“Vengo dal regno dei morti”. Era solito dirlo un grande pubblico ministero, Roberto Pennisi, noto per le sue importanti inchieste sul crimine mafioso, scomparso pochi giorni fa. A indicare il rapido cambiamento, anche tecnologico, nel modo di fare indagini e svolgere queste delicate funzioni. Chi ha letto il mio romanzo autobiografico “Un’Arma nel cuore” (Gambini editore) sa bene cosa intendo. Non senza un pizzico di sapore nostalgico, rievoco sbirri old style, tra il profumo di inchiostro della vecchia Olivetti linea 98, mescolato a quello dei tanti caffè notturni passati a ragionare tra carte ed interrogatori interminabili, o al riascolto delle prime logoranti microspie faticosamente collocate nelle abitazioni dei corleonesi o di altri boss delle mafie. Ma in pochi decenni tutto è cambiato, criminalità e tecnologie.
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Indagini penali e intelligenza artificiale: perché serve ancora l’intuito umano
Dall’era delle microspie artigianali alle black box algoritmiche, le indagini penali vivono una trasformazione profonda. L’intelligenza artificiale nelle indagini accelera analisi e correlazioni, ma apre interrogativi su responsabilità, controllo democratico e centralità dell’investigatore umano
Presidente di Intelligence Inside S.A. ed ex colonnello ROS

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