Un sistema multipolare frammentato con una globalizzazione a pezzi. La creazione di blocchi geopolitici sulla base di opportunità ed interessi economici, politici, militari. Un progressivo decoupling negli ambienti operativi che regolano i commerci internazionali anche all’interno del blocco Euro-Atlantico. Shock continui che creano un clima di incertezza e di ansia permanente. È questo lo scenario del nuovo ordine internazionale post globale.
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La fine del multilateralismo e la crisi della globalizzazione
Il disaccoppiamento strutturale tra Europa e Usa non è peraltro una novità. Era già evidente quando le conseguenze legate ai conflitti hanno manifestato effetti redistributivi ed azioni di politica economica progressivamente divergenti in termini sia di impostazione, sia di impatti sull’economia: un esempio per tutti è rappresentato dall’Inflation Reduction Act (IRA) versus l’Ue e il Green Deal.
Con la frammentazione Est-Ovest e poi il decoupling USA vs UE, si assiste alla definitiva rottura del multilateralismo e della convergenza regolamentare che avevano caratterizzato le relazioni internazionali fino a pochi anni fa. A questa situazione corrisponde una lacerazione delle grandi piattaforme e una frammentazione regolatoria, fiscale, commerciale che inevitabilmente determina maggiori costi per le imprese, tra cui i costi di compliance. L’intensificazione delle tasse, del commercio, delle sanzioni e delle regolamentazioni meno armonizzate impatta i mercati globali, aumentando la complessità e i costi.
Nella precedente fase, durata circa 30 anni, abbiamo assistito ad una situazione senza precedenti in favore della globalizzazione, del libero commercio e dell’interdipendenza economica. Una situazione di stabilità favorita dal peso di istituzioni del multilateralismo come WTO, OCSE, FMI, che definivano standard comuni di regole accettate dalla gran parte dei paesi.
Questo clima ha favorito una situazione di bassi conflitti, di libero scambio, di regole condivise. Oggi ci stiamo indirizzando sempre di più verso un mondo caratterizzato da rapporti di tipo ‘transazionale’. L’Amministrazione Trump, come è evidente, ha accentuato questa tendenza.
Nel frattempo, le istituzioni multilaterali hanno esaurito la loro capacità di fornire soluzioni su scala globale. Senza una chiara leadership globale abbiamo raggiunto il livello più elevato di conflitti tra Stati dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, conflitti che, secondo le stime, sono anche molto costosi, pari al 13,5% del GDP globale.
I rischi immediati per le imprese tra supply chain e sicurezza
Siamo quindi di fronte a un nuovo ordine politico ed economico mondiale che è ancora tutto da interpretare e dove le imprese non dispongono più di una ‘cassetta degli attrezzi’ pronta all’uso per mitigare gli effetti di tali rischi.
In questo scenario, vediamo alcune aree di impatto per le imprese. Innanzitutto, occorre sottolineare come molti conflitti si stiano svolgendo in prossimità dei cosiddetti ‘choke points’, ossia dei punti che rappresentano degli snodi della globalizzazione, come il Canale di Suez, il Canale di Panama, Bab el Mandeb, lo Stretto di Hormuz. Quindi un primo impatto forte che possiamo osservare è sulle supply chains e sulle operations delle aziende.
In secondo luogo, esiste un tema di sicurezza delle infrastrutture. Ad esempio, in questo periodo una delle infrastrutture più critiche per le imprese sono i cavi sottomarini che rappresentano un’infrastruttura cruciale per la connettività globale, dal momento che trasportano circa il 99% del traffico dati internet mondiale contribuendo all’integrazione dei mercati elettrici.
Un altro impatto pesante per le imprese multinazionali è rappresentato dalla global mobility, soprattutto quando si tratta di trasferire personale in paesi a rischio di instabilità politica.
In questa fase di incertezza, di shock continui e di ‘permacrisi’ è evidente come per le imprese diventi sempre più importante disporre di insights per supportare processi decisionali.
La diversificazione dei mercati come strategia di resilienza
A questo fine, posto che, come detto, oggi non ci sono più risposte facili pronte all’uso, possiamo provare a tracciare una rotta che le aziende dovrebbero seguire per navigare nell’attuale fase di incertezza. Questa rotta segue tre punti che ruotano attorno al concetto di diversificazione: gli sbocchi commerciali, le catene di fornitura e gli investimenti.
Oggi l’export verso gli Usa vale per l’Italia quasi 65 miliardi di euro ed è evidente come non sia sostituibile. Almeno non nell’immediato e non in modo semplice. Ma diversificare le rotte è un tema senza dubbio da approcciare: le aree in cui vediamo maggiori opportunità sono oggi i paesi del Golfo, il Medio Oriente, alcuni paesi dell’Africa, l’America Latina. Questi paesi hanno attraversato negli ultimi anni un’accelerazione di sviluppo molto importante e spesso hanno rapporti già consolidati con le nostre aziende. La sfida è approcciarsi a questi mercati non in modo indifferenziato, ma con una strategia che tenga conto delle caratteristiche di ogni paese che possono impattare il posizionamento in rapporto alle preferenze di consumo e alla struttura competitiva di ogni singolo mercato.
Supply chain e investimenti nella transizione energetica e digitale
Anche gli assetti legati alle catene di fornitura vanno reinterpretati e ridisegnati, con un passaggio da logiche competitive di vantaggi di costo ad aspetti più connessi alla sicurezza e alla resilienza. Una direzione verso cui le aziende già si stanno muovendo non è più tanto quella del ‘nearshoring’ o del ‘reshoring’, quanto più quella del ‘friendshoring’, che implica l’individuare i ‘paesi amici’ dove ricollocare la supply chain. Ciò significa che per garantire la sicurezza e la resilienza degli approvvigionamenti occorre diversificare e, allo stesso tempo, identificare aree geografiche che per caratteristiche culturali ed assetti normativi possano assicurare le forniture necessarie.
Un altro punto cruciale è quello degli investimenti. Ancora una volta, è essenziale ragionare non solo sul breve termine, valorizzando quelle iniziative che potranno consentire il recupero di marginalità che oggi sembra essere minacciata. Ci riferiamo soprattutto agli investimenti legati alla doppia transizione, energetica e digitale. Digitalizzare sfruttando la leva delle nuove tecnologie significa efficientare i modelli operativi.
Decarbonizzare significa non solo allinearsi alle norme ESG, ma rimuovere nel tempo il più grande gap competitivo del sistema UE rispetto ad altre economie, ossia il costo dell’energia. Fonti rinnovabili, efficientamento energetico, diversificazione e gestione attiva dei canali di approvvigionamento: tutto ciò può portare a ridurre il costo degli acquisti, consumare meno, inquinare meno, e quindi ridurre i costi. Così facendo le imprese riusciranno a recuperare la profittabilità che i dazi e le guerre commerciali sembrano sottrarre oggi.
Alleanze strategiche e ruolo della tecnologia nel nuovo ordine
Nel contesto geopolitico attuale, le tensioni internazionali, le crisi energetiche e le sfide tecnologiche richiedono un nuovo paradigma basato sulla cooperazione strategica. In questo scenario, le alleanze tra Stati che condividono valori e obiettivi comuni diventano strumenti fondamentali per garantire stabilità e crescita. In questo processo la tecnologia gioca un ruolo cruciale. La digitalizzazione e l’innovazione possono accelerare il passaggio da un modello competitivo a un modello cooperativo, in cui la sicurezza informatica, la resilienza e la governance condivisa sono fattori determinanti per mantenere l’ordine economico e sociale. In questa prospettiva anche le grande catene del valore globali possono essere un fattore di stabilizzazione per il nuovo ordine internazionale.
Verso una nuova globalizzazione inclusiva e cooperativa
Nonostante il caos e la frammentazione attuale, sembra impensabile l’idea della fine della globalizzazione. Il livello di interdipendenza e di interconnessione negli scambi commerciali, nella circolazione dei capitali e delle persone ce lo dimostra ogni giorno. La via d’uscita è un nuovo livello di globalizzazione che dovrà essere sempre più inclusivo e all’insegna della cooperazione internazionale, che è poi l’unica strada per la crescita, l’innovazione e lo sviluppo. È questa la chiave per affrontare le sfide globali e costruire un futuro più stabile e prospero. E le aziende soprattutto quelle multinazionali sono chiamate a giocare la loro parte per ripristinare in modo creativo un terreno comune di multilateralismo e di cooperazione. Si tratta di un programma che oggi può sembrare idealistico e anche per certi versi naif, rispetto al cinismo e al leaderismo dilagante ma che rappresenta l’unico vero orizzonte per il futuro dell’umanità.












