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Italia hub digitale: il piano nazionale per i data center



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La strategia nazionale italiana per i data center punta a trasformare il Paese in hub digitale europeo. Il piano prevede investimenti infrastrutturali, sviluppo del Mezzogiorno, sostenibilità energetica e semplificazione burocratica, affrontando però sfide legate a energia, acqua e impatti territoriali

Pubblicato il 24 nov 2025

Sergio Boccadutri

Consulente antiriciclaggio e pagamenti elettronici



nvidia bolla data center italia

Con la pubblicazione della strategia nazionale per l’attrazione degli investimenti esteri nei data center, l’Italia definisce la propria visione di sviluppo infrastrutturale digitale, puntando a trasformarsi da semplice utilizzatore di servizi cloud a vero hub mediterraneo per la gestione e l’innovazione dei dati.

La visione strategica dell’Italia come hub digitale europeo

La Strategia è stata pubblicata il 5 novembre 2025 dal Ministero delle Imprese e del Made in Italy con l’obiettivo di disegnare la visione italiana delle infrastrutture digitali. Non si tratta tanto di un documento tecnico per addetti ai lavori, ma di una vera dichiarazione di intenti che cerca di rispondere a una domanda cruciale: l’Italia vuole rimanere un semplice utilizzatore di servizi digitali creati altrove, o ambisce a diventare uno dei luoghi dove questi servizi nascono, si sviluppano e vengono gestiti? La risposta del governo è chiara, ma – come vedremo – anche ambiziosa. Il ministro Urso lo sintetizza con parole nette: attrarre investimenti nei data center è essenziale per rendere l’Italia un punto strategico nella gestione, nell’innovazione e nella sicurezza dei dati europei e globali. Una rete tecnologica solida e resiliente diventa oggi un fattore competitivo al pari delle infrastrutture fisiche tradizionali come porti, ferrovie e autostrade.

Accanto a questa visione, però, la stessa strategia lascia intravedere alcuni elementi di fragilità che devono essere affrontati con lucidità. La corsa ai data center rischia infatti di scontrarsi con limiti molto concreti, a partire dalla capacità delle reti elettriche e dalla disponibilità di energia e acqua, fino ai meccanismi con cui le comunità locali potranno realmente beneficiare dei nuovi insediamenti. La scelta di puntare con decisione su un ruolo di hub digitale comporta dunque non solo opportunità, ma anche la necessità di fissare paletti chiari, criteri di priorità e strumenti di monitoraggio, per evitare che l’Italia ripeta gli stessi squilibri che altri Paesi europei stanno già sperimentando.

I data center come infrastrutture critiche della società digitale

Per capire l’importanza di questa strategia dobbiamo prima comprendere cosa sono davvero i data center e perché ci riguardano così da vicino. Quando parliamo di cloud computing, molti immaginano qualcosa di immateriale, una “nuvola digitale” sospesa da qualche parte nel cyberspazio. La realtà è molto più concreta e fisica: dietro ogni foto che salviamo sul cloud, ogni bonifico online, ogni serie televisiva in streaming, ci sono edifici in cemento armato pieni di server, cavi, sistemi di raffreddamento e dispositivi di sicurezza. Sono strutture spesso anonime dall’esterno, che lavorano sempre, ventiquattr’ore su ventiquattro e sette giorni su sette, per elaborare, archiviare e trasmettere i dati che fanno funzionare la nostra economia e la nostra società.

Per comprendere meglio il loro ruolo si può usare una metafora biologica: se la rete digitale è come il sistema circolatorio del Paese, con la fibra ottica e persino le frequenze con il 5G (e in futuro il 6G) che fungono da vene e arterie per trasportare i flussi di dati, i data center sono i cuori che pompano e rielaborano queste informazioni vitali. Senza di loro non potremmo utilizzare i servizi digitali che ormai diamo per scontati: dalla banca online alle piattaforme di streaming, dai sistemi di prenotazione di un volo al lavoro da remoto.

Il mondo dei data center è articolato e complesso. Esistono piccoli centri posizionati vicino agli utenti finali, pensati per ridurre al minimo la latenza, cioè il tempo necessario perché un dato viaggi dal nostro dispositivo al server e ritorni. Questi avamposti digitali sono anche fondamentali per applicazioni che richiedono risposte immediate, come i sistemi di controllo industriale o i servizi di emergenza. Ci sono poi strutture di medie dimensioni che ospitano i sistemi informativi di aziende e pubbliche amministrazioni. Infine, troviamo i giganti del settore, gli hyperscale: veri e propri campus digitali che possono occupare superfici equivalenti a diversi campi da calcio e concentrare una potenza di calcolo paragonabile a quella di milioni di computer domestici.

Proprio perché questi “cuori invisibili” sono diventati essenziali, la loro diffusione su larga scala solleva questioni che vanno oltre la tecnologia in senso stretto. Ogni nuovo data center appesantisce la rete elettrica, è un potenziale utilizzatore di acqua, è un edificio che occupa suolo e modifica il paesaggio. La strategia nazionale nasce per valorizzare i vantaggi economici e industriali di queste infrastrutture, ma dovrà misurarsi costantemente con il loro impatto complessivo, per evitare che il lato “infrastruttura critica” prevalga su quello “motore di sviluppo” nei territori che li ospitano.

Il boom globale trainato da cloud e intelligenza artificiale

Il mercato mondiale dei data center sta attraversando una fase di espansione senza precedenti, con un valore stimato di circa 441 miliardi di euro e tassi di crescita annui intorno al sette per cento fino al 2030. Tre grandi forze stanno alimentando questa corsa: l’esplosione dei dati generati da persone, imprese e dispositivi connessi; la migrazione massiccia verso il cloud di applicazioni e servizi sia nel settore privato che nella pubblica amministrazione; e soprattutto la diffusione dell’intelligenza artificiale, che richiede capacità di calcolo e archiviazione prima inimmaginabili.

L’impatto di questa crescita sul consumo energetico è significativo. Nel 2024 i data center hanno assorbito circa l’uno e mezzo per cento dei consumi elettrici mondiali, una quota destinata a crescere rapidamente con l’aumento dei carichi computazionali legati all’intelligenza artificiale generativa. Alcuni data center di ultima generazione e di grandi dimensioni arrivano ad assorbire una potenza elettrica paragonabile a quella di una città di medie dimensioni, ponendo sfide importanti per le reti di distribuzione elettrica.

In Europa questa espansione sta incontrando limiti strutturali importanti, principalmente legati alla capacità delle reti elettriche di supportare questi nuovi grandi picchi di assorbimento. Paesi come Germania, Irlanda e Paesi Bassi, che hanno visto una concentrazione molto alta di data center in alcune aree, hanno dovuto introdurre moratorie o limitazioni sui nuovi insediamenti per proteggere la stabilità del sistema elettrico. I tempi di attesa per ottenere connessioni alla rete ad alta potenza possono arrivare a diversi anni, creando colli di bottiglia che rallentano lo sviluppo del settore.

L’Unione Europea sta cercando di governare questa crescita attraverso normative sempre più stringenti. Tra i “considerando” della direttiva sull’efficienza energetica (direttiva UE 2023/1791) si dichiara esplicitamente che nel 2018 il consumo di energia dei data center nell’Unione è stato di 76,8 TWh e che si prevede che entro il 2030 salirà a 98,5 TWh, con un aumento del 28 per cento. La direttiva, dunque, impone agli Stati membri obiettivi vincolanti di riduzione dei consumi e introduce per i data center obblighi di rendicontazione dettagliata su energia, acqua, emissioni e prestazioni. L’obiettivo è arrivare nel medio periodo a data center a emissioni quasi zero, un traguardo ambizioso che richiederà investimenti massicci in tecnologie innovative e fonti rinnovabili.

In questo quadro la strategia italiana si colloca in una posizione non semplice: prova a cogliere la finestra di opportunità aperta dalla domanda globale di capacità di calcolo, ma si misura con le stesse tensioni che altri Paesi stanno vivendo. Il rischio, se non verranno fissati obiettivi, limiti e priorità ben definiti, è quello di saturare la rete elettrica con nuovi grandi carichi senza una chiara gerarchia tra fabbisogni civili, industria tradizionale ed economia dei dati, arrivando poi in un secondo momento a richiedere restrizioni d’emergenza come già accaduto altrove.

Il posizionamento geografico strategico dell’Italia nel Mediterraneo

In questo scenario globale, l’Italia parte da una posizione di relativo vantaggio che la strategia governativa intende valorizzare pienamente. Il Paese ha già superato i 500 megawatt di potenza installata nei data center commerciali, con una crescita del diciassette per cento nel solo 2024. Milano rappresenta il principale polo nazionale, concentrando quasi la metà della capacità totale grazie alla presenza di grandi operatori internazionali, di una rete elettrica robusta e di numerosi punti di interscambio Internet che la rendono uno snodo cruciale per il traffico digitale europeo.

Ma la vera particolarità italiana, sottolineata con forza nella strategia ministeriale, sta nella possibilità di non concentrare tutto in poche aree del paese. A differenza di altri Paesi europei dove i data center si sono addensati intorno alle capitali o in singole regioni, l’Italia può contare su una distribuzione più equilibrata di infrastrutture e competenze. La rete in fibra ottica copre il territorio nazionale anche nelle zone periferiche, le dorsali elettriche ad alta tensione attraversano la penisola da Nord a Sud, i centri di ricerca e le università di eccellenza sono presenti in diverse regioni.

Un ruolo strategico particolare è riservato al Mezzogiorno, che la strategia identifica come frontiera di sviluppo prioritaria. Le coste di Sicilia, Calabria e Puglia sono diventate veri e propri porti digitali del Mediterraneo, con decine di cavi sottomarini che vi approdano collegando l’Europa con Africa, Medio Oriente e Asia. Posizionare data center vicino a questi “punti di sbarco” dei cavi significa ridurre drasticamente la distanza che i dati devono percorrere, migliorando le prestazioni per milioni di utenti europei e offrendo alle grandi piattaforme globali percorsi di rete più sicuri e ridondanti.

Il Sud può contare anche su importanti investimenti infrastrutturali in corso, come i collegamenti elettrici sottomarini Tyrrhenian Link (un collegamento sottomarino che unirà Sicilia, Campania e Sardegna entro il 2028) e l’Adriatic Link (tra Abruzzo e Marche, operativo entro il 2029), che rafforzeranno la capacità di trasporto dell’energia tra le isole e il continente. La nascita di nuovi Internet Exchange Point a Bari, Roma e Caserta sta riducendo la necessità di far transitare tutto il traffico digitale attraverso Milano, creando una rete più distribuita e resiliente. A questo si aggiunge la ZES unica del Mezzogiorno, che offre procedure amministrative semplificate e un’autorizzazione unica per gli investimenti produttivi, rendendo queste aree particolarmente attrattive per gli investitori internazionali.

Tuttavia, la stessa strategia segnala che oltre il settanta per cento della potenza richiesta dai progetti in pipeline si concentra ancora in Lombardia e Piemonte. Questo scarto tra l’obiettivo di riequilibrio territoriale e la realtà delle domande di connessione fa emergere una criticità di fondo: senza strumenti più forti di orientamento, come criteri di priorità per le aree meno servite o limiti di carico per i poli già saturi, esiste il rischio concreto che il sistema resti polarizzato su pochi cluster del Nord, replicando in parte gli squilibri osservati in altri Paesi europei. La distribuzione più equilibrata dei data center rischia così di restare un auspicio se non verrà accompagnata da scelte regolatorie più vincolanti.

Gli impatti economici e occupazionali sui territori locali

Quando un grande player internazionale annuncia l’intenzione di costruire un data center in un territorio italiano, le aspettative locali sono comprensibilmente alte. Gli investimenti possono raggiungere centinaia di milioni di euro per un singolo campus, con ricadute significative sull’economia locale durante la fase di costruzione: cantieri che durano mesi, contratti per imprese edili e di installazione, acquisti di materiali e servizi. E così i Comuni vedono la possibilità di nuove entrate fiscali, di riqualificazione di aree industriali dismesse, di potenziamento delle infrastrutture che possono attrarre anche altre attività produttive.

Tuttavia, è importante mantenere aspettative realistiche, soprattutto per quanto riguarda l’occupazione diretta. I data center moderni sono infrastrutture altamente automatizzate che, una volta entrati in funzione, richiedono un numero relativamente limitato di addetti: tipicamente qualche decina o al massimo qualche centinaio di persone, prevalentemente con profili tecnici molto qualificati. Non si tratta quindi di fabbriche tradizionali che possono impiegare migliaia di lavoratori, ma di infrastrutture ad alta intensità di capitale e tecnologia. Certo a lato ne possono giovare le società che devono occuparsi della manutenzione continua dei sistemi di raffreddamento, delle infrastrutture civili, e più in generale la filiera dei servizi di supporto a quelli “core”.

L’esperienza internazionale, in particolare quella d’oltreoceano dove il fenomeno è più maturo, offre lezioni importanti. In alcuni casi, comunità locali che avevano concesso generosi incentivi fiscali a grandi operatori tecnologici si sono trovate deluse dal numero effettivo di posti di lavoro creati, mentre i costi per potenziare le reti elettriche e le infrastrutture sono ricaduti in parte sui bilanci pubblici e sulle bollette dei cittadini. Questo non significa che i data center non portino benefici ai territori, ma che è necessaria una valutazione trasparente e realistica del rapporto tra costi e benefici, distinguendo chiaramente tra effetti temporanei legati ai cantieri ed effetti permanenti a regime.

La strategia italiana cerca di affrontare questi aspetti con un approccio responsabile e partecipativo, ad esempio anche dando ai siti brownfield, cioè aree industriali già “usurate” che possono essere rigenerate senza consumare nuovo suolo agricolo o naturale. Si prevede il coinvolgimento delle comunità locali fin dalle prime fasi progettuali, con processi di concertazione che permettano di comprendere e gestire le preoccupazioni dei residenti. Si punta su accordi che prevedano benefici condivisi nel tempo, come programmi di formazione locale, sostegno a iniziative culturali e sociali, investimenti in infrastrutture che rimangano a disposizione del territorio.

Resta però un punto aperto: nel testo strategico questi strumenti sono più evocati che normati. Non vengono ancora definiti schemi standardizzati di benefit sharing, soglie minime di investimenti sociali a carico degli operatori, o impegni vincolanti su formazione e coinvolgimento delle imprese locali. Senza questi elementi, la capacità di trasformare un investimento in data center in un vero patto di sviluppo con il territorio rischia di dipendere troppo dalla volontà del singolo operatore o dalla forza negoziale del singolo Comune.

La sostenibilità energetica e ambientale come nodo critico

Il tema più delicato e controverso legato allo sviluppo dei data center riguarda il loro impatto ambientale, in particolare i consumi di energia e acqua. In Italia, tra il 2019 e il 2023, la domanda elettrica del settore informatico è cresciuta del cinquanta per cento, e le proiezioni indicano che i data center potrebbero arrivare a rappresentare circa il sei per cento dei consumi elettrici nazionali entro il 2030 se tutti i progetti annunciati venissero realizzati. Sono numeri che impongono una riflessione profonda sulla compatibilità tra sviluppo digitale e obiettivi di decarbonizzazione.

La strategia nazionale affronta questa sfida su più fronti. Innanzitutto, si punta al miglioramento continuo dell’efficienza energetica, utilizzando parametri internazionali come il PUE (Power Usage Effectiveness) che misura il rapporto tra l’energia totale consumata nel data center e quella effettivamente utilizzata dai sistemi hardware per il calcolo. I data center più moderni riescono ad avvicinarsi a valori di PUE prossimi a 1, il che significa che quasi tutta l’energia viene utilizzata per i server con perdite minime per il raffreddamento e altri sistemi ausiliari. Raggiungere questi livelli richiede tecnologie avanzate, dalla progettazione ottimizzata degli spazi all’uso di sistemi di raffreddamento intelligenti che si adattano alle condizioni climatiche.

Per quanto riguarda l’acqua, la questione è particolarmente sensibile in un Paese che affronta sempre più frequentemente periodi di siccità e di una rete idrica ormai colabrodo (complice anche la mancanza di investimenti). La strategia promuove con forza il riutilizzo delle acque reflue depurate per i processi di raffreddamento industriale, evitando di sottrarre risorsa idrica potabile agli usi civili e agricoli. Alcune delle tecnologie più promettenti prevedono sistemi di raffreddamento ad aria combinati con uso mirato di acqua solo nei periodi più caldi, riducendo drasticamente i consumi complessivi. A livello internazionale ci sono sperimentazioni per soluzioni a ciclo completamente chiuso che eliminano quasi del tutto il prelievo di acqua dall’ambiente.

Sul fronte delle energie rinnovabili, l’Italia ha potenzialità enormi ancora largamente inespresse. Il Sud del Paese in particolare gode di livelli di irraggiamento solare tra i più alti d’Europa e di condizioni favorevoli per l’eolico. La strategia prevede che i nuovi data center stipulino contratti di lungo termine per l’acquisto di energia verde, investano direttamente in impianti fotovoltaici ed eolici dedicati e installino sistemi di accumulo che permettano di utilizzare energia rinnovabile anche quando sole e vento non sono disponibili. L’obiettivo è far crescere il settore senza compromettere gli impegni di decarbonizzazione del Paese.

Un aspetto innovativo riguarda il recupero del calore prodotto dai server. I data center generano enormi quantità di calore che tradizionalmente viene semplicemente disperso nell’atmosfera. Tecnologie di recupero già sperimentate in Nord Europa permettono di utilizzare questo calore per il teleriscaldamento di edifici residenziali e commerciali, per processi industriali o agricoli come le serre. Trasformare quello che oggi è un prodotto di scarto in una risorsa può migliorare significativamente il bilancio ambientale complessivo di queste infrastrutture.

Proprio su questo terreno, però, emergono alcune criticità. La strategia insiste su principi condivisibili ma non fissa ancora soglie minime vincolanti su indicatori come PUE e WUE, né identifica in maniera esplicita le aree in cui l’uso di acqua per il raffreddamento è incompatibile con la fragilità delle risorse idriche locali. Non vengono ancora definiti obiettivi quantitativi di quota minima di energia rinnovabile “addizionale” associata ai nuovi insediamenti. In assenza di questi paletti, il rischio è che i progetti più avanzati e virtuosi convivano con altri meno efficienti, e che la capacità dell’Italia di rispettare gli obiettivi climatici finisca per dipendere dalla somma di scelte individuali, più che da una cornice regolatoria robusta. Anche la questione della priorità di accesso alla rete tra diversi usi dell’energia rimane aperta: la strategia è molto chiara sull’ambizione di attrarre data center, ma meno esplicita su come evitare che, nel medio periodo, questi carichi comprimano gli spazi di crescita di altri settori produttivi o degli usi civili.

Semplificazione burocratica e sviluppo delle competenze tecniche

Per trasformare le ambizioni in realtà, la strategia riconosce che l’Italia deve superare uno dei suoi storici punti deboli: la complessità e i tempi dei procedimenti burocratici. Gli operatori internazionali sono abituati a muoversi rapidamente e hanno bisogno di certezze sui tempi e sulle procedure. In passato, ottenere tutte le autorizzazioni necessarie per un grande data center poteva richiedere anche più di tre anni, un tempo incompatibile con le dinamiche di un mercato in rapida evoluzione.

Il governo ha già introdotto strumenti significativi di semplificazione. Per gli investimenti sopra determinate soglie è possibile attivare l’Unità di missione nazionale prevista dal DL 50 del 2022 con poteri sostitutivi in caso di inerzia delle amministrazioni. Per i programmi strategici superiori al miliardo di euro può essere nominato un Commissario straordinario che gestisce un’autorizzazione unica comprensiva di tutti i permessi necessari. Nel Mezzogiorno, lo Sportello Unico Digitale della ZES rappresenta un’innovazione importante, offrendo un’interfaccia unificata per tutti i procedimenti.

Parallelamente, il governo centrale sta lavorando con le regioni per armonizzare le procedure su tutto il territorio nazionale. L’obiettivo è che un investitore trovi regole simili e tempi confrontabili sia che guardi alla Lombardia, al Lazio o alla Puglia. Questo lavoro di coordinamento, meno visibile ma fondamentale, sta progressivamente aumentando la credibilità dell’Italia come destinazione di investimenti.

Sul fronte delle competenze, la strategia riconosce che attrarre data center senza sviluppare il capitale umano necessario sarebbe un’occasione sprecata. La gestione di queste infrastrutture richiede figure professionali ibride: ingegneri elettrici e meccanici, esperti di reti e cybersecurity, specialisti di efficienza energetica e sostenibilità ambientale. Per questo la Strategia promuove la creazione di percorsi formativi dedicati in collaborazione con università, ITS e centri di ricerca. Non si tratta solo di formare nuovi tecnici, ma anche di aggiornare le competenze di chi già lavora nei settori collegati.

Un elemento innovativo è lo sviluppo di una mappa digitale integrata del Paese che combini tutte le informazioni rilevanti per la localizzazione di un data center: disponibilità di aree industriali, presenza di infrastrutture elettriche e di telecomunicazioni, vicinanza a fonti rinnovabili, livelli di rischio sismico e idrogeologico, possibilità di recupero del calore. Questo strumento, basato sull’integrazione del Sistema Informativo Nazionale Federato delle Infrastrutture, permetterà agli investitori di valutare rapidamente le opzioni disponibili e alle amministrazioni di pianificare in modo più consapevole lo sviluppo del territorio.

Nello sforzo di semplificazione si nasconde però un potenziale punto di frizione. La concentrazione di molti poteri in autorizzazioni uniche e procedure accelerate è uno strumento efficace per ridurre i tempi, ma può anche comprimere gli spazi e i tempi del confronto pubblico, soprattutto nei territori più esposti agli impatti. La strategia insiste sulla concertazione, ma non chiarisce ancora nel dettaglio come garantire che le valutazioni ambientali restino approfondite e indipendenti, né come assicurare che gli enti locali abbiano strumenti reali per far valere le proprie osservazioni in presenza di progetti considerati “strategici”. La credibilità del modello italiano dipenderà molto da questo equilibrio: attirare investimenti senza dare l’impressione che le procedure eccezionali diventino scorciatoie a scapito della qualità delle decisioni.

Verso un modello italiano di sovranità digitale sostenibile

La strategia nazionale per l’attrazione dei data center rappresenta molto più di un piano industriale: è una scelta di posizionamento geopolitico e tecnologico dell’Italia nel mondo digitale che si sta ridefinendo. In un’epoca in cui i dati sono diventati la risorsa strategica per eccellenza, decidere dove e come vengono elaborati e conservati non è neutrale. Significa determinare chi controlla le infrastrutture critiche dell’economia digitale, chi può garantire la sicurezza e la sovranità dei dati, chi beneficia del valore economico generato.

L’Italia sta provando a percorrere una strada originale, che eviti sia la concentrazione eccessiva in pochi poli congestionati, come accaduto in altri Paesi europei, sia uno sviluppo anarchico senza regole e controlli. La distribuzione geografica dei data center lungo la penisola, con particolare attenzione al Mezzogiorno, può contribuire a ridurre i divari territoriali e a creare opportunità di sviluppo in aree che hanno sofferto processi di deindustrializzazione. La priorità data al riuso di aree dismesse invece del consumo di nuovo suolo risponde a una sensibilità ambientale sempre più diffusa nella società italiana.

La sfida più grande rimane quella di conciliare la necessaria crescita delle infrastrutture digitali con gli obiettivi di sostenibilità ambientale e sociale. I data center del futuro dovranno essere molto diversi da quelli del passato: più efficienti, alimentati da energie rinnovabili, integrati con il territorio circostante, capaci di restituire valore alle comunità che li ospitano. Non basterà attrarre investimenti, bisognerà anche governarli, indirizzarli verso modelli virtuosi, monitorarne gli impatti nel tempo. Questo implica, in prospettiva, rafforzare la strategia con obiettivi numerici chiari, meccanismi di revisione periodica e strumenti più incisivi per evitare eccessive concentrazioni di potenza in poche aree o squilibri tra esigenze della rete elettrica e nuovi carichi digitali.

Il successo di questa strategia dipenderà dalla capacità di tutti gli attori coinvolti di lavorare insieme: governo centrale e amministrazioni locali, investitori internazionali e imprese italiane, università e centri di formazione, cittadini e associazioni. Se l’Italia saprà mantenere questo equilibrio delicato tra apertura all’innovazione e tutela del territorio, tra competitività economica e giustizia sociale, tra sviluppo tecnologico e sostenibilità ambientale, potrà davvero trasformarsi nella “casa dei dati” europea. Un luogo dove le infrastrutture digitali non sono corpi estranei calati dall’alto, ma parte integrante di un ecosistema produttivo e sociale che guarda al futuro senza dimenticare le proprie radici e i propri valori. In caso contrario, il rischio è di diventare solo un grande “contenitore fisico” di server e cavi gestiti da pochi attori globali, con benefici limitati e impatti concentrati, perdendo l’occasione di costruire una vera sovranità digitale condivisa.

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