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App per il ciclo mestruale: quando l’empowerment diventa sorveglianza



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Le app per il ciclo mestruale si presentano come strumenti di conoscenza e autonomia, ma operano anche come tecnologie biopolitiche. Attraverso linguaggi medici, gamification e raccolta sistematica di dati corporei, contribuiscono a normalizzare comportamenti e vissuti legati alla salute riproduttiva femminile

Pubblicato il 11 dic 2025

Cristina Ferrigno

Giornalista pubblicista e dottoranda UniMe



diritto di rettifica identità di genere femtech app ciclo mestruale

In uno scenario come quello odierno, in cui tutti gli aspetti della vita sociale sono legati ai media digitali (Couldry e Hepp, 2017; Hepp, 2019), e dominato dalle logiche della piattaformizzazione (Van Dijck, Poell e de Waal, 2016), la centralità del dato in ambiti della vita finora considerati non computabili chiama a una riflessione critica, ponendo nuove questioni sulle modalità di configurazione e rappresentazione dell’esperienza umana.

Il processo di datafication (Mayer-Schönberger e Cukier, 2013) ha reso, infatti, ogni dimensione della vita misurabile – emozioni, comportamenti, relazioni sociali e, in modo progressivamente più invasivo, la salute e il corpo umano – sottoponendola all’elaborazione di complessi modelli algoritmici, estremamente pervasivi (Mazzotti, 2015), la cui struttura di base (“if > then”) è accessibile, mentre gli scopi reali e le modalità operative restano largamente opachi (Centorrino e Romeo, 2023).

L’estensione della digitalizzazione all’ambito della salute, nello specifico, ha prodotto una serie di fenomeni identificati con le espressioni e-health o digital health, con le quali si intende l’impiego delle tecnologie informatiche proprio a beneficio della salute umana. Questa definizione non si circoscrive ai soli dispositivi utilizzati in ambito medico, clinico o ospedaliero, ma comprende anche le pratiche legate alla salute individuale. La sua ampiezza permette di includere anche le tecnologie di self-tracking, la cui logica è proprio quella della datificazione: dai sensori per il rilevamento del battito cardiaco a quelli per il calcolo delle calorie; dal monitoraggio delle fasi del sonno al conteggio dei passi quotidiani, ecc. Tali strumenti sono integrati nei nostri smartphone e nei dispositivi indossabili più diffusi, come smartwatch e wristband, e costituiscono un’area ancora più specifica della digital health, che viene definita mHealth (mobile health). Tra questi rientrano a pieno titolo, per introdurre uno dei temi del nostro contributo, le applicazioni per il monitoraggio del ciclo mestruale.


App ciclo mestruale tra datificazione e self-tracking

La datafication rappresenta il presupposto tecnologico e culturale per lo sviluppo delle applicazioni mobili di self-tracking. Generando una continua produzione di dati personali, è il corpo stesso a diventare una fonte costante di informazioni. Il movimento del Quantified Self, coniato da Gary Wolf e Kevin Kelly nel 2007 (Swan, 2013), rappresenta una delle espressioni più emblematiche della datafication applicata alla sfera personale. Esso si fonda sull’idea che l’automonitoraggio dei parametri corporei, comportamentali e cognitivi consenta una forma di conoscenza di sé attraverso i numeri.

L’individuo viene quindi concepito come entità misurabile e costantemente valutata attraverso indicatori quantitativi. Si potrebbe definire come una forma di dataismo[1] (van Dijck, 2014; Bennato, 2024), che rimuove la riflessione soggettiva sulla salute individuale per affidarsi ciecamente a una presunta obiettività del dato.

Quantified Self, dataismo e responsabilità sulla salute

Questa logica, tuttavia, che è appunto alla base della quantificazione e del movimento del QS, non si limita alla conoscenza, ma punta all’ottimizzazione attraverso lo spostamento di responsabilità all’individuo, promuovendo l’autogestione individuale della salute, che è coerente con le retoriche neoliberiste (Maturo e Moretti, 2019) dell’efficienza e dell’autonomia.

Come sottolinea Zampino (2024), «la digitalizzazione del benessere quotidiano se da un lato contribuisce a democratizzare l’accesso al sapere medico, dall’altro alimenta una visione neoliberale dei sistemi sanitari pubblici incentrati sul concetto di promozione della salute che delega al singolo cittadino la responsabilità di adottare modelli comportamentali salutari volti a ottimizzare il proprio stato di salute e cercare di prevenire, così, l’insorgere di malattie e ridurre, laddove possibile, l’ospedalizzazione per le patologie croniche» (p. 18). In questa prospettiva, il benessere quotidiano diventa oggetto di una costante autovigilanza.

La promessa di una conoscenza oggettiva attraverso numeri e grafici si intreccia con processi di standardizzazione e normalizzazione dei comportamenti, nei quali la persona diventa al tempo stesso consumatore e produttore di dati, ma anche oggetto di analisi e profilazione algoritmica.

Gamification della salute e cultura della performance

Le applicazioni per la salute e il fitness, quali, solo per citarne alcune, “Strava”, “Health Tracker”[2] e “Zombies, Run!” sono l’esempio emblematico di questi fenomeni. L’ottimizzazione della salute, responsabilità del singolo individuo, passa attraverso il miglioramento della performance, e quest’ultima può essere raggiunta e garantita nel tempo attraverso i meccanismi della gamification (Maturo e Setiffi, 2020; Centorrino e Ferrigno, 2023), ovvero l’utilizzo delle logiche e dei meccanismi del videogioco applicati ad ambiti seri (Groh, 2012).

L’obiettivo, talvolta dichiarato, di queste applicazioni è l’empowerment degli utenti/pazienti, ovvero l’emancipazione e il miglioramento dell’agency attraverso la conoscenza delle proprie informazioni di salute.

Attraverso la gamification l’utente sarà invogliato a potenziare le prestazioni grazie a un sistema che fa leva sul piacere e sulla dimensione ludica, piuttosto che sulla disciplina e sullo sforzo (Whitson, 2013).

Datificazione, quantificazione e gamification sono chiaramente fenomeni interconnessi: mentre attraverso i primi due processi i dati, apparentemente oggettivi, vengono raccolti e archiviati, la gamification – attraverso il ricorso a ranking, parametri e statistiche – promette di organizzarli in maniera altrettanto neutra (che sarebbe garantita da processi completamente automatizzati, quindi dagli algoritmi), per stimolare gli utenti ad assumere comportamenti considerati virtuosi (come, per esempio, effettuare i diecimila passi al giorno, una raccomandazione dell’OMS per incentivare le persone a svolgere attività fisica).

La parametrizzazione è la versione videoludica della datificazione e della classificazione che caratterizzano il mondo digitale (Bolter, 2019). Gli indicatori, tuttavia, gli strumenti per organizzare e interpretare i dati, sono costrutti sociali e come tali non possono essere oggettivi, né neutrali, ma sono sempre il frutto dell’incontro tra scienza, tecnica e politica (Merry, 2016).

In questo scenario, la sorveglianza contemporanea diventa auto-sorveglianza. David Lyon (2018), nel parlare di una cultura della sorveglianza, sottolinea come quest’ultima non si eserciti più soltanto in forma repressiva, ma assuma un carattere diffuso e partecipativo: le persone diventano al tempo stesso soggetti e oggetti della raccolta di dati. È un processo che agisce attraverso pratiche di normalizzazione, categorizzazione e valutazione costante, che modellano il modo in cui gli individui comprendono se stessi e i propri corpi.

Nella prospettiva di Shoshana Zuboff (2019), la cultura della sorveglianza promuove forme di controllo attraverso gli algoritmi. Le piattaforme digitali e le tecnologie di monitoraggio non si limitano a raccogliere informazioni, ma estraggono un surplus comportamentale: una massa di dati eccedenti prodotti dalle interazioni quotidiane, che vengono analizzati per prevedere e orientare i comportamenti futuri e che alimentano il capitalismo della sorveglianza.

Ai processi fin qui descritti, si lega anche quello della medicalizzazione, che non ha le sue origini nel mondo digitalizzato e mediatizzato, ma è – come si vedrà nel paragrafo successivo – la tendenza a trasformare comportamenti dapprima non patologici in una forma di malattia: tutto ciò che non rientra nello standard, può (e deve) essere interpretato come patologico. Le applicazioni per la salute possono diventare driver di medicalizzazione (Moretti, Maturo e Atzori, 2018). Questo meccanismo assume una dimensione particolare se a tali fenomeni applichiamo la lente del genere.


Medicalizzazione e biopolitica del corpo femminile

Ivan Illich (1976) analizza il potere della professione medica, evidenziando come essa sia investita dell’autorità di definire i confini tra benessere e patologia. L’autore afferma che è la medicina a detenere il monopolio di definire cosa sia una malattia per un individuo che ne lamenta i disturbi, di designare uno stato patologico in assenza di lamentele esplicite e, contestualmente, di negare il riconoscimento sociale della sofferenza, della disabilità o persino della morte. Al professionista sanitario spetta dunque la facoltà di discernere cosa meriti l’etichetta di sintomo e chi, quindi, debba essere etichettato come malato. Tale autorità si è amplificata enormemente nelle società industrializzate, dove la classificazione sociale è talmente permeata dalla clinica che anche ogni forma di devianza richiede una validazione diagnostica. Il fenomeno in questione – descritto come uno dei mutamenti più incisivi dell’Occidente nel XX secolo (Clarke et al., 2003) – è stato definito medicalizzazione (Conrad, 2007), che descrive l’estensione, avvenuta negli ultimi settant’anni, della giurisdizione medica (diagnosi e interventi terapeutici) verso aspetti dell’esistenza e problemi precedentemente non considerati di pertinenza clinica, i quali sono stati progressivamente ricondotti alla categoria di disturbi o malattie.

Dopo essersi estesa alla devianza, secondo Conrad (2007) la medicalizzazione ha allargato i suoi confini fino a includere anche eventi biologici naturali come il ciclo mestruale, la contraccezione, l’infertilità, il parto, la menopausa, stati clinicizzati, sebbene con vari livelli di intensità.

Dagli anni ’80 in poi, il contesto medico è stato attraversato da rilevanti trasformazioni che hanno significativamente impattato sulla salute e modulato ulteriormente la medicalizzazione (Conrad, 2009). L’autore ritiene che il “periodo d’oro della professione medica” (McKinlay e Marceau, 2002) sia terminato con l’ingresso di nuovi attori in un sistema sempre più inquadrato secondo logiche economiche e di gestione dei costi. In particolare, nel contesto nordamericano, si assiste all’affermazione di big pharma come settore altamente remunerativo, e alla crescente importanza delle biotecnologie e della genomica.

La medicina acquisisce nuove connotazioni, portando, a partire dagli anni ’90, a un’intensificazione della medicalizzazione e delle pratiche biomediche, grazie anche all’incontro con le innovazioni tecno-scientifiche (Clarke et al., 2003). Il concetto di biomedicalizzazione è stato descritto come uno stadio successivo alla medicalizzazione – un prodotto della post-modernità o tarda modernità – dove il prefisso “bio” simboleggia «le modifiche sia dell’umano che del non-umano rese possibili da progressi tecno-scientifici quali la biologia molecolare, le biotecnologie, la genomizzazione, la medicina dei trapianti e le nuove tecnologie mediche» (Clarke et al., 2003, p. 162, t.d.a.).

I fenomeni connessi che rafforzano tale processo sono la mercificazione della salute e l’avanzamento delle biotecnologie e delle tecnoscienze, agenti primari della medicalizzazione (Conrad, 2009).

Nel nuovo paradigma biomedico la malattia non è più concepita come un evento da diagnosticare e trattare dopo la manifestazione dei sintomi, bensì in ottica di prevenzione del rischio: il soggetto non è più semplicemente sano o malato, ma viene collocato in uno stato di potenziale morbilità, dove la salute stessa diventa un terreno di intervento continuo (Rose, 2007). L’individuo è chiamato a esercitare una responsabilità continua verso il proprio corpo, traducendo la cura in un insieme di pratiche di autovalutazione e auto-ottimizzazione.

Foucault non utilizza il termine medicalizzazione, tuttavia in “Nascita della clinica” (1963) ne tratteggia gli elementi distintivi, affermando che la medicina, in particolare quella moderna, è una costruzione sociale non imparziale, ma plasmata per garantire la stabilità dell’ordine costituito della società capitalistica e funge da sistema di sapere-potere (savoir-pouvoir) che concorre alla regolazione dei corpi. Tutto ciò, come anticipato, risulta significativamente diverso se si riflette sulle esperienze di donne e uomini.

Anche la prevenzione e la sua medicalizzazione, come è stato sottolineato da Pitch (2006), assumono un carattere profondamente diverso per le donne: non è un caso, infatti, che il corpo femminile sia più medicalizzato rispetto a quello maschile, perché è «la natura su cui la cultura (maschile) doveva esercitare il suo dominio» e «rappresenta (proprio per la sua capacità riproduttiva) ancora una minaccia e un pericolo». Per tale ragione, «le pratiche di prevenzione [sono] più puntuali ed estese, l’autovigilanza che esso richiede più intensa» (Pitch, 2006, p. 99).

A partire dalla riflessione femminista, è diventato evidente come il corpo sia, in termini materiali e simbolici, uno dei contesti privilegiati in cui si manifesta l’oppressione strutturale nei confronti delle donne (Ghigi e Sassatelli, 2018). Con l’avvento della società moderna, sono i corpi femminili a diventare l’oggetto principale del processo di medicalizzazione che, come accennato, ha colonizzato tutte le fasi cruciali dell’esistenza, con particolare enfasi su mestruazioni, gravidanza e parto, e menopausa.

Questa centralità della scienza consolida una lettura patriarcale del sapere medico, escludendo progressivamente la competenza e l’autonomia femminile sul corpo riproduttivo. Il parto, per esempio, un tempo vissuto come evento comunitario e domestico, viene assorbito dall’ambiente ospedaliero, dove regole, procedure e gerarchie definiscono ogni gesto. In questo nuovo ordine, la donna che partorisce non è più soggetto attivo del proprio corpo, ma figura subordinata all’autorità medica, ridotta al ruolo di esecutrice delle direttive cliniche (Gensabella Furnari, 2018).

Per quanto concerne le riflessioni sul ciclo mestruale, Emily Martin (1991), in “The Woman in the Body”, ha offerto una delle analisi più influenti sul modo in cui il sapere medico e scientifico ha contribuito a costruire culturalmente il corpo femminile. Attraverso un’accurata lettura del linguaggio biomedico, Martin mostra come i processi riproduttivi e mestruali vengano rappresentati attraverso metafore che riproducono un immaginario androcentrico: l’ovulazione e la mestruazione sono descritte quali fallimenti, sprechi o disfunzioni di un sistema imperfetto, mentre la produzione di spermatozoi è narrata come un processo efficiente, produttivo e orientato al successo.

Questa asimmetria non è neutra, ma contribuisce a naturalizzare una visione gerarchica dei generi, in cui la fisiologia femminile viene associata a passività, imprevedibilità e inefficienza, e quella maschile a razionalità, forza e controllo. In tal senso, Martin mette in luce il modo in cui il discorso medico si inscrive in un più ampio regime simbolico e sociale di disciplinamento dei corpi, rivelando che anche la biologia è culturalmente e politicamente costruita.

Sulla scia di questa prospettiva critica, Chris Bobel (2010; 2019) ha esplorato la politicizzazione delle mestruazioni nei femminismi contemporanei, evidenziando come la cosiddetta menstrual management rifletta tanto pratiche di controllo e normalizzazione dei corpi quanto spazi di resistenza e di agency.

Altre riflessioni (Johnston-Robledo e Chrisler, 2013; Grosz, 1994; Houppert, 1999) hanno ampliato l’analisi verso una prospettiva intersectional e corporeal feminist, mostrando come lo stigma mestruale intersechi questioni di classe, razza e identità di genere. Nel loro insieme, tali contributi evidenziano che le mestruazioni non costituiscono un semplice fatto biologico, ma un fenomeno profondamente politico e culturale, attraverso il quale si riproducono – ma possono anche essere sovvertite – le logiche patriarcali di controllo del corpo femminile.


FemTech, tecnologie di genere e app ciclo mestruale

Il progresso tecnologico e lo sviluppo delle scienze biomediche hanno contribuito alla medicalizzazione del corpo femminile. Barbara Duden (1991) ha mostrato come la nascita della medicina moderna abbia trasformato la percezione soggettiva del corpo in un oggetto di osservazione e misurazione, esternalizzando il sapere corporeo femminile e affidandolo all’autorità medica maschile.

A partire dagli anni Ottanta, studiose femministe hanno iniziato a decostruire l’idea positivista della tecnologia come dominio neutro o meramente strumentale, evidenziando invece come i processi di progettazione, produzione e utilizzo delle tecnologie siano intrinsecamente sociali e culturalmente situati (Wajcman, 1991; Cockburn & Ormrod, 1993). In questa prospettiva, la tecnologia non è semplicemente un insieme di strumenti, ma un sistema di valori, significati e pratiche che riflette – e spesso riproduce – le gerarchie di genere, classe e razza che attraversano le società contemporanee.

Donna Haraway (1991), con la sua celebre metafora del cyborg, ha segnato una svolta teorica nel modo di pensare le relazioni tra corpi, macchine e soggettività, suggerendo una lettura postumana e ibrida dell’esperienza tecnologica. La figura del cyborg permette di superare le dicotomie tradizionali tra naturale e artificiale, maschile e femminile, umano e macchina, aprendo la possibilità di ripensare la soggettività femminile come costruzione fluida e relazionale.

In questo solco, si inseriscono i Feminist Technology Studies (FTS), che costituiscono un ambito di ricerca interdisciplinare che nasce dall’incontro tra gli studi femministi e i Science and Technology Studies (STS), con l’obiettivo di interrogare criticamente i rapporti tra genere, potere e innovazione tecnico-scientifica. Negli sviluppi più recenti, la prospettiva dei FTS si è estesa all’analisi delle tecnologie digitali, delle piattaforme di self-tracking e dei dispositivi di Quantified Self, evidenziando come queste pratiche, pur promuovendo una retorica di autonomia e consapevolezza corporea, possano anche riprodurre nuove forme di sorveglianza e controllo (Lupton, 2016).

Negli sviluppi più recenti, i Feminist Technology Studies hanno trovato un importante campo di applicazione nelle cosiddette FemTech (contrazione di Female Technology), ovvero quell’insieme di tecnologie digitali e biomediche progettate per il monitoraggio, la cura e la gestione della salute femminile: dai dispositivi per il tracciamento del ciclo mestruale alle app per la fertilità, la gravidanza o la menopausa.

Da una prospettiva femminista, le FemTech rappresentano un terreno ambivalente: da un lato offrono nuove possibilità di consapevolezza corporea, autonomia riproduttiva e partecipazione attiva alla gestione della salute (Zampino, 2024; Lupton, 2016); dall’altro, riproducono logiche di controllo e mercificazione dei corpi attraverso la raccolta e l’analisi dei dati biometrici (Lupton, 2019). Possono, infatti, costituire strumenti di autonomia e consapevolezza corporea, ma anche configurarsi quali veicoli di norme di genere che normalizzano determinati modelli di femminilità e salute.

Il corpo mestruale diventa così un dispositivo di produzione di conoscenza e di valore economico, poiché i dati raccolti alimentano circuiti di profilazione nel capitalismo digitale. In questa prospettiva, le FemTech non sono semplicemente tecnologie “per le donne”, ma spazi in cui si intrecciano dinamiche di empowerment, controllo e costruzione sociale del corpo. Emerge, quindi, la necessità di una lettura critica delle tecnologie di genere.

Nel suo studio dedicato alla rappresentazione della sindrome premestruale (SPM) all’interno delle applicazioni di monitoraggio del ciclo mestruale, Letizia Zampino (2019) mostra che tali strumenti digitali contribuiscono a costruire una visione standardizzata e normata del corpo femminile. Le app non si limitano a registrare dati biologici, ma operano una vera e propria prescrizione tecnologica del corpo, traducendo la complessità dell’esperienza mestruale in parametri misurabili e in sequenze di sintomi da gestire e controllare nella quotidianità.

Questo processo di biomedicalizzazione agisce su più livelli: da un lato, riconduce emozioni, sensazioni e stati corporei individuali entro categorie cliniche codificate sotto l’etichetta di “sindrome premestruale”; dall’altro, amplia indefinitamente l’elenco dei dati psicofisici da osservare, producendo un modello di femminilità costantemente sorvegliata e autoregolata.

Le tecnologie digitali, in tal modo, rafforzano una logica di oggettivazione del corpo femminile, che viene interpretato e classificato attraverso schemi medico-scientifici presentati come neutrali ma in realtà intrisi di norme di genere.

La datificazione del ciclo mestruale rende evidente come anche un’esperienza percepita quale naturale e intima venga riformulata secondo parametri culturali e sociali che riproducono ruoli e stereotipi di genere (Zampino, 2019). Il corpo diventa così un territorio di negoziazione tra biologia e cultura, tra autonomia e controllo, mostrando come la tecnologia contribuisca alla costruzione simbolica della femminilità all’interno delle pratiche quotidiane di self-tracking.


Medicalizzazione, stereotipi ed empowerment nelle app ciclo mestruale

Alla luce del quadro teorico fin qui delineato, l’analisi si propone di approfondire le questioni emerse in relazione al rapporto tra tecnologie digitali, medicalizzazione e rappresentazioni del corpo femminile. È stato osservato, infatti, come le applicazioni per la salute – all’interno delle quali si collocano anche le cycle tracking apps – possano agire come dispositivi di medicalizzazione, contribuendo a rafforzare stereotipi di genere e a patologizzare esperienze corporee e comportamenti quotidiani, trasformandoli in oggetti di intervento medico.

Tali tecnologie si fondano su una conoscenza del corpo mediata dai dati, in linea con la logica del Quantified Self, secondo cui il monitoraggio e la misurazione dei parametri personali di benessere, dei sintomi e delle variazioni fisiche costituirebbero strumenti di self-knowledge ed empowerment. Tuttavia, il processo di datificazione che queste pratiche alimentano – attraverso la produzione, l’archiviazione e la gestione algoritmica dei dati corporei – rivela come la promessa di autonomia e consapevolezza possa tradursi in nuove forme di controllo e sorveglianza. L’empowerment promosso dalle applicazioni della salute rischia così di rovesciarsi nel suo contrario, compromettendo proprio quella agency individuale che intendeva potenziare.

Il campione di app analizzate

Tra le applicazioni per il monitoraggio del ciclo mestruale maggiormente diffuse è possibile effettuare una distinzione preliminare. Pur condividendo molte delle funzionalità più comuni – come la registrazione delle mestruazioni, la previsione dell’ovulazione e il tracciamento dei sintomi – alcune di esse si configurano come dispositivi medici certificati, mentre altre operano esclusivamente come strumenti di monitoraggio e supporto informativo.

Il campione analizzato comprende quattro applicazioni rappresentative delle due categorie: Natural Cycles (NaturalCycles AG) e Clue (BioWink GmbH), che rientrano tra le app con riconoscimento medico, e Flo (Flo Health Inc.) e My Calendar (Simple Innovation), che si presentano come applicazioni di tracciamento non medicale.

Natural Cycles è un’applicazione mobile (e un dispositivo medico regolamentato) che utilizza un algoritmo basato sulla temperatura corporea basale e sui dati del ciclo mestruale per calcolare i giorni fertili della persona-utente, al fine di evitare oppure programmare una gravidanza.
Negli Stati Uniti e in Europa è stata autorizzata come dispositivo medico per la contraccezione digitale.

Clue si presenta come app per il monitoraggio del ciclo mestruale e della salute riproduttiva. Permette alle utenti di registrare dati relativi al ciclo, ai sintomi fisici ed emotivi, e a diversi indicatori di benessere. Attraverso l’analisi di queste informazioni, Clue fornisce previsioni personalizzate riguardanti l’ovulazione, la finestra fertile e l’inizio delle mestruazioni. L’app si distingue per l’approccio scientifico e basato su dati salute ed è dotata dall’approvazione CE.

Flo viene descritta come applicazione mobile dedicata al monitoraggio del ciclo mestruale, dell’ovulazione e della salute femminile. Consente di registrare dati relativi a mestruazioni, sintomi fisici, stato emotivo, sonno e attività fisica. Sulla base delle informazioni inserite, l’app utilizza algoritmi di apprendimento automatico per elaborare previsioni personalizzate del ciclo e dell’ovulazione.

My Calendar è un’app per il tracciamento del ciclo mestruale e della fertilità, sviluppata da Simple Design Ltd. Permette di annotare la durata del ciclo, i sintomi, l’umore, la temperatura corporea basale e altri parametri correlati alla salute riproduttiva.

Metodologia dell’analisi discorsiva

L’indagine è stata condotta mediante un’analisi qualitativa del discorso applicata alle descrizioni ufficiali (in lingua inglese) delle applicazioni di cycle tracking, reperite sia sui rispettivi siti web sia sugli store di Google (Play Store) e Apple (App Store).

In una prima fase esplorativa, sulla base della letteratura di riferimento, sono state individuate alcune dimensioni discorsive ricorrenti, successivamente organizzate in tre macro-categorie analitiche: medicalizzazione, stereotipi ed empowerment.

Per ciascuna di queste categorie sono state poi definite sottocategorie operative volte a precisarne le modalità di manifestazione discorsiva. In particolare, la medicalizzazione è stata analizzata distinguendo tra il ricorso al lessico medico-scientifico e il riferimento all’autorità istituzionale (ad esempio menzioni di certificazioni come FDA[3] o CE[4]); la categoria degli stereotipi è stata articolata in due sottodimensioni, una relativa alla sfera emotiva e una alla sfera produttiva; infine, l’empowerment è stato indagato nella sua duplice declinazione di agency (autonomia e conoscenza di sé) e controllo (autodisciplina e sorveglianza del corpo).

La fase di codifica del corpus testuale è stata realizzata manualmente attraverso l’utilizzo del software QDA Miner Lite, che ha permesso di sistematizzare i dati e di quantificare la distribuzione delle categorie all’interno del materiale analizzato.

Risultati: medicalizzazione, stereotipi ed empowerment

I risultati mostrano che la categoria che appare più frequentemente nei testi analizzati è quella della medicalizzazione, con una prevalenza del sottocodice Med_Authority rispetto al Med_Lexical. Ciò sembra suggerire che le app non si limitano a impiegare un linguaggio medico, ma fondano la propria legittimità discorsiva sull’autorità scientifica e professionale.

La ricorrenza di riferimenti a “esperti”, “consulenze mediche” o “informazioni verificate” indica un processo di appropriazione simbolica della medicina: la tecnologia digitale assume i tratti di un dispositivo clinico, rinforzando la dipendenza del soggetto dall’apparato biomedico. Questo dato conferma la tendenza delle applicazioni di monitoraggio del ciclo a riprodurre il paradigma biomedico tradizionale, anziché metterlo in discussione. La medicalizzazione, com’è intuibile, risulta più frequente nelle applicazioni con approvazione FDA o CE (Natural Cycles e Clue).

Rispetto alla categoria degli stereotipi, la codifica mostra una netta predominanza della dimensione emotiva rispetto a quella produttiva, evidenziando come i discorsi delle app rappresentino il corpo femminile in chiave affettiva, relazionale e psicologica. Le mestruazioni vengono associate a emozioni, umore e sensibilità, rinforzando uno stereotipo di femminilità emotiva e potenzialmente instabile.

Nonostante siano stati codificati come Empower_Control, i riferimenti alla pianificazione e controllo delle gravidanze (desiderate e/o indesiderate), al tracciamento delle mestruazioni, ecc., potrebbero rappresentare un sottile rimando alla necessità di garantire una performatività nell’ambito lavorativo che una gestazione potrebbe compromettere.

Anche l’area dell’empowerment è, infatti, molto rappresentata, ma si osserva una forte prevalenza del sottocodice Empower_Control rispetto a Empower_Agency. Questo scarto è significativo: suggerisce che la promessa di emancipazione e autonomia promossa dalle app si traduce principalmente in pratiche di autocontrollo e sorveglianza del corpo, piuttosto che in una reale acquisizione di agency.

Tale ambivalenza riflette le dinamiche del capitalismo della sorveglianza (Zuboff, 2019) e del self-tracking come tecnologia biopolitica (Lupton, 2016), in cui l’autoconoscenza si confonde con l’autoregolazione normativa.


Riflessioni conclusive su salute, dati e genere

L’analisi condotta, sebbene non completamente esaustiva, in quanto limitata alle descrizioni promozionali delle applicazioni per il monitoraggio del ciclo mestruale, ci aiuta tuttavia a tracciare alcune riflessioni conclusive. Le app si presentano, infatti, come strumenti di conoscenza e di empowerment, ma i risultati della codifica sembrano connotare tale promessa all’interno di un modello che pare prediligere la promozione del controllo rispetto all’agency.

La femminilità viene narrata attraverso un linguaggio che coniuga l’autorevolezza scientifica con retoriche di sensibilità ed equilibrio emotivo, riformulando in chiave tecnologica stereotipi già sedimentati in una costruzione sociale della salute fortemente connotata dal punto di vista di genere.

Il ricorso al lessico medico e ai riferimenti all’expertise professionale conferisce legittimità a un sapere che resta, tuttavia, parziale: il corpo mestruale viene reso oggetto di misurazione, interpretazione algoritmica e intervento normativo. In questo senso, queste applicazioni partecipano a un più ampio processo di datificazione del sé, in cui l’intimità corporea diventa una risorsa economica (Zuboff, 2019; Lyon, 2018).

Le app operano come tecnologie biopolitiche (Foucault, 1976), promuovendo il governo dei corpi attraverso pratiche di auto-monitoraggio che trasformano la cura di sé in autogestione.

Le tecnologie digitali legate alla salute femminile, tuttavia, potrebbero contribuire a sviluppare nuove possibilità di consapevolezza e di condivisione dell’esperienza corporea, ridefinendo in parte le relazioni tra sapere medico ed esperienza soggettiva.

Pur tuttavia, alla luce delle riflessioni legate alla datificazionegestione e controllo algoritmico – e sorveglianza e controllo, occorre riflettere criticamente sulle promesse di empowerment e conoscenza attraverso i dati, tenendo in conto che la salute è sempre una costruzione sociale e anche la parametrizzazione, che Bolter (2019) ha elevato a caratteristica del nostro tempo, non si basa su una logica oggettiva ma è profondamente permeata da processi socioculturali e sociotecnici.

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[1] Una fiducia cieca nei confronti del dato elevato a strumento in grado di garantire la comprensione del mondo.

[2] Adottare l’approccio di genere non significa assumere una prospettiva femminile, quanto piuttosto riconoscere che anche all’interno dei processi socioculturali e sociotecnici ci sono delle disuguaglianze tra donne e uomini, che non derivano da fattori naturali, bensì da processi storici, culturali e sociali che le producono e le mantengono.

[3] Negli Stati Uniti, la regolamentazione dei dispositivi medici rientra nelle competenze della Food and Drug Administration (FDA).

[4] Il marchio CE rappresenta l’autorizzazione alla commercializzazione di un dispositivo medico all’interno dello Spazio Economico Europeo (SEE).

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