Hanno fatto scalpore nelle scorse settimane le vendite allo scoperto di Michael Burry nei confronti di Nvidia e Palantir; in tono minore, i 100 milioni di azioni Nvidia venduti ieri da Peter Thiel. Di fatto, una scommessa contro due azioni simbolo e, nella loro diversa scala, tra le aziende USA di maggior successo nel campo dell’intelligenza artificiale (IA).
Non si tratta peraltro di un gesto passato inosservato dato che Burry è uno dei principali finanzieri che sul finire del primo decennio di questo secolo innescò la crisi dei mutui sub-prime e la peggiore recessione globale in tempo di pace dalla grande crisi del 1929. Le gesta e la fama che ne guadagnò furono talmente altisonanti da fargli meritare al botteghino un ruolo da protagonista, interpretato da Christian Bale, nel film di grande successo The Big Short, tratto dall’omonimo libro di Michael Lewis.
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Bolla finanziaria dell’intelligenza artificiale, primi segnali dai mercati
Gli effetti si sono fatti sentire, riducendo la capitalizzazione di borsa di Nvidia di 350 miliardi di dollari e quella di Palantir di quasi 50 e inducendo il CEO di quest’ultima, Alex Karp, a contrattaccare in televisione definendo la propria impresa la principale azienda software degli Stati Uniti in termini di impatto positivo e dunque accusando di fatto Burry di scarso patriottismo.
Nei giorni scorsi, il Financial Times riportava anche il nervosismo di Sebastian Siemiatkowski, co-founder e CEO di Klarna, la fintech UE di maggior successo, nonché investitore in molte aziende tecnologiche, rispetto agli enormi investimenti in data center da parte delle Big Tech.
Gli investitori tra paura e opportunità dell’IA
Cosa preoccupa maggiormente gli investitori. In realtà è bene precisare che al momento non tutti gli investitori sono preoccupati. Per esempio, di recente, proprio a valle delle operazioni condotte da Burry, che peraltro ha annunciato nel frattempo la chiusura del proprio fondo, Berkshire Hathaway ha annunciato l’acquisto di azioni Alphabet (che ha in pancia Google) per un controvalore di 4,3 miliardi di dollari.
Anche in questo caso, al di là delle cifre elevate, a non passare inosservato è stato che Berkshire Hathaway è la holding di partecipazioni finanziarie di Warren Buffett. Ed è un po’ paradossale che mentre si parla di bolla dell’IA, lo speculatore investa contro aziende AI-driven mentre l’investitore di lungo termine ci metta i suoi soldi.
Valutazioni elevate e investimenti in data center
In ogni caso, a preoccupare alcuni osservatori, più che il rapporto elevato tra il prezzo delle azioni e gli utili, classico indicatore che è senz’altro a livelli elevati per molte delle aziende in questione ma pur sempre paragonabile ad altri momenti storici, è la scala degli investimenti di capitale che le aziende tecnologiche stanno sostenendo a fronte di ricavi che, pur in aumento, potrebbero non crescere a livelli sufficienti per giustificarli.
Secondo un recente rapporto di Morgan Stanley, si prevede che le grandi aziende tecnologiche possano spendere 2,9 trilioni di dollari entro il 2028, finanziandone neppure la metà con la propria liquidità. Non è un caso che negli ultimi mesi siano esplosi il ricorso al mercato obbligazionario da parte delle Big Tech, che già a novembre avevano emesso più di 100 miliardi di dollari, gran parte dei quali da settembre in poi, mentre negli anni precedenti non avevano neppure avvicinato la soglia dei 50 miliardi.
A risentirne è il cash flow, crollato dai livelli stellari raggiunti negli ultimi anni.
Secondo alcune stime, se a fronte di questi enormi investimenti in data center, chip e infrastrutture per alimentare l’IA, i ricavi non dovessero crescere fino a un valore annuale di 600 miliardi di dollari il banco potrebbe saltare. Ed oggi ci troviamo molto distanti da questi valori.
OpenAI, l’azienda che ha l’app IA di maggiore successo, almeno sul mercato retail, per numero di utenti dovrebbe chiudere l’anno con ricavi ricorrenti di 20 miliardi di dollari. Anche se Sam Altman ha dichiarato che nel 2030 genererà ricavi per alcune centinaia di miliardi, al momento non ci sono certezze sul fatto che questo potrà accadere.
Anche perché cresce nel frattempo la concorrenza dei rivali americani ma anche dei modelli open source cinesi e altri Paesi sperano di entrare nella sfida, se non altro per motivi di sovranità tecnologica.
Finanza creativa e valore del collaterale
Altri due fattori di preoccupazione sono più tecnici ma vanno considerati nel conteggio complessivo.
In primo luogo, cresce il numero di aziende tecnologiche che, per non subire contraccolpi nei propri bilanci, ricorre a strumenti di finanza creativa, per loro natura opachi. Siamo ancora molto lontani dalla situazione vista ai tempi delle cartolarizzazioni dei mutui sub-prime ma il rischio è che si vada sempre di più in quella direzione.
Inoltre, il collaterale usato nelle operazioni di debito e che serve a garantire chi presta soldi in caso di default sono soprattutto i chip, i mitici GPU prodotti per la stragrande maggioranza da Nvidia.
Il problema è che, contrariamente ad esempio rispetto alla bolla ferroviaria del tardo diciannovesimo secolo, esplosa ben due volte negli anni Settanta e poi negli anni Novanta, il grado di obsolescenza tecnica è piuttosto elevato e dunque il valore del collaterale è destinato a diminuire in misura significativa con il passare del tempo.
Oggi pochi pensano che le Big Tech possano fallire, ma non è certo un caso che le obbligazioni dell’unica che al momento ha un cash flow negativo e che tale lo manterrà per i prossimi anni, Oracle, ne abbiano risentito, pagando un premio al rischio decisamente più elevato rispetto alle altre e ai Treasury bonds emessi dal governo americano.
Le ricadute macroeconomiche della bolla dell’intelligenza artificiale
Le possibili conseguenze di un eventuale scoppio della bolla. L’Economist ha calcolato che, rispetto alla bolla delle dotcom, quella attuale potrebbe avere un impatto più importante, a parità di entità di un possibile crollo di borsa.
Infatti, mentre allora il 17% del patrimonio delle famiglie americane era investito in borsa, oggi siamo al 21% (e addirittura al 35% per gli ultrasettantenni) in un Paese che nel frattempo è cresciuto di molto per popolazione e ricchezza.
Stiamo parlando dunque della cifra monstre di 42 trilioni di dollari detenuti dalle famiglie, ai quali aggiungere fondi pensione e fondi di investimento con evidenti ricadute reali sull’economia.
Qualora l’ampiezza della correzione fosse in termini percentuali la stessa avvenuta con le dotcom si potrebbe avere una riduzione dei consumi, derivante dall’effetto ricchezza svanita, pari all’incirca a 500 miliardi di dollari, l’1,6% del PIL statunitense.
E gli effetti si farebbero sentire anche sul resto del mondo, sia quelli indiretti (ad esempio sull’export indirizzato verso gli USA o sugli investimenti all’estero delle Big Tech statunitensi) che diretti (gli investitori stranieri possiedono azioni sul mercato azionario statunitense pari a 18 trilioni di dollari).
I fondamentali che rassicurano sulla bolla dell’intelligenza artificiale
I fattori che tranquillizzano i mercati. Di fronte a questo quadro tutt’altro che rassicurante non tutti sono preoccupati, per diverse ragioni.
Innanzitutto, al contrario di quanto successe ad esempio con le dotcom sul finire del secolo scorso, quando diverse aziende tlc investirono in fibra ottica provando ad anticipare una domanda che in quel momento non era ancora matura, in questo caso gli investimenti stanno provando a inseguire un consumo di IA in vorticoso aumento (anche se, occorre aggiungere per dovere di cronaca, in buona parte alimentato da applicazioni gratuite).
Inoltre, rispetto agli investimenti futuri stiamo parlando di previsioni che, qualora le cose si mettano male, potranno essere riviste, al pari degli accordi in natura su prestazioni future sottoscritti tra di loro dagli stessi operatori, in quella che è stata chiamata economia circolare dell’IA.
Nvidia, Palantir e i modelli di business dell’IA
Ma a tranquillizzare maggiormente sono forse i fondamentali delle imprese messe nel mirino da Burry e soci. Nvidia, che è senz’altro l’azienda che più in assoluto ha saputo beneficiare finora dell’esplosione degli investimenti in IA, godendo di una quota di mercato dei chip specializzati superiore al 90%, ha conseguito ricavi pari a 130,5 miliardi di dollari nell’anno fiscale 2025 (conclusosi a settembre) con un margine lordo stabilmente superiore al 70%.
Palantir ha invece chiuso il 2024 con ricavi pari a 2,9 miliardi di dollari e profitti per la prima volta marcatamente positivi.
Per entrambe, è vero che i multipli di mercato, in particolare per Palantir, sembrano eccessivi e tali forse da giustificare (non solo per loro, in verità) timori di imminenti cataclismi finanziari ma, a differenza di molte dotcom protagoniste della precedente bolla tecnologica, quella che avvenne sul finire del secolo scorso e all’inizio dell’attuale, stiamo parlando di aziende solide, con molto denaro in cassa e modelli di business robusti.
Si è molto parlato delle dichiarazioni di qualche giorno fa di Jensen Huang, fondatore e CEO di Nvidia, secondo le quali la Cina si appresterebbe a superare gli USA nella sfida dell’IA, ma sul fronte statunitense e su gran parte del globo terrestre le cose non potrebbero andare meglio per l’azienda di San José.
La sua posizione dominante sembra al momento inscalfibile, Cina a parte, e d’altronde i tanti accordi stretti negli ultimi mesi anche con potenziali rivali (vedi Samsung) sembrano metterla ancora di più al sicuro.
Palantir, pur avendo dimensioni minori e senza un primato tecnologico altrettanto schiacciante, sta traendo un vantaggio enorme dall’aumento delle spese militari e di sicurezza e dal rapporto a doppio filo con il governo degli Stati Uniti (dal quale trae più di metà dei propri ricavi).
Ma sbaglierebbe chi pensasse che la sua attuale fortuna dipenda oltremodo dall’amministrazione Trump, che certamente la vede di buon occhio (anche grazie ai buoni uffici del co-founder Peter Thiel).
Nell’ultimo trimestre Palantir ha chiuso ben 53 contratti di valore superiore a 10 milioni di dollari e il suo business model, largamente basato sui cosiddetti “forward-deployed engineers”, ingegneri che vengono assegnati ai clienti per aiutarli a integrare i software nelle proprie realtà organizzative, sta incominciando a essere imitato su larga scala dai principali player dell’IA, da OpenAI ad Anthropic.
Con il chiaro vantaggio che questi tecnici, chiamati a risolvere problemi operativi inerenti i propri clienti, ne traggono l’esperienza necessaria per trasferirla ad altri contesti, allo stesso tempo mantenendo il giusto livello di personalizzazione.
Bolle finanziarie, bolle industriali e le lezioni di Amazon
È anche per questo motivo che Jeff Bezos ha distinto tra bolle finanziarie e bolle industriali. Non c’è dubbio che siamo in presenza di una bolla, ma si tratta di una valutazione finanziaria eccessiva che di fatto supporta un momento di trasformazione radicale come quello che stiamo vivendo, con evidenti benefici di lungo periodo sull’economia.
Non fu così nel caso delle dotcom, quando la stragrande maggioranza delle aziende i cui valori di borsa sono esplosi nel giro di pochi anni non avevano alcun modello di business e di reale innovazione alla base (a parte l’uso di Internet).
Si tratta peraltro di un paragone che Bezos conosce perfettamente perché Amazon, fondata nel 1994 e sbarcata in borsa nel maggio 1997, fu una delle protagoniste assolute di quella stagione. Arrivata a valere nel 1999 25 miliardi di dollari, crollò a 4 miliardi nel 2001.
Rimase tra l’altro celebre una copertina di Barron’s, autorevole testata finanziaria, che dopo uno scricchiolio di borsa che anche in quel caso sembrava presagire prospettive nefaste, titolava a tutta pagina “Amazon.bomb”, aggiungendo nell’occhiello, a scanso di equivoci, che “l’idea che il CEO di Amazon Jeff Bezos abbia inaugurato un nuovo paradigma di business è ridicola. È solo un altro intermediario, e il mercato azionario sta iniziando a rendersene conto. I veri vincitori su Internet saranno le aziende che vendono direttamente ai consumatori i propri prodotti. Basta guardare cosa sta accadendo a Sony, Dell e Bertelsmann”.
Bezos cita spesso l’episodio, che in effetti non è invecchiato benissimo.
La vicenda dell’allora Amazon, più che ricordare quelle di Nvidia e Palantir, come detto aziende già oggi estremamente profittevoli e in buona salute, potrebbe in effetti evocare quella di OpenAI, anche se quest’ultima al momento non è quotata.
Bolla dell’intelligenza artificiale, OpenAI e il confronto con Anthropic
Il paragone (che tiene solo in parte) tra Amazon durante la bolla dotcom e OpenAI nella fase attuale. Come l’allora Amazon, OpenAI deve ancora chiudere un bilancio in utile. Amazon riuscì a farlo solo nel 2003, con un profitto striminzito di 35 milioni di dollari, poi salito a 588 milioni l’anno successivo.
Ma negli anni precedenti, nonostante un aumento esponenziale dei ricavi, passati da 150 milioni di dollari nel 1997 a 1,64 miliardi solo a un biennio di distanza, Amazon si dedicò in maniera ossessiva a creare un’imponente infrastruttura logistica, dapprima negli USA e poi in quasi tutto il mondo.
Un po’ quello che sta cercando di fare OpenAI, con un’infrastruttura di data center in grado di rispondere a un aumento vertiginoso della domanda. E con la stessa ossessione verso il cliente che ha caratterizzato l’irresistibile ascesa di Amazon.
Più volte, quando è stato improvvisamente costretto a razionare i prompt giornalieri degli utenti, anche di quelli free, è sceso personalmente in campo Sam Altman per chiedere pazienza e promettere rapidi miglioramenti del servizio. Da ultimo nel travagliato passaggio a GPT-5, avvenuto ad agosto.
Differenze tra Amazon e OpenAI
Il problema di Altman, però, è che al momento sembrano esserci almeno tre differenze di fondo con la situazione nella quale si è trovata Amazon nei suoi primi quindici anni di vita.
La prima è la scala della sfida e delle perdite necessarie a fronteggiare la domanda dei propri clienti. In effetti, i ricavi stanno aumentando vertiginosamente ma le perdite stanno crescendo altrettanto vorticosamente (attualmente stimate ad almeno 16 miliardi di dollari su base annuale).
In più, solo negli ultimi mesi OpenAI ha assunto impegni per i prossimi anni pari a 1,4 trilioni di dollari. Anche qualora riesca a raggiungere ricavi di qualche centinaia di miliardi di dollari entro il 2030, non sarà facile ripagarli.
E dunque appare perfettamente logico, anche perché fatto alla luce del sole, che Altman stia conducendo questi accordi in modalità diverse da quelle tradizionali, attraverso scambi incrociati di prestazioni in natura (ad esempio, chip e cloud in cambio di partecipazioni e finanziamenti).
Tuttavia, OpenAI appare in una posizione diversa da quella nella quale si trovava Amazon in prossimità dello scoppio della bolla delle dotcom anche per due altri motivi.
Come racconta proprio Peter Thiel nel suo bestseller “Zero to One”, prendendolo ad esempio di una strategia vincente per le startup, gli investimenti di Bezos erano finalizzati a dominare il retail online, diventandone l’assoluto protagonista. Se non quasi un monopolista.
Per quanto OpenAI abbia l’app ancora oggi largamente di maggior successo dell’IA generativa, con oltre 700 milioni di utenti abituali di ChatGPT, non si può certo dire che abbia una posizione dominante o che sia vicina a ottenerla.
Ha infatti almeno altri due concorrenti statunitensi con prodotti dalle performance paragonabili, Google e Anthropic, con il primo che in più ha spalle decisamente più grosse delle sue, e diversi altri, sia statunitensi che non, che non sono troppo distanti.
Peraltro, Anthropic, a differenza di OpenAI, prevede di diventare profittevole a breve, già a partire dal 2027, generando ben 17 miliardi di utile nel 2028 (a fronte di 70 miliardi di ricavi).
Naturalmente si tratta di previsioni, ma al momento si può senz’altro affermare, come ha riportato nei giorni scorsi The Information fornendo cifre inedite, che Anthropic è stata più efficace sul fronte B2B, cioè del business destinato alle imprese.
Anthropic, modello B2B e possibili vincitori
Questo determinò la svolta per Amazon, grazie alla capacità di creare un marketplace che ospitasse le aziende che volevano vendere online appoggiandosi all’infrastruttura messa in piedi dal colosso di Seattle e creando sostanzialmente da zero il mercato del cloud.
Finora, OpenAI non è riuscita a monetizzare sul fronte enterprise il clamoroso successo delle proprie app, a differenza allora di Amazon e oggi di Anthropic, la quale ritiene che la sua API, cioè l’interfaccia per far parlare tra loro software diversi, e le applicazioni collegate, genereranno nel 2025 circa il doppio dei ricavi rispetto a OpenAI e all’incirca l’80% dei propri ricavi fino al 2028.
Questa attenzione ai clienti business ha fatto sì che Claude Code, l’assistente di programmazione ideato da Anthropic, sia prossimo a produrre 1 miliardo di dollari di ricavi annualizzati.
Ecco allora che la bolla con ogni probabilità c’è e prima o dopo potrebbe scoppiare. Ma probabilmente a rimanere sotto le macerie potrebbero essere solo alcune aziende, con OpenAI che si trova al momento in una posizione di svantaggio rispetto ad Anthropic (e ai colossi che possono fare affidamento su altre fonti di ricavo e che tutt’al più dovranno rivedere al ribasso le proprie ambizioni).
Al momento, per l’appunto. In attesa della prossima puntata di una saga destinata a durare ancora molte stagioni.











