L’AI ci sta restituendo tempo, ma non lo vediamo mai. Ogni minuto liberato finisce risucchiato dentro altro lavoro, come se non potesse esistere spazio vuoto nelle nostre giornate. È un paradosso silenzioso che attraversa professionisti e aziende: acceleriamo tutto, tranne la nostra capacità di fermarci.
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Intelligenza artificiale e lavoro: il paradosso del tempo che scompare
Per comprendere meglio il paradosso, vi faccio un esempio. Qualche settimana fa ero in videochiamata con un cliente che mi mostrava, entusiasta, come aveva integrato l’intelligenza artificiale generativa nel suo flusso di lavoro quotidiano. Aveva automatizzato la creazione di report, la gestione delle email ripetitive, la stesura di bozze.
“Gabriele, guarda: quello che prima mi portava via tre ore al giorno, ora lo faccio in un’ora scarsa. Ho risparmiato il 60% del tempo.” Era felice, e si vedeva. Mi aspettavo la parte successiva: cosa ne aveva fatto di quelle due ore liberate ogni giorno.
Eccola: “E sai cosa ho fatto? Ho preso in carico due progetti in più. Adesso riesco a fare il triplo del lavoro nello stesso tempo. Sono molto più produttivo.”
Sono rimasto in silenzio per qualche secondo. Non era quello il punto. Non era affatto quello il punto. E mentre lui continuava a mostrarmi dashboard e metriche, mi sono reso conto che quella call stava descrivendo perfettamente anche me.
Anche io ho automatizzato processi, velocizzato flussi, integrato l’AI in decine di attività quotidiane. Anche io ho risparmiato ore. E anche io, se sono onesto, le ho riempite immediatamente con altro lavoro. Più progetti, più idee da sviluppare, più contenuti da produrre.
Il tempo risparmiato? Sparito. Non restituito alla mia vita, non dedicato alla famiglia o agli affetti. Semplicemente riassorbito in altro lavoro. Eccoci al paradosso della produttività potenziata: abbiamo comprato una Ferrari per stare più tempo in autostrada.
Quando efficienza, intelligenza artificiale e lavoro promettono meno fatica
L’intelligenza artificiale generativa, gli script di automazione, i sistemi che eliminano task ripetitivi sono strumenti reali, concreti, utili. Non siamo qui a fare i luddisti del ventunesimo secolo. Il problema, secondo me, è cosa ne facciamo del tempo che ci restituisce.
La domanda che non ci poniamo mai prima di automatizzare è: a cosa serve il tempo che libero? Per vivere meglio o per lavorare di più?
Secondo uno studio del MIT sugli effetti dell’AI generativa sulla produttività, i lavoratori che hanno adottato questi strumenti hanno risparmiato in media il 40% del tempo su task ripetitivi. Un dato impressionante. Ma la ricerca non ci dice cosa è successo a quel tempo risparmiato.
Basta guardarsi intorno: quel tempo è stato immediatamente reinvestito in altre attività lavorative. Zero ore restituite alla vita reale. Mi sa che abbiamo confuso l’efficienza con la libertà e scambiato il mezzo per il fine.
Ogni strumento che dovrebbe alleggerirci diventa invece un moltiplicatore di carico. È come se avessimo comprato una lavatrice per lavare i panni più velocemente, e invece di dedicare il tempo risparmiato alla famiglia, lo usassimo per lavare anche i panni dei vicini.
Negli anni Sessanta si predicava la settimana lavorativa di 15 ore grazie alla tecnologia. Oggi, secondo l’OCSE, in Italia lavoriamo mediamente 1.657 ore all’anno. Negli Stati Uniti siamo a 1.811.
Ogni ondata tecnologica ha portato la stessa illusione: computer, internet, cloud, smartphone, e ora intelligenza artificiale. Ogni volta ci hanno detto che avremmo lavorato meno. Ogni volta abbiamo lavorato di più.
Cultura dell’iperproduttività tra intelligenza artificiale e lavoro
Ma il bandolo della matassa viene da lontano: dalla glorificazione dell’hustle culture, passatemi l’inglesismo, dal mito del sempre connesso, sempre disponibile, sempre produttivo… sempre dentro al frullatore della Milano da bere degli anni ’80.
Sarebbe troppo facile dare la colpa alla tecnologia. Il punto che vedo io è che il tempo risparmiato con l’automazione non viene protetto. Non viene messo al sicuro. Viene lasciato lì, indifeso, esposto, disponibile. E sparisce, riassorbito immediatamente.
Il digitale non ha creato questo problema, lo ha solo amplificato, velocizzato, reso sistemico. L’AI elimina frizioni, micro-task, attese. Ma questo spazio non rimane vuoto. La cultura del lavoro contemporanea lo assorbe immediatamente.
Secondo ricerche Eurofound di qualche anno fa, nei contesti professionali che hanno adottato forme avanzate di automazione, la percezione del carico lavorativo non diminuisce. Si trasforma, cambia forma, ma non intensità.
E noi ci troviamo a vivere una forma sottile di auto-sfruttamento: più strumenti abbiamo per essere efficienti, più ci aspettiamo da noi stessi.
Consapevolezza digitale e sonnambuli del lavoro
Nel mio libro Digitalogia parlo spesso del concetto di consapevolezza digitale: capire non solo come funzionano gli strumenti, ma perché li usiamo.
Siamo diventati, in molti casi, Sonnambuli Digitali: immersi in automatismi che non mettiamo più in discussione. L’AI ci restituisce tempo, ma noi lo scambiamo automaticamente per un’occasione di stare al passo, di fare ancora di più, di non rimanere indietro.
E così il tempo libero diventa un’opportunità di carico ulteriore.
La moltiplicazione invisibile del lavoro creativo
La moltiplicazione invisibile del lavoro amplifica tutto. Esiste il lavoro esplicito, quello che vediamo: task, richieste, consegne, riunioni.
E poi c’è il lavoro implicito, quello che si insinua negli spazi vuoti: le idee in più, i progetti laterali, la produzione continua di contenuti, pensieri, proposte. Questo è particolarmente vero per chi fa lavori creativi o di consulenza.
L’intelligenza artificiale amplifica tutto perché rende più facile “fare”. Ci stimola costantemente a riempire ogni vuoto con nuova attività. Il tempo liberato non è tempo libero: è tempo disponibile per essere riempito, il prima possibile.
Cosa perdiamo quando il tempo del lavoro mangia la vita
E mentre corriamo dietro a questa produttività infinita non ci domandiamo cosa perdiamo quando quel tempo risparmiato finisce in altro lavoro. Semplice: gli affetti, la famiglia, i figli che crescono mentre rispondiamo all’ennesima email urgente.
Le cene in cui siamo presenti col corpo ma assenti con la mente. Gli hobby abbandonati, le conversazioni vere. Insomma, il tempo per esistere.
Il termine work-life balance è abusato fino allo sfinimento. Ma qui parliamo di dignità umana. Abbiamo bisogno di tempo lento, di pause, di vuoto, di noia, oserei dire.
Il valore di una persona non si misura sulla quantità di output che genera in una giornata.
Nel Manifesto della Digitalogia come filosofia, c’è una frase che sintetizza questo: “Il digitale deve migliorare la nostra vita, non renderci schiavi di un ciclo infinito di interazioni senza valore.”
Vale anche per l’automazione. Eppure, guardiamoci intorno: quante persone conosciamo che sono davvero riuscite a usare l’AI per vivere meglio, e non solo per lavorare di più?
Burnout, stress lavoro-correlato e tempo che brucia
I dati dell’Organizzazione Mondiale della Sanità parlano chiaro: il burnout è riconosciuto come fenomeno occupazionale dal 2019. In Italia, le segnalazioni di patologie legate allo stress lavoro-correlato destano crescente preoccupazione nelle rilevazioni nazionali.
Più produciamo, più velocemente produciamo, più ci bruciamo.
Il tempo della vita è finito, limitato, non rinnovabile. Ogni ora che regaliamo al lavoro è un’ora che sottraiamo definitivamente a tutto il resto.
Affetti, diritto alla disconnessione e nuove metriche del tempo
In Francia esiste il diritto alla disconnessione dal 2017. Una legge che garantisce ai lavoratori di non essere contattati fuori dall’orario di lavoro. In Italia ne stiamo ancora discutendo: il disegno di legge Sensi, presentato nel 2024, punta a garantire almeno dodici ore consecutive di disconnessione dopo l’orario lavorativo.
Il diritto alla disconnessione tra Francia e Italia
Dodici ore.
Pazzesco che debba essere rivoluzionario garantire qualcosa che dovrebbe essere scontato. Ma il fatto che serva una legge per proteggere il nostro tempo libero ci dice tutto sulla cultura che abbiamo costruito.
Un nuovo patto con il tempo restituito dall’AI
Eppure, qualcosa possiamo ancora fare. Non possiamo ovviamente fermare l’automazione, ma possiamo decidere consapevolmente cosa farne del tempo che ci restituisce. Serve un patto: con noi stessi, prima di tutto, e con le aziende per cui lavoriamo, con la società in cui viviamo.
Prima di automatizzare qualcosa, dovremmo porci una domanda: perché lo sto facendo? Per fare più lavoro nello stesso tempo, o per liberare tempo da dedicare alla mia vita?
E poi, una volta risparmiato quel tempo, proteggerlo. Stabilire confini netti: queste ore sono mie, punto. Non sono disponibili per essere riempite dal lavoro.
Servono anche nuove metriche di successo. Un professionista di successo non è quello che lavora dodici ore al giorno e risponde alle email alle undici di sera. È quello che lavora bene in sei ore, produce risultati di qualità e usa le altre sei per stare con la famiglia, coltivare passioni, riposare, esistere.
E magari andare a trovare parenti soli che ormai intrecciano relazioni con l’intelligenza artificiale, come scrivevo in un precedente articolo qui su Agenda Digitale.
La settimana corta islandese e la responsabilità collettiva
In Islanda, per esempio, la sperimentazione della settimana lavorativa di quattro giorni ha mostrato che è possibile ridurre le ore lavorate mantenendo la produttività e migliorando significativamente il benessere.
Non è utopia. È possibile, qui e ora. E questa non può essere solo una responsabilità individuale. Servono aziende che capiscano che un dipendente riposato è molto più produttivo di uno spremuto.
Servono legislatori che tutelino davvero il diritto alla disconnessione. E serve una cultura che premi l’equilibrio, non l’esaurimento. Ma qui il discorso si farebbe troppo lungo.
Alla fin fine la scelta che facciamo del tempo che l’automazione ci restituisce è tutto. Possiamo riempirlo con altro lavoro, inseguire una produttività infinita che ci consuma.
Oppure dargli valore, difenderlo, restituirlo a noi stessi, in primis, e poi agli affetti, alla famiglia, agli hobby, al riposo. Alla noia.
Abbiamo passato decenni a costruire strumenti per risparmiare tempo. Ora dobbiamo decidere a chi regalarlo.












