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Disinformazione, Trump rompe i patti Usa-Ue: Europa più esposta



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La decisione degli Stati Uniti di interrompere la cooperazione transatlantica contro la disinformazione rappresenta un passaggio critico nelle politiche di sicurezza informativa. Il ritiro dai protocolli condivisi lascia l’Europa più esposta, nel momento in cui le manipolazioni digitali diventano sempre più sofisticate

Pubblicato il 18 set 2025

Federica Giaquinta

Consigliere direttivo di Internet Society Italia



disinformazione, fake news, propaganda (1) Storm-1516

La decisione degli Stati Uniti di recedere dai protocolli d’intesa con i partner europei per il contrasto coordinato alla disinformazione di matrice statuale segna un punto di discontinuità che è al contempo politico, istituzionale e giuridico, poiché riscrive, forse per la prima volta, l’ecologia transatlantica della sicurezza informativa proprio nel momento in cui l’Intelligenza artificiale dilata esponenzialmente scala, velocità e verosimiglianza dei contenuti manipolativi.

Il ritiro americano dai protocolli europei

Il fatto, peraltro documentato da fonti convergenti, è stato di grande rilevanza poiché il Dipartimento di Stato ha per la prima volta notificato ai governi europei l’intenzione di porre fine ai MoU (memoranda of understanding) sottoscritti nel 2024, nati per favorire una tassonomia condivisa delle minacce e protocolli di attribuzione e segnalazione congiunti verso campagne ostili di Russia, Cina e Iran; la notizia – che il Financial Times accredita come anticipata da The Atlantic – è stata confermata da tre funzionari europei e accompagnata da una presa di posizione netta dell’attuale vertice politico della diplomazia pubblica statunitense, secondo cui l’intero impianto avrebbe prodotto effetti distorsivi sulla libertà di espressione senza risultati commisurati.

In parallelo, James P. Rubin, ultimo coordinatore del GEC, ha parlato di atto unilaterale di disarmo” nella guerra informativa, evocando l’idea – squisitamente strategica prima ancora che semantica – che informazione e potere scorrano nelle stesse condutture della deterrenza e dell’influenza e che il ritiro americano disarticoli un’infrastruttura di difesa cognitiva più ampia del mero apparato amministrativo.

In controluce, si legge un cambio di paradigma: dalla logica di “whole-of-government/whole-of-alliance” perseguita nell’ultimo ciclo alla logica, oggi dichiarata, di una tutela espansiva del discorso politico, per cui ogni identificazione statale di “manipolazione informativa” rischierebbe, secondo i critici, di sconfinare in censura o in preminenza di narrative ufficiali su quelle sociali.

La chiusura del Global Engagement Center

È necessario segnalare che solo il profilo storico-istituzionale aiuta a capire la frattura: infatti, il GEC, erede del CSCC nato nel 2011 per contrastare la propaganda jihadista e formalizzato poi come hub interagenziale contro l’influenza ostile, è stato chiuso il 23 dicembre 2024 per mancata ri-autorizzazione congressuale; un passaggio di funzioni in un ufficio successivo è durato pochi mesi, perché nell’aprile 2025 il Segretario di Stato ha disposto la cessazione dell’ufficio R/FIMI, siglando il riposizionamento dell’esecutivo su questo dossier.

Le implicazioni giuridico-amministrative della frattura

È opportuno sottolineare inoltre che la traiettoria giuridico-amministrativa di questa vicenda non è un dettaglio: infatti, chiudere agenzie e sciogliere MoU non abroga alcuna norma, ma spezza i circuiti fiduciari – le prassi condivise, i canali di scambio, le metodologie di analisi – che sono il vero “diritto vivente” della cooperazione contro minacce ibride e proprio in questa cornice si collocano le opposte letture: secondo la maggioranza di governo, il perimetro istituzionale anti-disinformazione avrebbe assunto contorni para-regolatori eccedenti, non sorretti da un fondamento legislativo robusto e potenzialmente lesivi del Primo Emendamento; secondo gli ex responsabili e diversi osservatori europei e atlantici, questo passo indietro spezza una rete di allerta rapida e di attribuzione che finora aveva aiutato a scoprire e rendere pubbliche operazioni sofisticate di disinformazione – sia dell’apparato mediatico statale russo sia di campagne coordinate legate all’Iran – e a reagire con strumenti mirati, come sanzioni e denunce pubbliche dei responsabili.

Soft law e comunità epistemica transatlantica

Ed è proprio qui che il piano giuridico si intreccia con quello strategico: i MoU sono soft law, non trattati; la loro estinzione non viola pacta sunt servanda”, ma incide sul principio di affidamento” tra amministrazioni e, soprattutto, sulla densità di una comunità epistemica transatlantica (analisti, funzionari, regolatori, ricercatori) che aveva standardizzato lessici, criteri di attribuzione, meccanismi di scambio dati e format di disclosure compatibili con il segreto d’ufficio e con la tutela delle fonti.

In assenza di quel tessuto, la gestione del rischio informazionale tende a ritrarsi nei confini nazionali o, al più, a essere rinviata a fori multilaterali dove, però, la rapidità del ciclo operativo è fisiologicamente inferiore al tempo della manipolazione.

Il modello europeo del Digital Services Act

Pertanto, la dimensione europea mostra per contrasto la forza di un approccio “risk-based” normativamente positivizzato: il Digital Services Act, attraverso gli obblighi di valutazione e mitigazione dei “rischi sistemici” per le Very Large Online Platforms, offre una base giuridica armonizzata per pretendere strumenti di monitoraggio, auditing indipendenti, accesso a dati per i ricercatori e protocolli di risposta rispetto alle campagne di manipolazione informativa; questo non immunizza l’Unione dal dilemma libertà-sicurezza, ma sposta il baricentro dal “chi decide la verità” al “come le piattaforme dimostrano, con oneri proporzionati e verificabili, di aver mitigato rischi riconoscibili per il dibattito civico”, incardinando la gestione del fenomeno in garanzie procedurali (trasparenza, audit, accesso ai dati, ragionevolezza e proporzionalità delle misure) sottoponibili a controllo giurisdizionale.

I tre effetti del disallineamento transatlantico

Il disallineamento transatlantico, alla luce di questo quadro, non è soltanto politico: è formale (assenza/presenza di obblighi ex lege), istituzionale (dismantling vs consolidamento), culturale (centralità del Primo Emendamento vs centralità di un bilanciamento multilivello dei diritti nel mercato digitale) e operativo (intelligence sharing routinizzato vs cooperazione ad hoc).

Ciò produce almeno tre effetti giuridico-strategici:

  • Primo, sull’attribuzione: se mancano canali tecnici stabili di scambio dati, diventa più difficile dimostrare in modo convincente le accuse pubbliche di manipolazione informativa da parte di Stati esteri: il carico della prova cresce e la credibilità dell’attribuzione ne risente, proprio mentre gli avversari adottano tattiche potenziate da LLM, media sintetici e coordinamento su più piattaforme.
  • Secondo, sulle misure reattive: il regime sanzionatorio dell’UE — che nel 2024 ha già colpito infrastrutture e attori legati alla disinformazione russa, inclusa “Doppelganger” — funziona al meglio solo se c’è un forte allineamento informativo con Washington. Minore condivisione significa minore coordinamento tra le designazioni OFAC e i pacchetti del Consiglio UE, quindi minore deterrenza e un “costo” geopolitico più basso per chi orchestra le operazioni.
  • Terzo, sulla resilienza elettorale di Paesi terzi e di frontiera: il caso Moldova – dove le autorità e osservatori indipendenti hanno denunciato nel 2024-2025 convergenze di disinformazione, operazioni cibernetiche e pratiche di corruzione politica connessa a reti pro-Cremlino e dove perfino reti social hanno smantellato asset fittizi orientati a condizionare il voto – mostra come la perdita di una cornice transatlantica comune irrigidisca le vulnerabilità nei momenti di massimo stress istituzionale della democrazia rappresentativa.

Oltre la libertà di parola: verso una difesa cognitiva

In questo contesto la formula della “libertà di parola” come criterio-soglia non basta, da sola, a disegnare una policy costituzionalmente conciliante: nella fisiologia democratica, la libertà di espressione è diritto-precondizione del mercato delle idee; ma nella patologia della guerra cognitiva orchestrata da attori statuali, il problema non è l’opinione controversa bensì la manipolazione industriale e sistemica che sfrutta asimmetrie informative, botnet, targeting psicografico e cloni mediatici per saturare l’attenzione pubblica e iniettare narrativi destabilizzanti.

La risposta non può essere la verità di Stato” e tanto meno larbitrio amministrativo, ma una catena di legalità che comprenda: criteri di attributo trasparenti e contestabili; standard tecnici aperti per la tracciabilità dei sistemi di amplificazione; regole chiare e proporzionate per l’accesso dei ricercatori a dati significativi; controlli giurisdizionali effettivi su misure restrittive; interoperabilità tra regimi sanzionatori fondata su evidenze condivise, solo in questo senso, l’uscita americana dai MoU non è giuridicamente “illegittima”, ma è politicamente e normativamente “destituente”: priva di forma un processo di stabilizzazione di prassi cooperative che, in assenza di trattati, costituivano la fonte materiale di un “ius commune” della sicurezza informativa.

La diaspora regolatoria Usa-Europa

Sul piano strettamente giuridico, il bilanciamento tra tutela del discorso e difesa dallingerenza ostile va ricondotto a test noti – legalità, legittimo scopo, necessità e proporzionalità – che il DSA declina in procedure e che, sul versante USA, sono stati spesso affrontati mediante strumenti di diritto amministrativo soft (guidances, task force, partnership pubblico-private), oggi smontati o ridimensionati.
La conseguenza diventa così una diaspora regolatoria: l’UE rafforza enforcement e sanzioni mirate; gli USA arretrano su strumenti federali di coordinamento e, pur mantenendo leve dure (OFAC), spostano l’enfasi sul rischio di “censorship by proxy”, invocando la tutela costituzionale per ridurre la cinghia di trasmissione tra amministrazioni e piattaforme.

L’esperienza recente e le prospettive future

Eppure, l’esperienza recente conferma che la combinazione di attribution pubblica, pressione diplomatica e misure mirate resta decisiva:

  • il Tesoro USA ha utilizzato anche nel 2024 l’autorità E.O. 13848 per colpire entità russe e iraniane impegnate in operazioni d’interferenza, inclusa la produzione di contenuti sintetici ostili;
  • l’UE ha affinato un regime sanzionatorio sulle minacce ibride e continua a sanzionare attori mediatici e d’influenza legati allo Stato russo; le istituzioni europee hanno istituzionalizzato un rapporto strutturato con piattaforme e ricercatori sotto DSA.

La ritirata americana dai MoU invia quindi un segnale che le autocrazie sanno leggere: meno coordinamento significa più frizione tra alleati, più margine per “false flags”, più difficoltà a costruire dossier probatori pronti per listing o interdittive finanziarie, più tempo utile per l’iniezione di narrazioni tossiche in momenti sensibili e sul piano europeo, questa frattura dovrebbe accelerare tre cantieri: consolidare l’enforcement DSA con audit metodologicamente seri e accessi dati realmente utilizzabili; rafforzare EUvsDisinfo ed EEAS come interfaccia tecnico-diplomatica per coalizioni ad hoc con singoli attori USA (think tank, Stati federati, agenzie non smantellate), aggirando gli strappi federali con “micro-alleanze” di scopo; integrare stabilmente le evidenze OSINT e forensi nei pacchetti sanzionatori, costruendo standard probatori comuni e inter-operabili.

Dal lato USA, una via di ricomposizione – compatibile con la sensibilità costituzionale – sarebbe spostare la cooperazione sul terreno dellattribuzione tecnica e finanziaria e su strumenti di trasparenza obbligatoria per piattaforme e stati ostili, lasciando al margine contenutistico – il più sensibile per il Primo Emendamento – un perimetro minimo ma difendibile in giudizio.

In termini di teoria del diritto, l’oggetto da proteggere non è “la verità” ma le condizioni procedurali della sua contendibilità: autenticità delle identità e delle reti di amplificazione, visibilità delle origini e degli interessi, integrità dei processi deliberativi collettivi.

Ed è proprio qui che la “sicurezza informativa” incontra la giurisdizione: giudici e autorità indipendenti, più che amministrazioni, sono chiamati a verificare la proporzionalità degli oneri imposti ai privati e la sufficienza delle prove poste a fondamento di misure restrittive, mentre Parlamenti e governi devono evitare scorciatoie semantiche che confondano dissenso interno e operazioni esterne ostili, il paradosso finale è che la scelta americana, motivata dall’ansia di evitare ogni ombra di “censorship by state”, rischia di spostare l’onere della selezione e del filtraggio sul privato economico (le piattaforme) e sul cittadino, senza fornire gli strumenti pubblici minimi per distinguere in tempo utile tra opinione e operazione.

Verso un costituzionalismo digitale

Una democrazia matura può accettare lerrore e il dissenso; non può accettare lasimmetria informativa manipolata da Stati avversari come condizione strutturale del dibattito pubblico, per questo la via maestra resta una governance della manipolazione informativa che sia legale, proporzionata, trasparente, giustiziabile e cooperativa. L’uscita dai MoU non è la fine della cooperazione transatlantica, ma è un arretramento che chiama l’Europa a più autonomia e gli Stati Uniti a una riflessione meno binaria: tra “censura” e “disarmo” esiste lo spazio, giuridicamente praticabile, di una difesa cognitiva liberale, in esso si colloca il dovere condiviso di reinventare gli strumenti e di fornire, ai cittadini e ai giudici, criteri di prova e procedure di controllo che permettano di resistere a campagne che già oggi – tra deepfake, bot-coordination e media di Stato “ibridati” con asset di intelligence – si muovono più velocemente dei nostri arnesi concettuali.

Se la sfida, quindi, è di costituzionalismo digitale, la risposta non può che essere di diritto vivo: meno proclami, più standard verificabili, più cooperazione basata su prove, più garanzie, così soltanto la libertà di parola rimane libertà, e non un varco inconsapevole per la guerra cognitiva altrui.

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