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La grande semplificazione: come il digitale ci ha reso più connessi ma meno profondi



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Negli ultimi vent’anni, l’innovazione tecnologica ha trasformato la nostra vita, migliorando l’accesso a beni e servizi. Tuttavia, ha amplificato disuguaglianze e diminuito la sovranità personale e governativa. L’esperienza digitale, ridotta a due sensi, ha sacrificato profondità e percezioni sensoriali, alterando la nostra connessione con la realtà

Pubblicato il 4 nov 2024

Emiliano Mandrone

Primo ricercatore Inapp



vita digitale (1)

Premessa. L’innovazione tecnologica degli ultimi vent’anni è stata straordinaria, con innumerevoli ricadute in tutti gli ambiti della nostra vita: dal lavoro alla salute, dalla comunicazione alla mobilità, dalla sicurezza all’ecologia. Tuttavia, ha fatto aumentare le concentrazioni economiche e le disuguaglianze sociali. Inoltre, ha prodotto una progressiva perdita di sovranità su molti ambiti da parte sia dei cittadini sia dei governi.

Attenzione alle differenze tra vita digitale e analogica

L’evoluzione recente è stata iperbolica, tumultuosa, pervasiva: le innovazioni si sono alimentate a vicenda, creando spazi nuovi, opportunità inedite, beni e servizi prima inimmaginabili. La transizione ha comportato molti miglioramenti nella fruizione dei beni tradizionali, dei servizi convenzionali e, soprattutto, l’avvento di opportunità inedite (piattaforme, AI), cioè attività che prima non erano proprio possibili (la vera new economy).

Il potenziale a nostra disposizione grazie alla tecnologia è sicuramente aumentato, al contrario la relativa elaborazione culturale non è andata di pari passo (Mandrone, 2021). Mind the gap! Il solco profondo tra i piani digitale e analogico: le leggi, le norme sociali, gli usi e i costumi vanno aggiornati, anzi upgradati. Questo cambiamento radicale ci ha fatto perdere qualcosa? Banalmente, il digitale ha sacrificato una dimensione – la profondità – e tre sensi – il gusto, l’olfatto e il tatto-.

Cosa abbiamo sacrificato per il digitale

L’esperienza digitale è bi-dimensionale e bi-sensoriale. Tutto è più freddo, piatto, neutro. L’interfaccia, anche se ad altissima risoluzione o in alta fedeltà, è limitante e per chi la vive in maniera totalizzante comporta una forte perdita di percezione, una esperienza parziale, un compromesso sensoriale. Incontrare una persona agitata o ricevere una rassicurante stretta di mano o visitare la spiaggia che hai mostrato sui social cambia molto l’esperienza, riservando sovente delle sorprese.

Quel brano sentito su Spotify sarà emozionante ascoltato dal vivo? Quel piatto gourmet è instagrammabile ma sarà anche buono? Quel maglione visto su YouTube fatto a mano con la lana di un gregge scozzese sarà veramente morbido sulla pelle? È un confronto continuo: qualche bluff viene scoperto, qualche istinto ingannato. Il rischio è l’atrofizzazione di alcuni sensi, di abituarsi ad una visione ridotta, una realtà diminuita… è come vedere i geroglifici egizi: una rappresentazione primitiva della vita, immediata, semplice. Che è, a ben guardare, la cifra della comunicazione sul web.

Alla ricerca della instant satisfaction, abbiamo perso il senso del tempo e dello spazio

Dunque, si viene a creare un paradosso: da un lato, aumentano i segnali, la quantità di comunicazione che intercettiamo; dall’altro si riducono le sensazioni, la qualità delle emozioni. È un trade-off noto: più parametri si considerano, più aumentano i gradi di libertà, meno si controlla il sistema. Si è assistito ad una sorta di selezione sensoriale: la vista e l’udito hanno colonizzato alcuni aspetti una volta tipici di altri sensi. Le foto di certi prodotti o di alcune città o delle persone sui social sembrano soddisfare virtualmente l’olfatto, di appagare il tatto e di solleticare il gusto salvo poi rimanere delusi, come quando l’hamburger della pubblicità non assomiglia a quello che ci arriva nel piatto. Nel mondo digitale le emozioni fluiscono in maniera innaturale, ciò richiede una educazione sentimentale (Mandrone, 2022). Ingannevole è il web, più di ogni cosa.
Abbiamo perso il senso del tempo e dello spazio, sono collassati grazie alla velocità di trasferimento dei dati (fibra, 5G) e dei beni (logistica, prime). La profondità – spaziale o temporale – dona all’ambiente quella prospettiva che lo rende solidale ad un sistema di riferimento. Il presente si è espanso a dismisura, le stagioni della vita si succedono senza soluzione di continuità. Aneliamo l’instant satisfiction, mettiamo in maniera puerile sullo stesso piano la conferma dell’arrivo di un divano o di un rene, è in egual misura urgente ascoltare la chat delle mamme o l’allerta meteo. Si sono perse le priorità.

Com’è cambiata la fruizione della visione e dell’ascolto

È facile confondersi e prendere per buono questo set valoriale, soprattutto per chi carica sul piano digitale la maggior parte delle istanze della sua vita. Molti giovani, pertanto, vivono on-life (Floridi, 2019), come le mangrovie che crescono nel salmastro dove si mischiano acqua salata e dolce, una terra di mezzo tra virtuale e reale.
Per fare un esempio, anche la fruizione della musica è cambiata. Nel digitale si accumula musica compulsivamente senza avere né il tempo né il piacere di ascoltarla per bene. Gli analogici conoscevano la copertina dell’LP, l’odore del vinile, lo sfrigolare del cellofan del cd … riavvolgevano la musi-cassetta con la penna, andavano in un negozio di musica e quando si comprava qualcosa sembrava che tutti si fermassero a guardarti e a chiedersi il perché di quella scelta?
Ecco, prima era una scelta, richiedeva tempo e conoscenze. E se sbagliavi … buttavi via tempo e soldi. È la differenza tra selezionare e scegliere: quando hai tutta la musica disponibile (ma vale per i film, lo sport, i libri, i partners, il cibo, le immagini…) devi selezionare cosa sentire, mentre se non puoi avere tutto devi scegliere cosa prendere. L’enorme offerta attuale richiede uno sforzo per vagliarla non inferiore a quello che si faceva nel ricercare tra amici, negozianti e riviste la dritta, l’emozione di un nuovo suono, di una rima non banale, di un qualcosa di diverso.
Tutto è medio, sovente mediocre, commerciale. Così ci si vuol differenziare: ma non tanto per il piacere della scoperta quanto per il desiderio di distinguersi. L’esclusività di un bene godrebbe – per il marketing – della proprietà transitiva sul suo proprietario.

L’entanglement digitale

La seconda questione è la connessione, l’entanglement digitale. Ci aggrovigliamo in chat, blog, social, mail, zoom ma eravamo più uniti ieri al Bar o all’oratorio che oggi così connessi. Adesso la nostra attenzione è sulla partecipazione all’evento social non tanto al godimento dell’evento reale. La nomofobia è la paura di rimanere disconnessi, di leggere con qualche secondo di ritardo un tweet, di perdersi il reel virale, insomma di rimanere esclusi dall’agorà digitale… È solo una fobia e come tale non è un vero problema: è un tarlo immaginario che ci creiamo da soli con le richieste ingiustificate, assillanti e continue di riscontro, di attenzione, di appartenenza. È facile guarire: basta disattivare le notifiche! Sciocchezze agli occhi di chi non è interessato, un dramma per chi è coinvolto, sovente i più giovani: è il loro “the dark side of digital divide!

Il cambiamento è distruzione creatrice?

La tecnologia, il covid e il terrorismo hanno segnato questi ultimi vent’anni. Hanno modificato l’ambiente in cui viviamo: si sono chiusi molti negozi, si sono ridotti gli uffici, abbiamo più B&B nei condomini. Il cambiamento ha comportato a volte regressione sociale: valori comuni messi in discussione, conquiste sociali che vanno perdute, istituzioni come la scuola e sanità lasciate andare: … Non leggiamo più i giornali, non fumiamo più le sigarette e non andiamo più in biglietteria. Si è persa la capacità di riparare le cose: dalle auto ai mobili, dai vestiti alle case: si cambia il pezzo o si getta via. È la fine che rischiano di fare molti di noi: non potendoci aggiustare, ci sostituiranno o ci butteranno.

(*) Voglio ringraziare per l’utile confronto Alessandro Caruso, Carmine Di Carlo e Mario Marchionna

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