruttura cognitiva strategica, come quella del browser dominante, non persegue una finalità punitiva, bensì si orienta alla ricostituzione di un ecosistema informativo articolato, in grado di assorbire e contenere le derive monopolistiche di lungo corso.

L’impostazione assunta dal Dipartimento di Giustizia esprime un mutamento qualitativo della funzione del diritto antitrust. L’intervento richiesto al giudice non consiste in una sanzione retrospettiva, né in un meccanismo di dissuasione simbolica. Esso opera come misura ordinativa, finalizzata a ripristinare una condizione strutturale di pluralità e a depotenziare il nesso funzionale tra dominio tecnologico e influenza cognitiva. Il browser, in quanto portale d’accesso alla realtà digitale, possiede un valore assiologico che eccede la sua funzione tecnica. Chi ne dispone, orienta. Chi ne controlla l’architettura, dispone del potere di mediazione universale delle esperienze informative.

Le differenze con l’Europa

Nel confronto con il modello europeo introdotto dal Digital Markets Act, si coglie una divergenza di metodo, più che di obiettivo. L’impianto regolatorio europeo adotta un approccio ex ante, mediante l’individuazione di gatekeepers e l’imposizione preventiva di obblighi comportamentali destinati a impedire condotte discriminatorie, pratiche di auto-preferenzialità o sfruttamento indebito delle informazioni raccolte. L’intervento statunitense, invece, si fonda su una logica correttiva ex post, basata sull’accertamento giudiziale di una violazione e sull’adozione di misure riparatorie. Tuttavia, entrambe le strategie convergono verso un’esigenza comune: disarticolare i dispositivi di controllo centralizzato del sapere e restituire all’architettura digitale una dinamica di competizione e molteplicità.

La decisione del giudice Mehta, assunta nell’agosto 2024, ha riconosciuto nella condotta di Google una violazione sistematica delle norme antitrust, attuata mediante una rete complessa di accordi con produttori di dispositivi e sviluppatori di browser concorrenti, volta a garantire la preinstallazione esclusiva del motore di ricerca dell’azienda. Tale strategia contrattuale ha prodotto un effetto di chiusura del mercato, privando altri attori della possibilità di raggiungere l’utente in condizioni di reale parità. Il riconoscimento giudiziale di tale schema ha fondato la legittimità dell’attuale fase rimediale, nella quale il giudice viene sollecitato a compiere un’operazione di ingegneria istituzionale, disaggregando l’entità societaria per neutralizzare le concentrazioni indebite di potere.

L’altra causa Google: sulla pubblicità negli Usa

Negli Stati Uniti è in corso un’altra causa antitrust di grande rilievo contro Google, accusata dal Dipartimento di Giustizia (DOJ) e da diversi stati federati di monopolizzare illegalmente il mercato della pubblicità digitale. Il procedimento, avviato nel gennaio 2023, si concentra sul controllo eccessivo esercitato da Google sull’intera filiera tecnologica che gestisce gli annunci online, noto come “ad tech stack”.

Secondo l’accusa, Google avrebbe consolidato il proprio potere attraverso pratiche anticoncorrenziali, come l’integrazione del suo server pubblicitario per editori (Google Ad Manager) con la piattaforma di scambio pubblicitario AdX. Questo avrebbe permesso all’azienda di favorire i propri servizi a scapito della concorrenza, danneggiando editori, inserzionisti e consumatori.

Inoltre, il governo contesta a Google una serie di acquisizioni strategiche — tra cui DoubleClick e AdMeld — utilizzate per rafforzare la sua posizione dominante e soffocare la concorrenza. L’accusa è che Google abbia creato un sistema chiuso in cui ha potuto controllare sia il lato dell’offerta (editori) che della domanda (inserzionisti), ottenendo così profitti ingenti a discapito di un mercato libero e competitivo.

Il 17 aprile 2025, la giudice distrettuale Leonie Brinkema ha emesso una sentenza che riconosce Google colpevole di violazione delle leggi antitrust. Ora il processo entrerà in una fase cruciale per determinare i rimedi. Il Dipartimento di Giustizia potrebbe chiedere misure drastiche, come la separazione forzata di Google Ad Manager o addirittura la vendita del browser Chrome, oltre alla rimozione degli accordi che impongono Google come motore di ricerca predefinito su dispositivi di terze parti.

Google ha annunciato che farà appello alla decisione, sostenendo che i suoi strumenti pubblicitari hanno migliorato l’efficienza e ridotto i costi per tutti gli attori coinvolti nel mercato pubblicitario. Tuttavia, la causa rappresenta una delle sfide regolatorie più incisive nei confronti di un gigante tecnologico e potrebbe avere profonde ripercussioni sull’intera industria digitale.

Questa azione legale fa parte di una più ampia strategia del governo statunitense per contrastare le posizioni dominanti delle Big Tech, in parallelo con altre cause che coinvolgono Meta, Apple e Amazon. L’esito del processo potrebbe ridisegnare gli equilibri del mercato pubblicitario digitale e definire nuovi limiti per il potere delle grandi piattaforme tecnologiche.

Gli scenari

Le implicazioni della decisione attesa su Google si proiettano oltre i confini dell’ordinamento statunitense.

L’eventuale accoglimento della proposta del DOJ introdurrebbe un precedente capace di orientare, con forza vincolante indiretta, la giurisprudenza di altri ordinamenti che si confrontano con le stesse dinamiche di concentrazione cognitiva. La legittimità di un rimedio strutturale, fondato non sul danno patrimoniale ma sulla salvaguardia del pluralismo informativo, costituirebbe un precedente giuridico di portata globale. I sistemi nazionali si troverebbero così di fronte a un modello giurisprudenziale in grado di fondere logica concorrenziale e principi costituzionali, nella consapevolezza che la democrazia richiede, per vivere, la distribuzione delle vie d’accesso alla conoscenza.

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