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Figli online: perché vietare non basta per educare



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Sharenting, ritiro sociale, ansia digitale: i minori vivono una complessità che gli adulti semplificano con allarmi. Occorre regolamentare con responsabilità e formare genitori e insegnanti a un uso consapevole delle tecnologie, trasformando la scuola in spazio di depolarizzazione

Pubblicato il 23 dic 2025

Mirta Michilli

direttrice generale della Fondazione Mondo Digitale



Ragazzi e social uso consapevole dei social; algoritmi salute mentale educazione digitale

L’educazione digitale è al centro di un dibattito sempre più polarizzato, dominato da slogan e soluzioni semplicistiche. Eppure, dopo vent’anni di piani e proposte, siamo ancora lontani da un approccio capace di accompagnare davvero i ragazzi nella complessità del mondo firtuale.

Educazione digitale: oltre slogan e divieti inefficaci

L’ultima volta che ho partecipato a un panel sull’educazione digitale, ho avuto un déjà-vu: sembrava un talk televisivo, con toni troppo alti, sguardi d’intesa spazientiti e molte frasi fatte.

Un relatore spiegava che “basta educare i genitori”, un altro che “bisogna vietare gli smartphone fino ai sedici anni”. Nessuno si chiedeva come mai, dopo vent’anni di piani digitali, siamo ancora fermi agli slogan. Forse perché abbiamo importato nel dibattito educativo la grammatica dei social: semplificare, polarizzare, cercare consenso. Ma educare richiede l’opposto: complessità, pazienza, capacità di tenere insieme i contrari.

Quando il talk show entra nelle politiche educative

La polarizzazione non è più solo un fenomeno da social. È entrata nei convegni, nei dibattiti parlamentari, nelle linee guida. Si moltiplicano le proposte di legge sui minori e i media: limiti di età, blocchi automatici, parental control obbligatori. Misure nate da ottime intenzioni, proteggere, ma spesso figlie di un riflesso condizionato: contenere invece di comprendere. L’allarmismo vende, il discernimento no.

Eppure, la realtà dei ragazzi è più sfumata di qualunque hashtag. Vivono in uno spazio che non è solo online o offline, ma firtuale, come lo chiamiamo alla Fondazione Mondo Digitale, cioè un intreccio continuo di esperienze fisiche e virtuali, dove si formano relazioni, linguaggi, identità. È lì che si cresce oggi. Quando il dibattito si sposta sul piano del “vietare o permettere”, l’educazione si perde. Lo abbiamo visto anche nei media: ogni incidente online diventa occasione per chiedere più regole, più filtri, più divieti.

Ma nessuna app di parental control può sostituire una relazione di fiducia. Non serve un nuovo confine, serve un nuovo patto educativo. Educare nel firtuale significa accompagnare, non sorvegliare. Significa costruire nei ragazzi la capacità di distinguere per integrare: riconoscere i rischi senza demonizzare le opportunità, capire come funziona un algoritmo, ma anche come funziona un’emozione. Significa, soprattutto, aiutare gli adulti a non disimparare l’ascolto.

I numeri della complessità digitale

96% dei minori europei accede a Internet da smartphone. In Italia, l’uso quotidiano dello smartphone tra i bambini di 6-10 anni è salito dal 18% nel 2019 al 33% nel 2023, con un picco del 44% nel Mezzogiorno.

Tra gli 11 e i 13 anni, quasi uno su due (45%) usa i social network, nonostante il limite legale di 14 anni.

Il 15,6% delle ragazze e il 14,1% dei ragazzi mostra un uso problematico dei social media; il fenomeno cresce con l’età tra le ragazze (fino al 18,5% a 15 anni). Il 30% dei maschi undicenni presenta comportamenti di dipendenza da videogiochi; il dato scende ma resta alto a 15 anni (22%). Un adolescente su cinque dichiara di sentirsi ansioso o nervoso quando è senza il proprio dispositivo digitale.

L’Italia registra ancora forti disuguaglianze territoriali nelle competenze digitali: il 17% degli studenti del Sud e il 32% nelle isole non raggiunge il livello minimo di alfabetizzazione digitale (ICILS 2023).

Eppure, gli studi internazionali dimostrano che i divieti assoluti (come il bando dello smartphone a scuola) producono benefici marginali e non migliorano il benessere né il rendimento. I comportamenti rischiosi diminuiscono solo quando alla regolazione si affiancano percorsi educativi strutturati, capaci di sviluppare autonomia, autocontrollo, empatia e senso critico.

In sintesi: la sfida non è “quanto” stare online, ma come e con chi. Solo un approccio fondato su evidenze scientifiche e cura educativa può rendere lo spazio digitale un ambiente di crescita, non di ansia.

(Fonti: I-Com, Istituto Superiore di Sanità, Ocse, Save the Children, Euroconsumers 2025)

Uno sguardo senza filtri sulla fragilità adolescenziale

Anche l’ultimo Atlante dell’infanzia di Save the Children mostra una generazione più fragile e complessa di quanto lasci intendere il dibattito pubblico. Ancora qualche dato: 1 adolescente su 5 vive ansia o irritabilità quasi ogni giorno; 3 su 4 sentono il bisogno di un supporto psicologico, ma solo 1 su 5 ha accesso a servizi adeguati. Una evidente frattura generazionale separa adulti e ragazzi nell’uso dell’intelligenza artificiale: i giovani la esplorano molto più rapidamente, spesso senza una guida. Bullismo e cyberbullismo coinvolgono oltre il 22% degli studenti.

L’Atlante insiste su un punto che attraversa tutto il contributo: non servono allarmi o divieti, ma adulti capaci di ascoltare. Gli adolescenti, osserva Save the Children, spesso colgono per primi i cambiamenti (clima, IA, ingiustizie), mentre gli adulti rispondono con semplificazioni, moralismi o panico.

Così la frattura tra generazioni si allarga proprio quando la complessità richiederebbe alleanze, co-progettazione e competenze condivise. Da meditare anche quanto ci ricorda il presidente della Fondazione Minotauro Matteo Lancini sugli hikikomori: al contrario di quanto crediamo gli adolescenti con le forme più gravi di ritiro sociale non usano Internet. Solo riconoscendo le diverse forme di complessità possiamo smettere di reagire per allarmi e cominciare a educare davvero.

Quando i genitori diventano influencer

Le nuove forme di esposizione dei minori sui social, il cosiddetto sharenting, ci mostrano una genitorialità sempre più confusa e inadeguata. Secondo la ricerca “Protagonisti consapevoli?” realizzata da Terre des Hommes Italia e Università Cattolica (2025), i figli appaiono nel 46% dei contenuti pubblicati dai family influencer e partecipano attivamente in un terzo dei messaggi pubblicitari. Solo nel 2% dei casi vengono adottate forme di tutela dell’immagine (volti oscurati, pixel o emoticon). Nel 29% dei contenuti compaiono situazioni potenzialmente problematiche per la privacy, e nel 21% momenti intimi della vita quotidiana, come bagnetto, nanna, pianto. Come ricorda Federica Giannotta di Terre des Hommes, quando un genitore trasforma il proprio figlio in parte di un’attività commerciale “assume di fatto un doppio ruolo: datore di lavoro e genitore, con il rischio di compromettere la relazione di fiducia e sicurezza su cui si fonda l’infanzia”. La soluzione non è proibire, ma comprendere: regolamentare come si regolamentano le forme di lavoro minorile, e al tempo stesso formare i genitori a un uso consapevole dell’immagine dei figli. Un approccio educativo basato su consapevolezza, dati e responsabilità: anche questo è “essere adulti” nel mondo digitale.

La scuola come spazio di depolarizzazione

Il rischio è che anche la scuola, luogo naturale del dialogo, assorba la logica binaria del web: buono o cattivo, utile o pericoloso. Ma l’educazione vive di sfumature, di tempi lunghi, di errori che diventano apprendimento. Gli insegnanti non sono architetti del digitale, ma mediatori di senso e allenatori di complessità: aiutano i ragazzi a distinguere prima di giudicare, a riconoscere le ambiguità come parte del pensiero critico, a trasformare ogni post, video o chatbot in un’occasione per capire e non per reagire.

Così la scuola può tornare a essere il primo spazio di depolarizzazione, dove si impara a discutere senza distruggere, a costruire regole condivise e a progettare la rete invece di subirla.

Non dobbiamo semplificare, dobbiamo risolvere

Lo dico spesso: il modello di interazione dei social non può diventare il modello diffuso di confronto tra esperti. Se vogliamo davvero costruire visioni condivise su media, intelligenza artificiale e minori, dobbiamo cambiare metodo. Non più tavole rotonde in cui si contano i minuti e i like, ma momenti di co-progettazione e ascolto reale. A volte basterebbe un semplice esercizio di facilitazione, come Lego Serious Play: si smontano le certezze, si costruiscono scenari, si ascoltano i punti di vista. È un modo concreto per ricordare che il pensiero, come i mattoncini, funziona solo se si incastra con quello degli altri.

Depolarizzare il dibattito non è un lusso accademico, è una necessità democratica. Perché se ci abituiamo a pensare solo per estremi, finiremo per educare i nostri figli allo stesso modo: o dentro o fuori, o con me o contro di me. E invece la complessità è la palestra della libertà. Per questo la Fondazione Mondo Digitale propone un modello di cittadinanza digitale fondato sulla cura educativa: educazione prima della regolazione, partecipazione prima della protezione, fiducia prima del controllo. Il benessere digitale dei ragazzi è un diritto educativo, non un effetto collaterale.

Una lezione dai ragazzi

Alla fine, sono proprio loro, i ragazzi, a darci la lezione più semplice e più difficile: chiedono coerenza, non perfezione. Quando un adulto sbaglia e lo ammette, quando un insegnante cambia idea, quando un genitore prova a capire prima di giudicare, il messaggio è più forte di qualunque filtro o algoritmo.

Matteo Lancini, nel suo libro “Chiamami adulto”, ricorda che i ragazzi cercano adulti affidabili, non impeccabili. E forse dovremmo chiederci anche noi, ogni volta che discutiamo di loro, se possiamo davvero essere chiamati adulti. Essere adulti significa saper gestire la complessità senza trasformarla in allarme, accogliere la vulnerabilità senza farne uno stigma, costruire fiducia invece di schierarsi.

È da lì che può nascere una nuova educazione nel mondo firtuale: meno urla, più ascolto; meno divieti, più relazioni. Perché crescere, oggi, è un esercizio collettivo di umanità.

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