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AI, meno lavoro per tutti (ma più produttivo)? Il punto sugli studi



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Qual è l’impatto dell’intelligenza artificiale sul lavoro, alla luce delle ultime evidenze? Ci sono studi contradditori, sia sull’aumento di produttività possibile sia sugli impatti su occupazione. Una cosa certa è che nel 2025 l’AI generativa sta entrando stabilmente nei processi aziendali. Facciamo il punto

Pubblicato il 31 ott 2025

Maurizio Carmignani

Founder & CEO – Management Consultant, Trainer & Startup Advisor



intelligenza artificiale e lavoro studi

Nel 2025 l’intelligenza artificiale generativa comincia a entrare stabilmente nei processi aziendali.

Emergono due elementi contrapposti, però: da una parte non è ancora chiaro quanto l’AI incida su lavoro e su produttività (ci sono studi discordanti); dall’altra, un crescente numero di aziende dice di stare licenziando o – più spesso – rallentando le assunzioni per via dell’AI, ma non è chiaro se davvero questa sia il fattore determinante.

Wharton School, 2025

AI e lavoro, gli ultimi studi

Sul primo punto: i recenti dati della Wharton School mostrano un’adozione importante e ritorni economici significativi; al tempo stesso, gli studi del Budget Lab di Yale e il paper di Hosseini & Lichtinger dell’Università di Harvard evidenziano che l’effetto occupazionale è ancora contenuto, ma con segnali preoccupanti per le fasce junior e per i lavoratori cognitivi di medio livello.

Una riflessione necessaria riguarda la reale efficacia delle iniziative AI nelle imprese. Come abbiamo avuto modo di scrivere di recente analizzando lo studio del MIT Project NANDA The GenAI Divide: State of AI in Business 2025 oltre l’80% delle aziende ha testato strumenti di AI generativa, quasi il 40% li ha implementati, ma solo il 5% dichiara un ritorno misurabile in termini di produttività.

Più ottimistica la ricerca Wharton‑GBK.

Rileva che:

  • 82% dei leader aziendali usa strumenti di AI generativa ogni settimana; 46% ogni giorno.
  • 72% misura l’ROI e tre su quattro dichiara risultati positivi.

Dentro le imprese: l’AI è ormai mainstream

La ricerca Wharton–GBK 2025 fotografa quindi un salto di scala: l’82% dei leader aziendali usa strumenti di AI generativa almeno una volta a settimana, e il 46% ogni giorno. Il 72% misura formalmente il ritorno sull’investimento, tre su quattro dichiarano risultati positivi.

L’AI permea i flussi di lavoro: analisi dati, sintesi di meeting, redazione testi, automazione in finanza, HR e IT. Ma cresce anche l’asimmetria tra vertice e middle management. I primi vedono un orizzonte strategico e ROI crescenti; i secondi, carichi di lavoro e attrito organizzativo. “Per chi deve implementare, l’AI oggi è più lavoro, non meno”, osserva Stefano Puntoni, coautore della ricerca.

L’entusiasmo manageriale si traduce in una produttività percepita che spesso maschera nuove forme di pressione cognitiva.

La percezione di lavorare di più non è solo aneddotica, le survey qualitative della ricerca Wharton–GBK confermano che molti lavoratori, in particolare nei livelli intermedi, segnalano un aumento delle ore e della pressione operativa, collegando direttamente la diffusione dell’AI al ritmo crescente delle attività.

Chi lavora con la testa sa che, da quando c’è la tecnologia, lavora di più. L’orario non è più un vincolo e con l’AI anche la certezza del posto inizia a svanire. Mentre i dati macroeconomici raccontano stabilità, nelle aziende si moltiplicano segnali di efficienza e tagli.

L’intelligenza artificiale non ha ancora rivoluzionato il lavoro, ma ne ha già cambiato la grammatica: aumenta la produttività, riduce la manodopera e polarizza le opportunità. Le survey della Wharton–GBK mostrano come questa percezione di maggiore intensità lavorativa sia condivisa: anche se la maggioranza dei dirigenti dichiara benefici evidenti, molti middle manager segnalano un aumento delle pressioni e della complessità operativa.

Impatto su occupazione

Il Budget Lab di Yale, in linea con le analisi del paper di Hosseini & Lichtinger dell’Università di Harvard, mostra che le grandi trasformazioni occupazionali non si manifestano immediatamente nei dati aggregati, ma iniziano a incidere su segmenti specifici del mercato del lavoro.

Entrambe le ricerche confermano che la vera discontinuità si nasconde nella qualità dei ruoli e nei percorsi di carriera, più che nei numeri totali dell’occupazione. Il Budget Lab di Yale ha analizzato 33 mesi di dati post-ChatGPT (novembre 2022–luglio 2025) e non trova rotture nel mercato del lavoro: la composizione occupazionale resta stabile. Le variazioni settoriali erano già in corso prima del 2022 e non si osservano legami forti tra esposizione all’AI e disoccupazione.

L’effetto AI è lento, distribuito, e, come indicano gli autori del Budget Lab di Yale, dovrebbe richiedere decenni per produrre impatti macro, in linea con quanto avvenuto in precedenti rivoluzioni tecnologiche come l’introduzione dei computer e di Internet. Ma stabilità non significa inerzia, sotto la superficie, il lavoro sta cambiando.

Dove l’AI inizia a mordere: il ceto medio cognitivo

L’intelligenza artificiale inizia a mostrare i suoi effetti più visibili nel cuore del lavoro cognitivo: il ceto medio professionale, fatto di giovani laureati, analisti, project manager e figure intermedie. È qui che la promessa di efficienza diventa una selezione implicita, premiando chi ha già esperienza o può garantire costi minori. Come evidenziato nel paper di Hosseini & Lichtinger dell’Università di Harvard, “Generative AI as Seniority-Biased Technological Change”, l’adozione dell’AI ha prodotto una riduzione del 7,7% delle assunzioni junior nelle imprese che la integrano realmente nei processi, rispetto a quelle che non la usano.

Le aziende trattengono i profili top e quelli più economici, ma tagliano il centro, cioè la fascia intermedia che tradizionalmente garantiva mobilità e crescita. Questo modello, definito dagli autori come pattern a U, ridisegna la struttura stessa delle opportunità: sopravvivono gli eccellenti e i low-cost, mentre la classe media cognitiva si assottiglia. È il segnale più chiaro che l’AI non sostituisce il lavoro in blocco, ma lo polarizza, spingendo le imprese a riorganizzare criteri di selezione, carriere e formazione in base a una nuova logica di costo-prestazione percepita.

Le grandi imprese tagliano: efficienza strutturale

I casi raccontati nei giorni scorsi dal Wall Street Journal confermano in modo evidente le tendenze micro già descritte rafforzando il nesso tra efficienza tecnologica e contrazione delle assunzioni, soprattutto nei ruoli junior e di medio livello. Amazon è il caso emblematico.

Ha annunciato 14.000 licenziamenti corporate , prima ondata di un piano che arriverà a 30.000 posti in meno, circa il 10% della sua forza lavoro bianca. I tagli toccano HR, cloud, advertising e operation.

Andy Jassy, CEO, è stato chiaro: “Man mano che implementiamo più AI generativa e agenti, cambierà il modo in cui lavoriamo. Ci aspettiamo che questo riduca la nostra forza lavoro corporate.”

Il caso Amazon non è isolato. Meta, UPS, Target, GM, Booz Allen e Walmart seguono la stessa logica: crescere senza assumere.

Walmart ha recentemente segnalato che intende mantenere invariato il numero dei dipendenti nei prossimi anni, in gran parte grazie all’IA.

Goldman Sachs ha annunciato una nuova serie di licenziamenti questo mese, affermando che intende ridurre i ruoli umani che potrebbero essere svolti dall’IA.

Salesforce ha recentemente ridotto la sua forza lavoro di 4.000 unità, citando “i vantaggi e l’efficienza” dell’IA.

L’AI diventa così una leva di efficienza permanente: più margini, meno persone. L’efficienza cresce, ma a costo della contrazione delle opportunità di ingresso e della compressione del lavoro cognitivo di medio livello.

Resta il dubbio che l’AI sia in molti casi usata solo come un pretesto per tagliare, come dice il professore del MIT David Autor a Nbc News: “Per un’azienda è molto più facile dire ‘Stiamo licenziando dei dipendenti perché stiamo ottenendo efficienze legate all’intelligenza artificiale’ piuttosto che dire ‘Stiamo licenziando dei dipendenti perché non siamo così redditizi o siamo troppo gonfiati, o stiamo affrontando un rallentamento dell’economia, ecc.’”.

Il lato umano: precarietà e nuove esclusioni

Dietro le statistiche e i grafici ci sono persone in carne e ossa, con percorsi professionali spezzati e prospettive incerte.

La nuova efficienza alimentata dall’AI si traduce in una crescente precarietà per chi lavora nel mondo cognitivo: migliaia di impiegati, manager e professionisti faticano oggi a ricollocarsi o a immaginare una traiettoria stabile.

  • La storia di Chris Reed, 33 anni, che dopo 10 mesi e più di 1.000 candidature ha lasciato la tecnologia per vendere auto, rappresenta solo un frammento di una trasformazione più ampia: un sistema che espelle competenze prima centrali e non offre percorsi di rientro.
  • Kobe Baker, 23 anni, laureato, racconta la sensazione di aver studiato per un mondo che non lo aspetta più, mentre molti suoi coetanei rinviano la ricerca di lavoro o accettano occupazioni di ripiego.

La generazione dei neolaureati è la prima a sperimentare in modo diretto la contrazione del lavoro cognitivo, più qualificata, meno richiesta, costretta a muoversi in un mercato dove l’esperienza e la capacità di dialogare con l’AI contano più dei titoli di studio. A questa precarietà materiale si somma un disagio psicologico crescente, fatto di perdita di senso, ansia da sostituzione e paura di restare irrilevanti.

L’AI non solo ridisegna le mansioni, ma mette in discussione la stessa idea di stabilità professionale.

Secondo i dati federali citati dal Wall Street Journal, quasi due milioni di persone negli Stati Uniti sono disoccupate da più di 27 settimane, un numero che indica un crescente fenomeno di disoccupazione di lunga durata. Allo stesso tempo, i tassi di riassorbimento post-licenziamento per i lavoratori white-collar risultano inferiori a quelli del periodo pre‑pandemico. Le ricerche aiutano a leggere questi segnali micro come parte di una tendenza strutturale, l’efficienza tecnologica riduce la domanda di lavoro qualificato senza tradursi, almeno nel breve periodo, in nuovi spazi occupazionali.

L’AI sta ridefinendo il lavoro

L’intelligenza artificiale non ruba posti di lavoro nel senso tradizionale, non necessariamente si comporta come un sostituto diretto, ma come un moltiplicatore di efficienza che cambia il modo stesso in cui il lavoro viene organizzato e valutato. La sua forza è quella di infiltrarsi nei processi esistenti, automatizzando compiti ripetitivi e spostando il valore aggiunto verso funzioni di supervisione, interpretazione e controllo dei sistemi.

Ciò significa che il lavoro non sparisce, ma si riconfigura: alcune mansioni diventano ridondanti, altre nuove emergono, e molte vengono ibridate. La ridefinizione non è neutrale. Implica un cambiamento nella distribuzione del potere tra capitale e lavoro, nella composizione delle competenze richieste e nella percezione del tempo lavorativo. Il lavoratore umano resta centrale, ma più che mai esposto a metriche di produttività continua e all’obbligo di aggiornarsi per restare rilevante. In questo scenario, la sfida non è difendere l’occupazione in sé, ma assicurare che il lavoro mantenga valore, autonomia e dignità nell’era dell’automazione intelligente.

L’AI non ha (ancora) distrutto il lavoro, ma ne sta cambiando la natura. Dentro le aziende, aumenta la produttività; fuori, restringe i varchi d’ingresso e ridisegna le gerarchie.

Non sostituisce l’uomo, lo spinge a lavorare diversamente, più intensamente e con meno garanzie. La sfida politica e formativa non è proteggere i posti, ma governare la transizione: creare competenze, ridare tempo e senso al lavoro cognitivo. Bisogno iniziare a riscrivere il patto tra efficienza e dignità.

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