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Social spiati a chi viaggia negli Usa: che vuol dire la svolta Trump



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Gli USA valutano di rendere obbligatoria, per l’ESTA, la comunicazione dei profili social usati negli ultimi cinque anni insieme a più dati personali. Una svolta che sposta l’ESTA da facilitatore dei viaggi a filtro di profilazione preventiva, tra sicurezza e diritti digitali

Pubblicato il 12 dic 2025

Tania Orrù

Privacy Officer e Consulente Privacy Tuv Italia



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Gli Stati Uniti stanno valutando una modifica delle regole di ingresso per i cittadini dei Paesi aderenti al Visa Waiver Program, tra cui l’Italia.

La proposta, avanzata dall’amministrazione Trump, prevede che chi richiede l’autorizzazione ESTA debba fornire dati anagrafici, informazioni di sicurezza e cronologia dei profili social utilizzati negli ultimi cinque anni, insieme a un’estesa serie di dati personali e digitali.

Una misura che, se approvata, trasformerebbe l’ESTA da strumento di facilitazione dei viaggi a meccanismo di profilazione preventiva, sollevando interrogativi sul rapporto tra sicurezza, libertà di espressione, trattamento dei dati personali e attrattività internazionale degli Stati Uniti.

In gioco c’è sia il turismo sia un nuovo equilibrio tra confini fisici e identità digitali.

ESTA USA e social media: la proposta e la posta in gioco

L’Electronic System for Travel Authorization nasce come strumento di semplificazione.

Introdotto dopo l’11 settembre 2001 e pienamente operativo dal 2009, l’ESTA consente ai cittadini di 42 Paesi di entrare negli Stati Uniti senza visto per soggiorni brevi, fino a 90 giorni, per turismo o affari.

Il sistema si fonda su un principio chiave: anticipare il controllo, spostando una parte delle verifiche dal confine al momento della richiesta online.

Il viaggiatore inserisce i propri dati anagrafici, le informazioni sul passaporto e risponde a una serie di domande standardizzate in materia di sicurezza, salute e precedenti penali.

Come funziona l’ESTA oggi: controllo anticipato e limiti del sistema

Nella sua architettura originaria, l’ESTA non è stato pensato come strumento investigativo, ma piuttosto come filtro preliminare automatizzato.

Non sostituisce infatti il controllo alla frontiera, né garantisce l’ingresso nel Paese, ma riduce il carico burocratico e favorisce la mobilità internazionale.

Proprio questa funzione “leggera” ha reso l’ESTA uno dei pilastri del turismo e dei viaggi d’affari verso gli Stati Uniti negli ultimi quindici anni.

Il punto, oggi, è capire se la procedura stia cambiando natura: da facilitazione amministrativa a valutazione preventiva del rischio basata anche su elementi digitali.

Social media nell’ESTA USA: cosa si chiede oggi e cosa no

È utile chiarire che l’attenzione ai social media non è una novità assoluta nel sistema ESTA.

Già oggi, infatti, il modulo di richiesta include una sezione dedicata ai profili social del richiedente: viene chiesto di indicare le piattaforme utilizzate e i relativi username, come illustrato anche nelle istruzioni operative disponibili sui portali informativi italiani dedicati alla procedura ESTA.

Questa informazione, tuttavia, ha finora una natura facoltativa e accessoria: non è obbligatoria per completare la domanda, non comporta automaticamente un rigetto in caso di mancata compilazione e non implica la consegna della cronologia dei contenuti pubblicati.

Secondo le FAQ ufficiali del sito esta.cbp.dhs.gov, le informazioni raccolte attraverso questa sezione sono utilizzate per “enhance the vetting process” e possono aiutare a identificare frodi, incoerenze o minacce alla sicurezza, oltre a supportare la conferma dell’identità in relazione alle altre informazioni dichiarate nel modulo.

La nuova richiesta: cinque anni di profili e dati digitali

La proposta avanzata dal Dipartimento per la Sicurezza interna (DHS), pur non introducendo ex novo il controllo dei social network, ne rafforza peso e portata, trasformando un campo opzionale in un obbligo generalizzato e retrospettivo.

È un passaggio qualitativo, oltre che quantitativo, perché segna il salto da un controllo informativo “debole” a una profilazione digitale preventiva del viaggiatore.

Secondo il documento pubblicato nel Federal Register, il governo intende infatti ampliare in modo significativo la quantità e la tipologia di dati richiesti ai viaggiatori in regime ESTA.

Profili social negli ultimi cinque anni: obbligo e retrospettività

Il punto più controverso riguarda l’obbligo di fornire tutti i profili social media utilizzati negli ultimi cinque anni, indipendentemente dal fatto che siano ancora attivi.

A questi si aggiungerebbero informazioni retrospettive su numeri di telefono, indirizzi email, contatti familiari, oltre a una raccolta più strutturata di dati biometrici.

Per l’ingresso nel Paese, oltre alle dichiarazioni formali e ai precedenti noti, occorrerebbe quindi anche l’analisi dell’identità digitale del viaggiatore, per sua natura frammentata, contestuale e spesso ambigua.

La motivazione ufficiale: sicurezza nazionale e prevenzione anticipata

La giustificazione ufficiale fornita dall’amministrazione è chiara: rafforzare la sicurezza nazionale.

L’analisi dei dati digitali consentirebbe di individuare in anticipo potenziali minacce, riducendo il rischio che soggetti pericolosi sfruttino i canali di ingresso semplificati.

Questa impostazione si inserisce in una tendenza già osservabile negli ultimi anni, soprattutto nell’ambito dei visti per studio o lavoro, dove la richiesta di informazioni sui social media è diventata progressivamente più frequente e approfondita.

Tuttavia, l’ESTA “modificato” rappresenterebbe un salto di scala: la novità reale starebbe nel grado di intrusività e obbligatorietà dei dati richiesti e nel fatto che questo approccio si estenderebbe a milioni di turisti e viaggiatori occasionali.

ESTA USA e social media: privacy, libertà e rischio di sorveglianza

Le reazioni critiche non si sono fatte attendere.

La stampa ha riportato le posizioni delle organizzazioni per i diritti civili e tutela della privacy, che definiscono la proposta come una misura simile a sorveglianza autoritaria e di “censura”, con preoccupazioni specifiche sulla libertà degli individui e l’uso eccessivo dei dati personali per valutare l’ammissibilità dei visitatori.

I social network sono spazi di interazione informale, ironia, opinioni politiche, commenti decontestualizzati, non ambienti “neutri”.

Valutare l’ammissibilità di una persona a partire da contenuti prodotti in uno spazio sociale, addirittura anni prima, rischia di attribuire un valore probatorio a elementi che non lo hanno.

Autocensura e falsi positivi: il costo invisibile

C’è poi il tema della self-censorship: sapere che ogni post, commento o like potrebbe essere esaminato dalle autorità di frontiera potrebbe indurre molti utenti a modificare il proprio comportamento online, con un effetto dissuasivo sulla libertà di espressione globale.

Un costo sociale difficilmente quantificabile e tutt’altro che teorico.

La logica sottostante è quella della prevenzione algoritmica: più dati a monte, maggiore capacità di anticipare comportamenti futuri.

Ma questa logica apre interrogativi sulla reale efficacia e sul rischio di falsi positivi, interpretazioni arbitrarie o discriminazioni indirette.

Turismo, GDPR e confini digitali: il test per l’Europa

Accanto alle questioni giuridiche e culturali, emergono preoccupazioni concrete per il settore turistico.

Gli Stati Uniti sono una delle principali destinazioni mondiali, e il Visa Waiver Program ha storicamente rappresentato un vantaggio competitivo.

L’introduzione di requisiti percepiti come invasivi potrebbe però scoraggiare una parte dei visitatori internazionali, soprattutto quelli provenienti da Paesi con una forte sensibilità in materia di privacy.

Secondo operatori del settore, anche un lieve calo delle prenotazioni potrebbe avere effetti significativi, soprattutto in vista di eventi globali come i Mondiali di calcio del 2026.

Il contrasto con l’approccio europeo alla protezione dei dati personali appare particolarmente evidente.

Il GDPR si fonda su principi cardine come minimizzazione dei dati, limitazione delle finalità, proporzionalità e necessità del trattamento, imponendo di raccogliere solo le informazioni strettamente indispensabili rispetto a uno scopo determinato, esplicito e legittimo.

In questo quadro, la richiesta generalizzata di cinque anni di attività sui social media a milioni di viaggiatori, indipendentemente da profili di rischio individuali, difficilmente supererebbe un test di proporzionalità se applicata all’interno dell’Unione europea.

Il punto, oltre alla quantità dei dati raccolti, riguarda anche la loro natura intrinsecamente sensibile e contestuale: i contenuti social riflettono opinioni politiche, convinzioni personali, reti relazionali e momenti di vita che, nel diritto europeo, richiedono tutele rafforzate.

Si apre così una questione di coerenza e reciprocità: fino a che punto l’Europa può difendere un modello avanzato di tutela dei diritti digitali se non riesce a incidere sulle condizioni di trattamento dei dati dei suoi cittadini fuori dai confini dell’UE?

La proposta non è ancora definitiva: il periodo di consultazione pubblica di 60 giorni potrebbe condurre a modifiche, chiarimenti o ridimensionamenti, anche alla luce delle reazioni internazionali e delle possibili contestazioni sul piano giuridico e dei diritti fondamentali.

Tuttavia, al di là dell’esito formale del processo regolatorio, il segnale politico e culturale è già evidente: l’identità digitale viene progressivamente integrata nei controlli di frontiera come elemento strutturale della valutazione del rischio.

L’ipotesi di estendere l’ESTA alla raccolta sistematica e retrospettiva dei social media rappresenta quindi un passaggio simbolico e sostanziale: ridefinisce il concetto stesso di confine, che non coincide più soltanto con una linea geografica, e incide sulle condizioni di accesso, sui diritti e sulle aspettative di milioni di viaggiatori.

La questione centrale, a questo punto, è a quale costo e con quali garanzie questi strumenti potranno rafforzare la sicurezza.

E soprattutto: occorre interrogarsi se l’accumulo sempre più ampio di dati personali rappresenti davvero il mezzo più efficace per bilanciare sicurezza e libertà, o se non rischi invece di produrre nuove asimmetrie, decisioni non trasparenti e forme di controllo difficilmente sindacabili.

In un mondo iperconnesso, il modo in cui gli Stati governano e governeranno le identità digitali dei viaggiatori è un indicatore rilevante della visione di società, di diritto e di cittadinanza che intendono promuovere oltre i propri confini.

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