L’AI-first company è diventata un’espressione ricorrente nel dibattito sull’innovazione, ma spesso utilizzata in modo superficiale. Comprendere cosa significhi realmente adottare questo approccio richiede di andare oltre la retorica e analizzare come l’intelligenza artificiale possa trasformarsi da strumento tecnologico a leva strategica capace di ridefinire l’architettura organizzativa.
Un termine inflazionato rischia di perdere significato proprio quando diventa più rilevante per il futuro della competizione globale.
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Le parole d’ordine dell’innovazione e il rischio della retorica
Il linguaggio dell’innovazione, infatti, è caratterizzato da una saturazione ciclica di parole che si impongono nel lessico mediatico, ma senza radicarsi, già destinate ad una scadenza anticipata, determinata dall’ingresso in scena della nuova parola alla moda.
“Disruption”, “gamification”, “customer centricity”, tra le tante: concetti che campeggiano temporaneamente sulle prime pagine, che attraversano convegni, che popolano boardroom e report istituzionali, troppo spesso in modo improprio o superficiale, fino a logorarsi nell’uso. Tra questi, l’espressione AI-first company è forse l’ultima a trovare risonanza. Molto citata, spesso evocata, molto raramente spiegata realmente.
Il rischio, anche questa volta, è evidente: trasformare un concetto strategico, potenzialmente fondamentale per l’architettura organizzativa di un’azienda e per il futuro del mercato, in una formula retorica. Certamente utile per rassicurare investitori e stakeholder, ma incapace di orientare, guidare o ispirare scelte rilevanti. Eppure, al di là della retorica, se proviamo ad interrogare il concetto, a chiederci davvero cosa significhi, ci accorgeremo di quanto non sia semplicemente possibile ricondurre l’AI-first company ad una “azienda che usa l’intelligenza artificiale”. Dobbiamo piuttosto ripensare, alla base, il rapporto tra dati, conoscenza dell’organizzazione, potere e processi decisionali.
Quando, nel 2016, Sundar Pichai aveva annunciato, in una lettera agli shareholders, il passaggio da un mondo mobile-first a un mondo AI-first, aveva precorso ampiamente i tempi, lasciando già presagire una traiettoria che, nel corso degli anni, si sarebbe fatta sempre più chiara. L’AI, oggi più che mai, non può più essere considerata come un supporto tecnico, ma deve essere concepita ed utilizzata come una lente strategica, capace di abilitare nuove prospettive, nuovi livelli di conoscenza e di interpretazione, e nuovi filtri attraverso cui possiamo ripensare prodotti, servizi, modelli organizzativi. Data la complessità degli scenari geo-economici in cui viviamo, è un cambio di paradigma che riguarda tanto la competitività industriale quanto l’autonomia strategica, tanto le metriche di efficienza quanto i processi cognitivi collettivi.
Chiedersi oggi cosa significhi – davvero – parlare di AI-first non è quindi semplicemente un esercizio semantico, ma è un vero e proprio atto strategico, politico ed economico. Definire che cos’è un’AI-first company significa stabilire quali vogliamo che siano gli orizzonti, gli attori e le regole del gioco nella competizione globale dei prossimi decenni.
Prospettive strategiche e modelli di interpretazione
Che cos’è, dunque, un’AI-first company? Non è sufficiente – né, forse, utile – cercare una definizione univoca, ma certamente è importante riflettere sulle diverse possibili prospettive con cui un’organizzazione sceglie di concepire il rapporto tra tecnologia, persone e mercato. Le parole, qui, assumono evidentemente un peso variabile, correlato al mindset strategico di ogni contesto di governance aziendale: chiamare “AI-first” un’impresa può significare considerare l’AI come leva di efficienza, o come architettura di apprendimento, o ancora come infrastruttura cognitiva collettiva. Ogni interpretazione apre, in maniera fisiologica, scenari diversi di competitività e governance. Per questo interrogarsi sulle definizioni non deve essere percepito come un mero esercizio di stile, ma come il punto di partenza, per analizzare e capire le direzioni che le aziende stanno cercando di tracciare nel nuovo ciclo industriale e nei nuovi scenari di competizione.
Per Ash Fontana, autore del volume The AI-First Company (Penguin, 2021), la condizione differenziante risiede nei cosiddetti Data Learning Effects, effetti di apprendimento che si autoalimentano grazie ai dati. Le AI-first company sono quindi quelle che hanno scelto di costruire un vantaggio competitivo strutturale, trasformando l’informazione in intelligenza, moltiplicando il valore di ogni nuovo dato in un ciclo virtuoso di apprendimento continuo. Non più soltanto un sistema di economie di scala, o i già noti network effects, ma un nuovo tipo di vantaggio, fondato sulla capacità di imparare prima e meglio dei concorrenti.
Sul piano strategico, gli studiosi Mika Ruokonen e Paavo Ritala, nell’articolo How to succeed with an AI-first strategy? (Journal of Business Strategy, Vol. 45, Issue 6, 2024) propongono tre modelli – definiti significativamente “archetipi” – di AI-first strategy:
- I digital tycoons (Google, Amazon, Spotify), giganti che dominano grazie a enormi flussi di dati e algoritmi in grado di alimentare flywheel auto-rinforzanti.
- I niche carvers, startup verticali che sviluppano algoritmi unici in domini specifici (diagnostica medica, linguistica, robotica), scalando dal focus specialistico a mercati globali.
- Gli asset augmenters, imprese manifatturiere o industriali che innestano AI nei propri asset fisici (macchine, impianti, infrastrutture), trasformando l’operatività in vantaggio informativo.
Tre approcci diversi, evidentemente, ma accomunati dalla stessa logica, e dalla volontà di rimettere l’AI al centro dell’architettura strategica, modificando alla base la concezione stessa delle organizzazioni e dei modelli di business.
Oltre il marketing: i requisiti di un’azienda autenticamente AI-first
Molti analisti, però, cominciano ad evidenziare il rischio di ridurre tutto a marketing, in assenza di un vero pensiero in grado di cogliere ed interpretare correttamente la complessità di un processo di adoption sostanziale dell’AI. Se è stato pressoché fisiologico arrivare a parlare di AI-washing, dovremmo oggi definire come AI-first washing il comportamento di tutte quelle aziende che, semplicemente integrando un chatbot o un algoritmo predittivo, decidono di proclamarsi – e di vendersi – come AI-first, senza mutare realmente processi, governance, modelli organizzativi o di business. Eccoci arrivati, quindi, al nodo fondamentale: essere AI-first non significa possedere sistemi di AI, ma trasformare l’AI in leva prioritaria di creazione di valore, fino a ridefinire, in maniera più o meno strutturale, la stessa cultura dell’impresa.
Per sintetizzare in modo parziale, potremmo dire che una AI-first company può essere considerata tale solo se:
- mette l’AI al cuore della propria value proposition, e non in una posizione marginale, integrativa o di potenziamento;
- sviluppa un vantaggio unico, definito, incorporato nell’architettura organizzativa e nell’ecosistema cognitivo, nell’uso combinato di dati, algoritmi ed execution;
- traduce questo vantaggio in un nuovo modello organizzativo, capace di apprendere e adattarsi più velocemente della concorrenza.
Dopo oltre un decennio d’esperienza nel settore dello sviluppo dell’AI, e dopo aver visto decine di casi di adoption e di integrazione dell’AI da parte di aziende e organizzazioni molto eterogenee, credo, però, che il tema sia molto più profondo, e molto più sfidante.
Dall’efficienza operativa all’infrastruttura cognitiva
Troppo spesso l’intelligenza artificiale viene ridotta a un mero strumento tecnologico di efficienza, relativo alla riduzione dei costi, all’automazione dei processi o all’accelerazione delle operazioni. Certamente una lettura corretta, innegabile, ma fortemente limitante, che induce a concepire l’AI semplicemente come una leva tattica. Una vera AI-first company, invece, è chiamata a compiere un salto qualitativo, dal punto di vista culturale e dal punto di vista strategico: non concepisce, né utilizza l’AI solamente come una tecnologia per “spremere” i dati, ma la trasforma in un’infrastruttura cognitiva, che moltiplica la capacità dell’organizzazione di abilitare l’intelligenza diffusa, di far emergere la conoscenza implicita, di interpretare scenari complessi, acquisendo la capacità co-intelligente di prendere decisioni più robuste e generare nuove possibilità di innovazione. L’AI non può quindi diventare leva di sviluppo e di evoluzione sistemica, se non viene integrata con le competenze umane, con processi inclusivi e con metriche che permettano di misurare non solo gli output, ma l’evoluzione della capacità di apprendere e adattarsi.
Azioni concrete per una trasformazione autentica
Tradurre questa visione in pratica significa adottare alcune scelte concrete e misurabili.
- Riprogettare i processi decisionali, per favorire la partecipazione diffusa, usando l’AI non come un acceleratore o una scorciatoia, ma come un supporto alla valorizzazione dell’informazione diffusa e del confronto critico.
- Investire in “human capital readiness”, cioè programmi di formazione che permettano di uscire dalla semplice acquisizione di competenze d’uso – necessarie – ma che favoriscano lo sviluppo di competenze di evoluzione di mindset e di attivazione della co-intelligenza (per semplificare: non si deve imparare a usare l’AI, ma a chiedersi come ripensare il lavoro, con l’uso dell’AI).
- Rendere trasparenti i processi decisionali co-definiti dall’AI, con modelli di governance che consentano a team e stakeholder di comprendere come e perché l’AI influisce sui processi analitici, interpretativi, valutativi e sulle decisioni.
- Valutare costantemente le performance e le trasformazioni che ne derivano, non solo in termini di produttività immediata, ma in generale di miglioramento della qualità decisionale, della capacità di innovazione e della resilienza organizzativa.
Così intesa, non si riduce quindi semplicemente ad un’impresa che opera più velocemente, ma ad una che orchestra, abilita e valorizza le proprie intelligenze – umane e artificiali – per generare nuovi spazi di apprendimento, crescita continua e competitività. In questo senso, come abbiamo cercato di mostrare, l’AI-first company non si limita a “fare meglio le stesse cose”, ma inventa nuove modalità di creare valore, perché sa comprendere e trasformare ogni interazione – con i clienti, con i mercati, con i dati- in occasioni di apprendimento strategico. Ed è proprio questo il vero salto culturale: la possibilità di passare da un’impresa che utilizza la tecnologia per acquisire vantaggio competitivo, a un’impresa che utilizza la tecnologia per cambiare le regole stesse della competizione.













