La guerra dell’intelligenza artificiale non si combatte più soltanto con GPU e modelli linguistici. La vera posta in gioco sono le persone: i pochi, rarissimi ricercatori e ingegneri capaci di progettare le architetture e i sistemi che domani guideranno la superintelligenza.
Indice degli argomenti
Le tattiche aggressive delle Big Tech per acquisire talenti
Il Wall Street Journal ha raccontato come le Big Tech stiano adottando tattiche sempre più aggressive per accaparrarsi i migliori talenti, arrivando a pagare stipendi da star dello sport e ricorrendo al cosiddetto reverse acquihire: non più acquisire una startup, ma assumere i suoi fondatori e il team chiave, lasciando dietro di sé il guscio di un’azienda svuotata.
Il valore di alcune offerte arrivate a ricercatori AI ha raggiunto il miliardo di dollari. Microsoft, Meta, Amazon e Google non stanno semplicemente cercando un vantaggio competitivo: stanno ridisegnando le regole del gioco, in una corsa che rischia di compromettere lo stesso modello di innovazione che per decenni ha alimentato la Silicon Valley.
Le mosse delle Big Tech: reverse acquihire e stipendi record
Gli esempi non mancano. Nel 2023 Microsoft ha ingaggiato Mustafa Suleyman, fondatore di Inflection AI, per guidare il business legato a Copilot, pagando alla startup 650 milioni di dollari in licenze. A giugno, Meta ha “svuotato” Scale AI con un investimento da 14,8 miliardi di dollari in cambio del CEO Alexandr Wang e di parte del team.
Il vantaggio di queste operazioni è evidente: tempi rapidi, nessun rischio di integrazione post-acquisizione e soprattutto nessun passaggio attraverso l’iter regolatorio, un aspetto cruciale in una fase in cui tutte le Big Tech sono sotto l’occhio vigile delle autorità antitrust.
Ma il costo nascosto è altissimo: queste strategie minano il patto implicito che da sempre sostiene l’ecosistema startup. Se un tempo il rischio di lavorare in una nuova impresa era compensato dalla possibilità di un’exit milionaria, oggi molti dipendenti si ritrovano tagliati fuori dai guadagni quando la loro azienda viene “smembrata” senza un’acquisizione formale.
Lo scontro diretto tra Meta e OpenAI
La tensione ha raggiunto il suo apice con lo scontro diretto tra Meta e OpenAI. Nel giro di pochi giorni, il colosso guidato da Mark Zuckerberg ha reclutato otto ricercatori di altissimo livello, esperti in RLHF, alignment, ottimizzazione dei transformer e interpretabilità. Non si tratta di profili junior, ma di figure chiave nella costruzione dei modelli fondativi di OpenAI.
Il Chief Research Officer di OpenAI, Mark Chen, in un memo interno trapelato alla stampa, ha parlato senza mezzi termini: “Ho una sensazione viscerale, come se qualcuno fosse entrato in casa nostra e avesse rubato qualcosa.” Una frase che restituisce la percezione di una startup che vede sgretolarsi il suo asset più prezioso: i cervelli.
Meta Superintelligence Labs: l’offensiva di Zuckerberg
Queste mosse non sono isolate ma parte di una strategia più ampia. Meta ha infatti lanciato la nuova divisione Meta Superintelligence Labs (MSL), pensata per colmare il gap con OpenAI, Google e Anthropic dopo la performance deludente del modello Llama 4. Per guidarla, Zuckerberg ha affidato il ruolo di Chief Scientist a Shengjia Zhao, ex ricercatore di OpenAI e co-autore di ChatGPT, GPT-4 e del modello di ragionamento AI o1, affiancato da Alexandr Wang, ex CEO di Scale AI.
L’ingaggio di Zhao e il reclutamento di decine di ricercatori provenienti da OpenAI, Google DeepMind, Safe Superintelligence, Apple e Anthropic segnano un punto di svolta. Meta tratta i talenti come superstar, arrivando a offrire pacchetti retributivi a otto e nove cifre, con contratti “esplosivi” a scadenza brevissima. Secondo indiscrezioni, Zuckerberg avrebbe persino contattato di persona i ricercatori, invitandoli nella sua residenza sul Lago Tahoe per convincerli a unirsi al progetto.
Parallelamente, Meta sta investendo miliardi in infrastrutture: entro il 2026 MSL potrà contare su Prometheus, un cluster di cloud computing da 1 gigawatt situato in Ohio, tra i più potenti al mondo. Questa potenza di calcolo permetterà di sostenere le sessioni di training necessarie a sviluppare modelli di IA di frontiera, aprendo la strada a un potenziale sorpasso sui concorrenti.
Con l’arrivo di Zhao, Meta conta oggi due Chief AI Scientists di livello mondiale, insieme a Yann LeCun che continua a guidare il laboratorio FAIR. Le sinergie tra le tre anime della ricerca AI dell’azienda restano da chiarire, ma la determinazione con cui Zuckerberg sta giocando la partita dell’intelligenza artificiale sembra già premiata dal mercato: il titolo Meta ha recuperato la correzione di inizio anno e si muove vicino ai massimi storici.
Il caso Thinking Machines Lab: quando i soldi non bastano
Eppure, non sempre i soldi bastano. L’episodio più clamoroso riguarda Thinking Machines Lab (TML), startup fondata da Mira Murati, ex dirigente di OpenAI. Meta ha messo sul piatto offerte superiori al miliardo di dollari per assumere in blocco i suoi ingegneri migliori, con pacchetti individuali che, secondo fonti vicine alle trattative, oscillavano tra i 200 e i 500 milioni di dollari.
La sorpresa? Nessuno ha accettato. L’intero team ha rifiutato l’offerta, scegliendo di restare indipendente. Una decisione che, a mio avviso, segna un punto di svolta nella “guerra dei talenti”. Perché dimostra che non tutto si compra: cultura aziendale, autonomia e fiducia nel progetto possono contare più di qualsiasi assegno.
Thinking Machines Lab è così diventata un simbolo di resistenza, ma anche la cartina tornasole di un cambiamento profondo. Le nuove generazioni di ricercatori AI non cercano soltanto compensi milionari, ma un ambiente coerente con i propri valori e una roadmap chiara per il futuro.
Uno scontro culturale tra startup e colossi tecnologici
Quello che sta accadendo non è solo un braccio di ferro sui salari. È uno scontro tra due culture. Da un lato, le startup che si raccontano come missioni collettive, spesso legate a valori etici e a una visione di lungo periodo. Dall’altro, colossi come Meta che dichiarano apertamente di voler vincere, senza board etici né vincoli statutari, con la libertà di agire in maniera spregiudicata.
Il rischio, sottolinea il Wall Street Journal, è che questa dinamica impoverisca l’ecosistema. Se lavorare in una startup non garantisce più una ricompensa proporzionata al rischio, sempre più talenti potrebbero scegliere la via “sicura” di un impiego in Big Tech, prosciugando il bacino da cui nascono le innovazioni più radicali.
I rischi per l’ecosistema dell’innovazione
Non è un dettaglio: Android, acquistata da Google nel 2005 per 50 milioni di dollari, o Annapurna Labs, comprata da Amazon nel 2015 per 350 milioni, sono esempi di come piccole realtà abbiano trasformato interi mercati. Se però le startup vengono svuotate troppo presto, l’intera macchina dell’innovazione rischia di incepparsi.
Guardando a questi casi, è difficile non pensare che le Big Tech stiano segando il ramo su cui sono sedute. Acquisire talenti a colpi di assegni può funzionare nel breve periodo, ma se l’ecosistema che genera nuove idee si indebolisce, anche i giganti finiranno per trovarsi senza terreno fertile da cui attingere.
La vicenda di Thinking Machines Lab è emblematica: dimostra che i soldi non sono l’unica leva. I ricercatori AI vogliono soprattutto essere messi nelle condizioni di costruire qualcosa di significativo. Non basta il nome di una big tech per motivare chi lavora in un settore che cambia la storia della tecnologia.
Quando Google ha svuotato la startup Windsurf con un accordo da 2,4 miliardi di dollari a luglio Il resto dell’azienda è stato rapidamente assorbito da un’altra startup AI, ma alcuni dei suoi dipendenti non hanno quasi certamente ottenuto il guadagno che si aspettavano. Prima dell’accordo, OpenAI era stata in trattativa per comprare Windsurf a 3 miliardi, in quella che sarebbe stata una normale acquisizione “alla Silicon Valley”.
Le startup come chiave per l’innovazione futura
La guerra dei talenti AI è appena iniziata e già mostra i suoi paradossi. Da una parte, stipendi miliardari e reverse acquihire che minano la fiducia nel modello startup. Dall’altra, rifiuti clamorosi che dimostrano come autonomia, cultura e visione possano valere più di qualsiasi offerta.
Se le Big Tech continueranno a svuotare le startup senza acquisirle, rischiano di compromettere l’innovazione che hanno sempre alimentato. Se invece le startup sapranno difendere la propria identità, potranno diventare il vero contrappeso nella corsa alla superintelligenza.
In fondo, la lezione è semplice: i modelli cambiano, le GPU si comprano, ma i talenti no. E chi saprà attrarli non solo con stipendi, ma con valori e visione, avrà in mano non solo il futuro dell’AI, ma anche quello dell’intera Silicon Valley.











