Il futuro del lavoro non si gioca sulla quantità di tempo impiegato, ma sul senso prodotto. In un’epoca di trasformazione digitale e intelligenza artificiale, la concezione stessa di lavoro sta cambiando: da mera esecuzione di compiti a creazione condivisa di conoscenza e significato.
Questa rivoluzione richiede di recuperare l’antica sapienza che vedeva nel lavoro un’opera (ergon), non solo fatica (labor).
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Dal labor all’ergon: le due anime del lavoro
“Lavoro” è una parola che attraversa la storia dell’uomo, oscillando tra significati diversi. Nelle lingue neolatine, “labor”, come “travaille”, evoca la sofferenza; in tedesco arbeit si riferisce alla condizione servile; in greco douleia indica la schiavitù.
Ma accanto a questi significati ne esiste un altro, più alto: ergon, il lavoro come opera, come atto creativo. Il pendolo tra queste due concezioni – il lavoro come costrizione, dai tempi della Genesi, e il lavoro come creazione – ha scandito la storia economica e politica. La divisione tra pars cogitans e pars laborans, ha portato nell’era industriale a concepire l’uomo come ingranaggio di un sistema, e la misura del valore si è confusa con il costo. Come ricordava Charles Péguy in L’Argent (1914): “Un tempo gli operai non erano servi. Lavoravano. Coltivavano un onore…
La gamba di una sedia doveva essere ben fatta, non per il salario, né per il padrone, ma per sé, nella sua stessa natura.” Peguy stava scrivendo alla vigilia della Seconda Rivoluzione Industriale, la quale, nel tentativo di massimizzare l’efficienza, avrebbe marginalizzato questa etica artigiana. Ma oggi, di fronte alla crisi ambientale, sociale ed epistemica, il lavoro può tornare a essere opera: un atto di creazione condivisa. La tecnologia adatta si sta rendendo disponibile.
Nel digitale infatti, ancor più rilevanti dei dati resi disponibili dai processi digitalizzati, diventano gli incroci tra questi dati, in grado di far emergere realtà altrimenti non visibili. Proprio questa possibilità di confronto e contaminazione fra tracce digitali, molto più diretta di quella immaginabile tra eventi fisici, crea un effetto di proliferazione molto veloce e non pianificabile. Dobbiamo però cambiare la nostra visione del mondo e liberare il nostro pensare.
Keynes e la scholè: libertà e arte della vita
Nel 1930 John Maynard Keynes tenne a Madrid la conferenza Prospettive economiche per i nostri nipoti, in cui prefigurava che, entro un secolo, l’uomo avrebbe risolto il problema economico, trovandosi di fronte alla vera sfida: usare la propria libertà. “Ma saranno solo coloro che sanno tenere viva e portare a perfezione l’arte stessa della vita, e che non si vendono in cambio dei mezzi di vita, a poter godere dell’abbondanza quando verrà.” A quasi un secolo da quella previsione, il problema è ancora lo stesso: il tempo risparmiato grazie alla tecnologia è stato riempito dalla crescita dei consumi nell’economia di massa. Se oggi sapremo recuperare la capacità di integrare pensiero ed esecuzione in un unico processo creativo, le nuove dimensioni connettive di cui disponiamo aprono a possibilità straordinarie, fino alla riconquista di quello stato che era la scholè greca – otium in latino: non l’ozio passivo, ma la condizione libera in cui si esplorano i potenziali inespressi dell’essere umano. Aristotele la definiva come la dimensione più alta della vita, in cui la mente (nous) e la comunità trovano armonia (homonoia): la concordia del pensiero che fonda la polis. Thorstein Veblen, nei primi del Novecento, ne offrì l’antitesi: il tempo libero. Ma per Aristotele la scholè non è tempo libero: è condizione biologica e politica della libertà. Il futuro del lavoro, quindi, non è la semplice liberazione dal lavoro, ma il suo ritorno al senso originario di creazione e conoscenza.
Lavoro come creazione
L’industrialismo ha costruito sistemi chiusi, allopoietici – generati da logiche esterne ai soggetti che li abitano. La digitalizzazione, al contrario, permette di produrre sistemi autopoietici – capaci di rigenerarsi dall’interno attraverso la connessione continua con l’esterno, membrane osmotiche in cui si genera apprendimento e senso condiviso. Anzi li produce a prescindere dalle intenzioni umane. Nei sistemi chiusi, il valore è generato dal processo di produzione (product-making), definito in modo deterministico. Nei sistemi aperti, il valore nasce dalla creazione di senso (sense-making), emergente in modo non deterministico.
La compressione dello spazio-tempo digitale riduce il valore dei processi diacronici (produzione-consumo) e sposta il baricentro verso l’immateriale: conoscenza, reputazione, significato. L’intelligenza artificiale e le piattaforme digitali amplificano questa tendenza, collegando in tempo reale saperi taciti e conoscenze esplicite, generando innovazione in modo serendipico e discontinuo. Ma se non recuperiamo l’integrazione tra pensiero ed esecuzione, tra cogitans e laborans, rischiamo una società dominata da flussi automatici di dati, dove gli individui si riducono a “produttori di informazione” etero-diretti. La cultura a cui tendere è opposta: la consapevolezza dell’enaction, dell’inseparabilità di pensiero e azione, in cui apprendimento e lavoro coincidono in processi di creazione continua.
Dall’employment all’engagement
Nel nuovo contesto, il rapporto tra individuo e impresa non è più definibile come employment – esecuzione di mansioni – ma si configura come engagement – partecipazione generativa a un ecosistema di senso. Le catene del valore si trasformano:
- il terminale non è più il “consumatore”, ma la comunità che condivide cultura e valori;
- il valore stesso non risiede più nel prodotto, ma nella relazione che lo genera;
- l’impresa diventa piattaforma di apprendimento reciproco, non solo di produzione. Si chiude così il cerchio: la Gesellschaft industriale, basata sulla conoscenza esplicita e algoritmica, lascia spazio a una Gemeinschaft produttiva di significato, alimentata dal sapere tacito e dalle connessioni vitali tra persone, territori e culture. In questo senso, il capitale cognitivo diventa la nuova infrastruttura dello sviluppo: non capitale accumulato, ma conoscenza condivisa e continuamente rigenerata.
La transizione verso i capitali cognitivi
Il nuovo orientamento dei capitali finanziari richiede un nuovo sistema dei capitali cognitivi. La conoscenza non è più una filiera lineare, ma una rete evolutiva, in cui dati e valori si informano a vicenda. La scuola e l’università devono cessare di essere preparazione al lavoro per diventare laboratori permanenti di apprendimento e immaginazione.
L’educazione life-long diventa una condizione esistenziale: non basta conferire competenze, ma capacità di interpretare e creare mondi, perché l’obsolescenza delle competenze è diventata molto più veloce dei processi della loro acquisizione. “L’architetto di sistemi di conoscenza, il nuovo maître d’œuvre, guida dall’alto lo sviluppo di un lavoro realizzativo, ma se ne fa anche guidare, lasciando che le possibilità evolutive emergano dallo sciame di agenti.” Il compito delle istituzioni è accompagnare questa transizione: traghettare le persone dai sistemi chiusi del lavoro industriale ai sistemi aperti dell’engagement cognitivo, dove l’organizzazione governa non il determinato, ma l’imprevedibile.
In questa prospettiva, l’innovazione sociale non è un accessorio filantropico, ma una necessità strategica per la sostenibilità economica. Ogni sviluppo reale è un atto di apprendimento collettivo.
Verso un’economia poietica
Viviamo già dentro una tecnosfera che si intreccia con la biosfera e la noosfera: la tecnologia non è più un mezzo, ma il contesto stesso della vita. Ma come il clima, essa non si controlla: ci si adatta, la si orienta, le si dà senso. Per questo, il futuro del lavoro non può essere ridotto a un problema di occupazione. È una questione culturale e ontologica: come l’umanità sceglie di impiegare la propria libertà, la propria meraviglia, il proprio desiderio. L’otium, nel suo senso originario, non è l’inattività, ma l’atto creativo che genera civiltà. L’Eros, non l’utilità, è la vera forza generativa di ogni prosperità. “Saremo a un passo dal capire – scriveva Keynes – che il vero problema dell’uomo non è lavorare per vivere, ma imparare a vivere per creare.” In questo passo risiede la soglia della nuova civilizzazione: un mondo in cui il lavoro non misura il tempo impiegato, ma il senso prodotto.











