Taylor Swift, l’artista che ha costruito la propria carriera sull’idea di controllo, autenticità e trasparenza, è oggi accusata di aver affidato parte della sua immagine a un algoritmo.
La campagna di lancio del suo nuovo album, The Life of a Showgirl, ha disseminato nelle principali città “porte arancioni” dotate di QR code che conducevano a video enigmatici con immagini (ombre incoerenti, oggetti deformati, testi irregolari) che hanno fatto scattare il sospetto che si trattasse di segni inequivocabili di generazione artificiale.
Nel giro di poche ore, l’hashtag #SwiftiesAgainstAI ha raccolto centinaia di migliaia di interazioni e i fan, storicamente tra i più attivi e devoti, hanno accusato la cantante di incoerenza etica e di essere passata da paladina del diritto d’autore, che ha costruito un impero sull’idea di autenticità, ad artista che usa strumenti intelligenza artificiale senza dichiararlo.
La questione, più che tecnica, è simbolica dal momento che Swift non è un’artista come le altre, ma la sua immagine pubblica è da sempre una costruzione maniacalmente controllata, calibrata in ogni dettaglio visivo e linguistico.
Per questo, l’idea che parti della campagna possano essere state generate da IA mina la coerenza stessa del personaggio: la popstar più attenta alla gestione della propria identità diventa oggetto del sospetto che quella stessa identità sia stata (almeno in parte) automatizzata.
Non è la prima volta che la tecnologia contribuisce a costruire la narrazione visiva della cantante, dato che nel 2024, un deepfake virale che la mostrava accanto a Donald Trump, completamente falso, aveva fatto il giro delle piattaforme. L’immagine, diffusa inizialmente su Truth Social e poi rilanciata da media internazionali, ritraeva Swift sorridente con l’ex presidente e lo slogan “Taylor Wants You to Vote for Donald Trump” e la cantante fu costretta a intervenire pubblicamente per smentire ogni legame politico. L’episodio mise in luce la fragilità strutturale dell’immagine digitale, visto che anche la figura più monitorata, più protetta e più pianificata del panorama pop può diventare oggetto di appropriazione sintetica.
Il caso del 2025 non è quindi un incidente isolato, ma un capitolo successivo nella stessa narrazione, che segna il passaggio dalla manipolazione esterna alla co-costruzione algoritmica.
Se nel deepfake di Trump Swift era vittima di un abuso tecnologico, nella nuova campagna promozionale diventa (almeno agli occhi del pubblico) parte attiva del processo e l’IA, in questo passaggio, diventa tecnica di comunicazione strategica, capace di riscrivere la percezione stessa dell’autenticità.
Il risultato è un rovesciamento decisivo, anche se sottile: l’artista che un tempo difendeva il diritto d’autore contro le piattaforme ora si trova a incarnare il nodo più complesso del nostro tempo, quello tra identità, algoritmo e responsabilità dell’immagine.
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L’IA protesi dell’immagine: coerenza, potenza, artificio
Il caso Swift, al di là delle reazioni emotive dei fan, rivela un cambio di prospettiva profondo in cui l’intelligenza artificiale diventa elemento strutturale del racconto identitario, dato che l’artista non si limita a usare l’IA perché la incorpora. La macchina diventa parte della regia dell’immagine, un’estensione invisibile della strategia estetica e commerciale.
È in questo contesto che la questione si sposta dal piano della coerenza morale a quello della forma e ci si domanda cosa diventi l’immagine pubblica quando è costruita insieme a un algoritmo.
Occorre innanzitutto considerare che, nel sistema mediatico contemporaneo, l’immagine di un’artista è un vero e proprio progetto e, dalla palette cromatica alle scelte visive sui social, ogni elemento concorre a mantenere una coerenza narrativa. L’intelligenza artificiale si inserisce in questo quadro come protesi di controllo e continuità estetica, capace di garantire uniformità tra migliaia di output visivi.
L’IA può infatti correggere automaticamente le proporzioni di un volto, adattare la luce di una scena, uniformare lo stile di una fotografia alle logiche del brand con la perfezione operativa di una macchina che non dorme e non sbaglia. Tutto ciò pone un problema di autenticità derivante da un’immagine ottimizzata, ripulita e armonizzata che può perdere la sua dimensione espressiva, dal momento che l’imperfezione umana (il gesto non simmetrico, la variazione casuale, l’errore percettivo) è ciò che storicamente costruisce il fascino di un artista; quindi, eliminare ogni frattura significa sottrarre la prova del reale.
L’IA, applicata al marketing musicale, genera così un doppio effetto: potenzia il controllo estetico e riduce l’imprevisto. È in questo equilibrio precario, tra coerenza e sterilizzazione narrativa, che si colloca la tensione più interessante del caso Swift.
La cantante che ha fondato il proprio mito sulla sincerità e sulla vulnerabilità, passando dall’adolescente country alla donna consapevole e politica, ora si trova identificata con un’immagine algoritmicamente perfetta, praticamente un volto senza attrito.
Dalla maschera al simbolo: genealogia della costruzione artificiale dell’artista
La figura dell’artista come entità artificiale non nasce con l’IA e Swift poiché si colloca in una lunga genealogia di autori che hanno manipolato deliberatamente la propria identità visiva con l’aiuto del digitale. Solo per fare alcuni esempi, Prince trasformò il proprio nome in un glifo, abolendo il linguaggio verbale e scegliendo un simbolo inappropriabile dal sistema commerciale; i Daft Punk resero l’anonimato un manifesto estetico, celando i volti dietro caschi robotici che negavano il corpo in favore della leggenda e la loro uscita di scena, nel 2021, fu coerente con quella poetica: un video intitolato Epilogue, pubblicato sul loro canale ufficiale, mostrava uno dei due membri che si autodistruggeva in un’esplosione nel deserto, mentre l’altro si allontanava lentamente. Nessun discorso, nessuna dichiarazione (solo un gesto meccanico e silenzioso, perfettamente in linea con la loro estetica) ovvero la dissoluzione controllata dell’identità come ultimo atto artistico. I Gorillaz crearono invece una band fittizia, tramite una collaborazione reale incarnata da avatar disegnati, laboratorio di autorialità distribuita. Hatsune Miku, popstar virtuale giapponese, rappresenta la logica estrema del performer sintetico, interamente gestito da software e pubblico.
Taylor Swift compie comunque un passo diverso, in quanto non sostituisce se stessa con un avatar, ma integra l’artificio nel proprio corpo simbolico, in cui l’IA agisce senza realizzare maschere, ma come filtro invisibile che uniforma, corregge e ricodifica l’immagine.
L’artista rimane riconoscibile, ma diventa algoritmicamente mediata, cioè un volto reale trattato come superficie di calcolo in un’evoluzione del controllo estetico che si spinge oltre il travestimento per andare verso la simulazione.
Copyright e dataset: l’estetica Swift come materiale di addestramento
Il vero nodo tecnico-giuridico è la circolazione dell’immagine dell’artista nei dataset di addestramento, non tanto l’uso dell’AI in sé. Molti modelli generativi visivi (da Stable Diffusion a Midjourney) si basano infatti su raccolte di immagini estratte dal web, spesso senza consenso né licenza: ciò significa che milioni di fotografie, loghi, pose, pattern cromatici diventano materia prima per la generazione di nuovi contenuti.
Il Parlamento europeo, nel rapporto Generative AI and Copyright (2025), ha chiarito che la libertà di “text and data mining” non può giustificare lo sfruttamento di opere protette senza esplicita autorizzazione; allo stesso tempo, l’AI Act europeo, ormai in via di piena applicazione, impone agli sviluppatori di modelli generativi obblighi di documentazione delle fonti e tracciabilità dei dataset (art. 53).
Resta tuttavia un’area problematica: se un modello è stato addestrato su immagini di Taylor Swift, e poi genera nuovi volti o videoclip che ne imitano l’estetica, si tratta di violazione del diritto all’immagine o di uso lecito a fini artistici? In mancanza di giurisprudenza consolidata, l’ambiguità permane, ma alcune cause, come Getty Images vs Stability AI, indicano che la riproduzione anche parziale di opere protette nei dataset può configurare violazione.
L’incertezza è dovuta anche al fatto che i modelli diffusi online operano in spazi giuridici transnazionali, difficili da controllare.
Nel caso Swift, la stessa artista che difende la proprietà intellettuale rischia di vedere la propria estetica “addestrata” da altri, frammentata in migliaia di immagini sintetiche che ne imitano tratti visivi e narrativa iconografica. Il volto di Swift diventa così un marchio commerciale e un pattern computazionale replicabile, concretizzando una nuova forma di rischio reputazionale, in cui l’immagine è intesa come dato e l’identità come modello generativo.
Autorialità e costruzione collettiva del mito
Il tema dell’autorialità diventa centrale poiché emerge la questione di chi sia effettivamente autore di un’immagine generata dall’IA dal momento che la normativa europea riconosce la protezione d’autore solo alle opere frutto di “creatività umana” e produzioni interamente algoritmiche ne restano quindi escluse.
Eppure, nella pratica, le immagini e i video creati da IA sono spesso il risultato di un processo ibrido in cui un prompt designer formula un’istruzione, la macchina genera, un operatore umano seleziona, modifica e post-produce, in un modello noto come “human in the loop” che integra la componente umana nel ciclo generativo.
Andrebbe però definita quale sia la soglia di intervento necessaria perché l’opera sia considerata “umana”. Se si pensa a un video di Swift realizzato fornendo prompt e stili, ma il risultato visivo proviene in gran parte dalla rete neurale, occorre stabilire se il diritto d’autore spetti al designer, alla piattaforma, all’artista o a nessuno di questi.
La mancanza di una definizione univoca genera incertezza contrattuale, così le etichette discografiche, per cautelarsi, inseriscono clausole che attribuiscono la titolarità di ogni contenuto “derivante da elaborazione automatizzata” alla società di produzione e
l’artista rischia di perdere il controllo giuridico su parte della propria rappresentazione.
Nel caso Swift l’autorialità è anche un fenomeno culturale oltre che di autorialità, in quanto
il suo mito nasce da una regia condivisa tra artista, team di comunicazione, designer, e pubblico e sono i fan che decodificano indizi, partecipano alle narrative, contribuiscono alla mitologia visiva. In questa prospettiva, l’immagine non appartiene più all’artista diventando un oggetto collettivo, costruito, commentato e aggiornato da un ecosistema di soggetti umani e algoritmici.
Autenticità e inganno percettivo nel marketing culturale
L’autenticità, nel mercato dell’intrattenimento, è un valore economico e quando un artista comunica vulnerabilità, sincerità o impegno, crea un rapporto fiduciario con il pubblico; tuttavia, se quella stessa autenticità viene costruita o manipolata con strumenti di generazione automatica, il rischio è etico e commerciale più che estetico.
L’AI Act europeo introduce l’obbligo di etichettare i contenuti generati o modificati da IA (art. 52), salvo eccezioni per arte e satira, ma la linea tra opera d’arte e contenuto promozionale è tutt’altro che netta. Basti pensare ad una campagna pubblicitaria che impiega elementi IA non dichiarati, può configurare pratica commerciale ingannevole ai sensi della Direttiva 2019/2161 e del Codice del Consumo italiano e l’inganno è dovuto alla asimmetria informativa: il pubblico crede di osservare un contenuto autentico quando in realtà è manipolato. Sempre l’AI Act (art. 54) estende la responsabilità sull’uso dell’intelligenza artificiale anche agli effetti comunicativi e reputazionali dei contenuti generati (accountability).
Non di poco conto è, in questo frangente, il fatto che la cantante abbia ha più volte condannato l’uso dei deepfake non consensuali e rivendicato il diritto degli artisti a controllare la propria immagine, in quanto, quando l’IA entra volontariamente nella sua strategia di marketing, la distinzione fra vittima e utilizzatrice si fa sfumata.
La figura pubblica della “popstar etica” si sovrappone a quella di un marchio computazionale, progettato per mantenere costanza e consenso. In questa sovrapposizione si consuma il rischio più sottile: un’artista che si presenta come autentica, ma è governata da una logica di ottimizzazione visiva, finisce per confondere il vero con il performativo.
Nel mercato globale dell’influenza digitale, dove ogni emozione è monetizzata, la distinzione tra spontaneità e simulazione diventa un problema di diritto e di fiducia e la trasparenza richiesta dall’AI Act diventa una garanzia di integrità comunicativa. Una possibile misura tecnica di mitigazione è rappresentata dall’introduzione delle AI transparency label, etichette digitali pensate per rendere riconoscibili i contenuti generati o modificati da algoritmi e per ridurre il rischio di inganno percettivo nei confronti del pubblico.
L’etica dell’immagine generativa e del mito programmato
L’uso dell’intelligenza artificiale nella costruzione dell’immagine artistica solleva un tema più profondo in merito a chi decide che cosa è reale quando l’immagine è perfettamente costruita. L’artista del passato poteva scegliere una maschera, un’estetica, un’icona, ma il gesto restava umano, interpretabile, vulnerabile, mentre l’IA introduce un livello di programmazione che tende ad eliminare la contingenza visto che l’immagine “generata” è ottimizzata per piacere, testata su dati, calibrata su metriche di engagement.
La perfezione, in questo contesto è segno di puro controllo e l’artista diventa un dispositivo di efficienza comunicativa, un marchio adattivo capace di assorbire ogni tendenza e restituirla sotto forma di coerenza visiva. Taylor Swift incarna questo processo come nessun’altra figura pop contemporanea avendo attraversato generi musicali, epoche culturali e ruoli pubblici con precisione ingegneristica e, ora, l’ingresso dell’IA nel suo ecosistema estetico rappresenta il completamento di una traiettoria, cioè la trasformazione dell’artista in codice.
In ultima analisi, il caso Swift mostra che la distinzione tra artista e algoritmo è già parte del funzionamento ordinario del mercato culturale in cui l’arte non imita più la vita, ma la addestra e Taylor Swift è, finora, il suo esperimento più riuscito.












