La relazione tra data center AI e occupazione sta emergendo come uno dei nodi critici della trasformazione digitale. Mentre i governi competono per attrarre investimenti delle big tech promettendo migliaia di posti di lavoro, i dati reali raccontano una storia diversa: infrastrutture massive che generano potenza di calcolo ma pochissima occupazione permanente. Il caso cileno offre uno spaccato paradigmatico di questa dinamica.
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Le promesse tradite: da 81mila a 1.500 posti reali
Secondo le dichiarazioni ufficiali, i nuovi data center di Microsoft e Google in Cile avrebbero dovuto generare migliaia di posti di lavoro. Nel giugno scorso, il presidente Gabriel Boric aveva annunciato che il cluster “iperscalabile” di Microsoft avrebbe creato oltre 81.000 occupati. Una cifra che sembrava il segnale di un cambio di passo per un Paese con un tasso di disoccupazione superiore all’8% dal 2023. Ma i documenti ufficiali raccontano tutt’altro.
Secondo un’analisi di Rest of World, basata sui permessi edilizi e sulle valutazioni ambientali dei progetti, i 17 data center avviati in Cile dal 2012, inclusi quelli di Google e Microsoft, genererebbero solo 1.547 posti di lavoro permanenti. In media, meno di 100 persone per sito, la maggior parte impiegata in sicurezza e pulizie. Il resto delle posizioni “annunciate” rientra nella categoria degli impatti indiretti, stime modellate da società di consulenza come IDC o Deloitte, che moltiplicano i numeri includendo l’indotto e le occupazioni temporanee legate ai cantieri.
Project Iceberg: l’11,7% dei salari USA a rischio automazione
Dietro la promessa di migliaia di nuovi posti di lavoro legati all’intelligenza artificiale si nasconde una tendenza strutturale che comincia ad emergere con chiarezza: la crescita dell’AI non coincide necessariamente con una crescita dell’occupazione. Un’analisi del MIT, pubblicata nel 2025 con il titolo Project Iceberg, ha modellato oltre 150 milioni di lavoratori e 13.000 strumenti di intelligenza artificiale per misurare quanto le diverse mansioni siano “esposte” all’automazione. Il risultato è che circa l’11,7% del valore salariale dell’economia statunitense si trova oggi nella parte “sommersa” dell’iceberg, quella più vulnerabile alla sostituzione tecnologica.
Il report non misura direttamente la perdita di posti di lavoro, ma descrive un fenomeno più sottile: una trasformazione silenziosa dei ruoli, in cui le attività a basso contenuto cognitivo o ripetitivo vengono progressivamente assorbite dagli algoritmi. A valle di questa tendenza, un altro segnale arriva dal mondo del lavoro tecnologico. Nel suo State of Tech Talent Report 2025, il fondo di venture capital SignalFire registra un crollo del 50% nelle assunzioni di profili entry-level rispetto al periodo pre-pandemia. Le imprese tech assumono meno neolaureati e junior, proprio perché molte funzioni di analisi, scrittura, testing e progettazione di base sono oggi gestite da sistemi di AI generativa.
Come osservano gli autori del rapporto, “AI gets a lot of blame for wiping out junior roles post-2022”, l’intelligenza artificiale diventa così il fattore abilitante di una nuova polarizzazione del lavoro, dove il valore si concentra in poche competenze senior e nell’integrazione strategica dei sistemi.
Questa dinamica alimenta ciò che gli economisti definiscono jobless growth, una crescita economica senza crescita occupazionale, già segnalata da Goldman Sachs e dal World Economic Forum come possibile effetto collaterale della diffusione dell’AI. L’economia cresce, i margini aziendali aumentano, ma i nuovi posti di lavoro non si materializzano nella stessa misura. È un cambiamento profondo, che separa per la prima volta in modo visibile la curva della produttività da quella dell’occupazione.
Lavoro cognitivo e infrastrutture: la stessa frattura digitale
Il paradosso non riguarda solo le fabbriche dell’intelligenza artificiale, ma anche gli uffici, i laboratori e le piattaforme digitali. Là dove l’AI entra in modo massiccio, la crescita tende a concentrarsi senza distribuire occupazione.
Nel mondo del lavoro cognitivo, come mostrano i dati di SignalFire, le posizioni junior stanno scomparendo: l’automazione delle attività ripetitive e l’uso di strumenti generativi riducono la necessità di personale d’ingresso. Nella dimensione industriale, lo stesso accade con i data center: giganteschi poli tecnologici che producono valore e potenza di calcolo, ma pochissimi posti di lavoro diretti. In entrambi i casi, il denominatore comune è la sostituzione della forza lavoro con l’infrastruttura digitale: nei servizi, con software e modelli linguistici; nell’industria, con server e sistemi automatizzati. Il risultato è una nuova economia che cresce in valore ma non in occupazione, e che sposta la ricchezza dalle persone verso il capitale tecnologico.
Transizione verde senza benefici locali: il caso Quilicura
Per attrarre investimenti, il governo cileno ha puntato sulla retorica della transizione verde. I data center vengono presentati come infrastrutture sostenibili, alimentate da fonti rinnovabili e quindi compatibili con l’obiettivo della decarbonizzazione. Ma la realtà è più complessa. Molti di questi impianti si trovano in aree densamente popolate come Quilicura, vicino a Santiago, dove i residenti denunciano l’impatto su acqua ed energia. La stessa ricercatrice Paz Peña, senior fellow Mozilla, parla di “bolla occupazionale” e di scarsa trasparenza sull’uso delle risorse idriche. Si ripete così lo schema visto anche in Europa: infrastrutture energivore, incentivi pubblici, pochissimi benefici locali. Il paradosso “green” si somma a quello occupazionale.
Chi possiede davvero i data center: il nodo della sovranità
Il caso cileno è anche un caso geopolitico. Ospitare i data center delle big tech significa esternalizzare la sovranità digitale. I Paesi forniscono terra, energia e agevolazioni fiscali, ma non possiedono né i dati né le tecnologie. La ricchezza prodotta è altrove: nelle sedi di Seattle o Mountain View. Questo tema riguarda da vicino anche l’Europa. Mentre Bruxelles discute di Compute Sovereignty e l’AI Act entra in una fase di rallentamento sotto le pressioni di Big Tech, la realtà è che la maggior parte delle infrastrutture AI europee dipende ancora da fornitori americani o asiatici. I data center europei, come quelli cileni, sono hub di calcolo ma non di valore.
Incentivi fiscali e modelli econometrici: quando i numeri ingannano
Molti governi competono a colpi di esenzioni fiscali per attrarre data center, replicando il modello già sperimentato in Irlanda e Paesi Bassi: infrastrutture massicce, poco lavoro, alta domanda energetica. Gli economisti avvertono: gli effetti “moltiplicativi” calcolati dai modelli econometrici sono simulati, non osservabili. Il rapporto di IDC che attribuisce a Microsoft oltre 81.000 posti di lavoro “generati” in Cile, per esempio, si basa su un modello che presume che il risparmio sui costi IT venga reinvestito in nuove assunzioni. Una dinamica che raramente si verifica. Come nota l’economista Diego Cortés, “non si può assumere che la diffusione dei servizi cloud crei automaticamente domanda di lavoro reale”.
Deindustrializzazione digitale: territori senza valore aggiunto
I data center, motori invisibili dell’AI, rappresentano la fase industriale senza manifattura. Creano valore astratto, distribuito globalmente, ma lasciano nei territori poca occupazione, alto consumo di risorse e nuove disuguaglianze. Nel lungo periodo, questo modello rischia di riprodurre una deindustrializzazione digitale: Paesi che ospitano infrastrutture senza partecipare al ciclo di valore dei dati e dell’intelligenza artificiale.
L’Italia e l’Europa, oggi impegnate in piani di cloud nazionale e infrastrutture AI-ready, dovrebbero chiedersi chi beneficia realmente di questi investimenti: i cittadini, le imprese locali, o le piattaforme globali?
Verso ecosistemi di competenze, non solo infrastrutture
Il caso cileno non è un’eccezione, ma un anticipo del futuro. L’intelligenza artificiale si fonda su infrastrutture che generano potenza di calcolo, non occupazione. La corsa alla “nuova industria digitale” rischia di produrre, ancora una volta, una crescita senza lavoro, una modernità senza redistribuzione, un progresso che non passa dalle persone. La vera sfida non è costruire data center ma costruire ecosistemi di competenze e forme di sovranità tecnologica capaci di generare valore umano attorno alle macchine.














