I tagli di personale attribuiti all’intelligenza artificiale non descrivono l’intero fenomeno. Le evidenze più recenti mostrano impatti differenziati per età e mansione e, soprattutto, che i benefici emergono dove l’IA potenzia il lavoro. La risposta efficace non è tagliare, ma investire in adozione strutturata e formazione.
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IA e lavoro: tre buoni motivi per non preoccuparsi (troppo)
Nel ciclico dibattito sull’intelligenza artificiale (IA) e le sue presunte ricadute sul mercato del lavoro hanno destato molta preoccupazione i recenti annunci di diverse grandi aziende americane su imminenti licenziamenti.
Ad alimentare i timori sono stati anche i richiami delle stesse aziende al fatto che l’IA fosse almeno in parte dietro queste decisioni.
Innanzitutto, alcune delle stesse aziende hanno successivamente smentito che i licenziamenti fossero da attribuire all’IA.
Nel dibattito è intervenuto lo stesso CEO di Amazon, che ha annunciato il taglio di 14 mila posti di lavoro a livello mondiale, per rettificare quanto avevano detto importanti dirigenti dell’azienda prima di lui. In realtà, come mi è già capitato di scrivere in passato, le aziende e in particolare quelle americane e quotate in borsa tendono a giustificare licenziamenti con guadagni di efficienza determinati dall’IA perché danno così l’impressione di essere sulla frontiera tecnologica e proiettate al futuro anziché dover ammettere di aver assunto tanto e magari male in passato.
Inoltre, nella stampa c’è una evidente asimmetria tra i licenziamenti e le assunzioni.
Mentre i primi devono essere per forza annunciati e avvengono tutti insieme, dunque con numeri a parecchi zeri nel caso delle imprese più grandi, le seconde sono più tacite e scaglionate nel tempo. Dunque, abbiamo l’impressione che molte aziende americane licenzino in continuazione mentre ci siamo persi il fatto che avessero nel frattempo aumentato di molto lo stock di dipendenti.
Tra l’altro in questo caso diverse delle aziende interessate, tra le quali Amazon e UPS, avevano visto la propria forza lavoro crescere a dismisura durante la pandemia con la crescita vertiginosa del commercio elettronico. Il ritorno a una condizione normale non ha più resa necessaria una parte della forza lavoro assunta nel frattempo. D’altronde, i nuovi dati sull’occupazione americana, pubblicati nei giorni scorsi, riportano un aumento oltre le previsioni (+42 mila posti) dopo due mesi consecutivi di calo, in gran parte attribuibili al deterioramento dell’economia americana. È vero che tra i settori a vedere riduzioni ci sono i servizi professionali e l’informazione, a supporto di chi vede l’IA come un vettore di cataclismi sul mercato del lavoro, ma se si guarda alla dimensione aziendale le imprese più grandi, che secondo tutte le statistiche sono quelle che stanno implementando l’IA al proprio interno in maniera più massiccia, sono quelle che stanno assumendo di più.
Infine, chi fa previsioni catastrofiste, contribuendo attivamente al clima di paura che si sta creando, le ha spesso sbagliate in passato.
È il caso del Premio Nobel e padre fondatore dell’IA moderna, Geoffrey Hinton, grandissimo scienziato ma decisamente non un economista. Hinton, che in una recente intervista al Financial Times ha previsto disoccupazione di massa a causa dell’IA, nel 2016 aveva dato per morta la radiologia affermando che non aveva senso iscriversi a una facoltà di medicina per perseguire quella specializzazione. Ebbene, a quasi dieci anni di distanza da quella previsione, la radiologia sta vivendo un vero e proprio boom, alimentato proprio dall’uso della tecnologia. Nel 2025, negli USA i posti fissi offerti ai neo-specializzati hanno raggiunto un nuovo record (+4% sull’anno precedente) e il salario medio pagato ai radiologi ha raggiunto l’astronomica cifra di 520 mila dollari (+48% sul 2015), la seconda specialità medica più remunerata in assoluto.
Evidenze empiriche: cosa ci dicono i dati recenti
Al di là di singole osservazioni su professioni o dati mensili, a ormai tre anni circa dall’avvento di ChatGPT, iniziano finalmente a uscire, anche se prevalentemente riferite al mercato statunitense, analisi empiriche basate su periodi osservazionali e su numerosità di dati sufficienti per fornire qualche primo (e ancora del tutto preliminare) responso.
In un approfondito studio empirico pubblicato pochi mesi fa, Erik Brynjolfsson, Bharat Chandar e Ruyu Chen presentano sei fatti chiave emersi dai dati che hanno osservato, offrendo una valutazione di come la rivoluzione dell’IA stia trasformando la forza lavoro statunitense.
In primo luogo, registrano un calo significativo dell’occupazione per i lavoratori all’inizio della carriera (22-25 anni) in professioni più esposte all’IA, come sviluppatori software e addetti al servizio clienti. Al contrario, le tendenze occupazionali per i lavoratori più esperti negli stessi settori e per i lavoratori di tutte le età in professioni meno esposte, come gli operatori socio-sanitari, sono rimaste stabili o in crescita. In secondo luogo, l’occupazione complessiva continua a crescere in modo robusto, ma per i giovani la crescita è stagnante dalla fine del 2022.
Nei lavori meno esposti all’IA, i giovani hanno avuto tassi di crescita occupazionale simili a quelli dei più esperti. Nei lavori più esposti all’IA, invece, i lavoratori 22-25enni hanno registrato un calo del 6% tra fine 2022 e luglio 2025, contro un aumento del 6-9% per i lavoratori anagraficamente più grandi. Ciò suggerisce che il calo dei posti di lavoro più esposti all’IA freni la crescita occupazionale complessiva dei giovani. Non tutti gli usi dell’IA sono però legati a cali occupazionali.
In particolare, l’occupazione iniziale cala laddove l’IA automatizza il lavoro, ma non laddove lo potenzia.
Quarto fatto: i cali occupazionali dei giovani in lavori esposti all’IA restano anche controllando per effetti specifici di impresa e periodo. Per i 22-25enni, gli autori registrano un calo nell’occupazione nei quintili più esposti rispetto a quelli meno esposti, un effetto ampio e statisticamente significativo. Per altre fasce d’età gli effetti sono più deboli e non significativi.
Ciò indica che i trend osservati non derivano da shock aziendali generali, ma da un impatto specifico legato all’IA. Quinto, gli aggiustamenti del mercato del lavoro si vedono più nell’occupazione che nella retribuzione. Infatti, gli stipendi annui mostrano poche differenze per età o livello di esposizione, suggerendo una certa rigidità salariale. Questo implica che l’IA potrebbe incidere di più sull’occupazione che sui salari, almeno inizialmente. Infine, i risultati sono coerenti su diversi campioni alternativi. Non sono dovuti solo alle professioni informatiche o a lavori delocalizzabili. I pattern emergono in modo netto dalla fine del 2022, con l’espansione rapida dell’IA generativa. Ciò vale sia per professioni con alta quota di laureati sia con bassa, indicando che i risultati non sono spiegati dal calo della qualità dell’istruzione durante il COVID. Per i lavoratori senza laurea, l’esperienza professionale sembra proteggere meno, dato che nelle professioni con bassa quota di laureati gli esiti divergono per esposizione all’IA fino ai 40 anni.
Risultati analoghi sono raggiunti in un altro studio estremamente recente pubblicato a distanza di pochi giorni da Seyed M. Hosseini e Guy Lichtinger, entrambi economisti di stanza ad Harvard.
La loro analisi, basata su un database enorme di offerte di lavoro, dimostra come nelle aziende che hanno adottato l’IA le assunzioni di giovani siano calate significativamente a partire dal primo trimestre 2023, dunque a pochi mesi di distanza dalla release di ChatGPT. Lo stesso trend non ha invece interessato le aziende che non hanno ancora adottato l’IA. Un’altra ricerca recente, realizzata da economisti di Yale e basata su una metodologia differente, giunge però a conclusioni diverse, non rilevando impatti misurabili certi sul mercato del lavoro statunitense (anche se non escludendo del tutto che in effetti possa essere in atto una dinamica sfavorevole per i lavoratori più giovani).
IA e lavoro: l’eccezione dei freelance e l’effetto sui compensi
Uno studio più o meno contestuale della Brookings guarda, invece, a un altro segmento del mercato del lavoro statunitense, nel quale si osservano anche effetti sui compensi.
La ricerca ha confrontato il cambiamento sui progetti dei freelancer in occupazioni più o meno esposte all’IA prima e dopo il lancio dei tool di IA, identificando, anche sulla base di ricerche precedenti, specifici servizi che avrebbero potuto essere più plausibilmente influenzati dai diversi tipi di IA. L’analisi rivela che i freelancer attivi nei settori più esposti all’IA generativa sono stati colpiti in misura sproporzionata dal rilascio di ChatGPT.
In particolare, è stato osservato che i freelancer che offrono servizi come correzione di bozze, revisione di testi e altri compiti ad alta intensità testuale hanno subito in media un calo di circa il 2% nel numero di nuovi contratti mensili e una diminuzione di circa il 5% nei guadagni mensili complessivi sulla piattaforma. Andamenti simili sono stati osservati in seguito al rilascio di modelli di generazione di immagini come DALL·E 2 e Midjourney. L’aspetto più interessante è però un altro. Gli impatti in questo caso hanno penalizzato soprattutto i lavoratori più qualificati e con maggiore esperienza, confermando i risultati ai quali erano giunti in precedenza altri studi. In altre parole, al contrario di tutti i processi di automazione precedenti, nell’IA generativa sembra esserci una spinta redistributiva, perlomeno in alcuni settori e in determinati contesti.
Impatti apparentemente opposti: come conciliarli
I risultati dei due studi appaiono in effetti contraddittori, perché l’uno immagina che ad essere penalizzati siano i lavoratori più giovani mentre l’altro quelli più esperti.
Un’ipotesi che permette di conciliare questa evidenza in apparenza contraddittoria è che l’impatto nei contesti aziendali possa riguardare sproporzionatamente i giovani perché sono colpite le nuove assunzioni mentre le aziende sono più restie a licenziare gli attuali collaboratori, ritenendo peraltro che, in virtù delle conoscenza del contesto aziendale e del settore e della relativa facilità d’uso degli strumenti di IA generativa, possano configurarsi modalità di collaborazione tra gli attuali dipendenti e gli algoritmi in grado di consentire guadagni di produttività.
Una prospettiva peraltro confermata dall’ultima release di una survey che conduce da tre anni un gruppo di ricerca della Wharton School su un vasto campione di dirigenti senior di grandi imprese americane. Se nel 2023, a pochi mesi dall’uscita di ChatGPT, molti pensavano che l’IA avrebbe avuto un impatto sostitutivo sulla forza lavoro, oggi l’89% è convinto che essa possa complementare il lavoro umano rendendolo più produttivo.
Formazione, adozione e politiche di supporto
La speranza è che questa consapevolezza si traduca in azione, non soltanto tra le grandi imprese ma in tutte le organizzazioni, a prescindere dalla dimensione.
Appare infatti certo che ai contesti aziendali è chiesto di accompagnare pro-attivamente il lavoratore, attraverso programmi di upskilling e reskilling ma anche mediante l’emulazione e il passaparola con i colleghi e la trasmissione di buone pratiche e, last but not least, il necessario cambiamento organizzativo. Naturalmente, non si tratta di un processo semplice né privo di costi materiali e di tempo e infatti dovrebbe essere attivamente sostenuto, soprattutto per le realtà più piccole, da strumenti pubblici. Ma farlo è nell’interesse primario delle aziende, anche per evitare un rischio concreto derivante dall’assenza di strategie aziendali strutturate di adozione.
Quello che i lavoratori utilizzino strumenti di IA generativa non solo senza supervisione dei propri capi (il che è già di per sé un fatto che riduce i potenziali guadagni di produttività perché sappiamo che questi avvengono principalmente attraverso una riorganizzazione dei processi aziendali, al fine di massimizzare i benefici e mitigare i rischi delle nuove tecnologie) ma senza che questi lo sappiano (o quantomeno ne siano pienamente consapevoli), senza considerarne adeguatamente i rischi. Ecco perché la prima pietra di un’adozione di successo dell’IA a livello paese non può che passare da leader che non guardino ai propri dipendenti come a numeri da tagliare ma persone sulle quali investire per trarne il meglio, anche grazie all’IA.
Intelligenza artificiale e competitività: guida operativa per le imprese
L’IA corre, ma l’Italia tentenna: il nuovo volume di Stefano da Empoli e Luca Gatto propone un percorso completo per accompagnare le imprese del nostro Paese – PMI in primis – nell’inserimento efficace e responsabile dell’intelligenza artificiale nei propri processi.
L’intelligenza artificiale non è più un orizzonte lontano, ma una realtà che sta trasformando radicalmente i mercati, la produttività e la governance d’impresa. Non tutte le imprese italiane, però, sembrano averlo compreso. O, comunque, non hanno ancora iniziato ad agire per adattarsi al nuovo contesto. Come recuperare il terreno (già) perduto senza commettere passi falsi? Nel volume “Intelligenza artificiale e competitività – Guida operativa per le imprese” (Egea, 2025), Stefano da Empoli, presidente dell’Istituto per la Competitività (I-Com), e Luca Gatto, adjiunct professor in Luiss Business School e senior manager di SACE, offrono una guida strutturata all’adozione consapevole dell’IA nel sistema produttivo del nostro Paese.
Il testo si distingue per l’impostazione rigorosa e operativa: un framework in otto passaggi che accompagna imprenditori e manager lungo tutte le fasi di introduzione dell’intelligenza artificiale. Dalla conoscenza delle tecnologie alla valutazione dei rischi, dall’etica alla gestione delle persone, fino alla sostenibilità e all’internazionalizzazione, il modello offre una visione integrata delle dimensioni tecnologiche, organizzative e strategiche. Un approccio olistico reso possibile grazie ai contributi di esperti operanti in diversi campi: Francesca Rossi, Ernesto Belisario, Stefano Besana, Alessandra Poggiani, Raniero Romagnoli, Armando Sternieri, integrati con le prefazioni autorevoli di Rita Cucchiara e Valeria Sandei.
L’approccio proposto dagli autori parte da una constatazione: la competitività futura del Paese dipenderà dalla capacità di rendere sistemica la trasformazione digitale, superando l’attuale ritardo nell’adozione dell’IA. In Italia, solo il 27% delle imprese con almeno 20 dipendenti utilizza strumenti di intelligenza artificiale, ma quelle che lo fanno registrano in media un incremento dei ricavi del 12%. Se il 60% delle aziende adottasse l’IA entro il 2030, il valore aggiunto complessivo per il sistema produttivo italiano potrebbe superare i 1.299 miliardi di euro.
Il libro analizza le condizioni necessarie per raggiungere questo traguardo: competenze adeguate, investimenti mirati, politiche industriali e un ecosistema di supporto che includa istituzioni, università e attori finanziari.
“Guardando al contesto italiano”, riflette Gatto, “è essenziale valutare se e come l’IA possa essere adottata dalle PMI, vero motore del nostro sistema economico-industriale, cercando di evidenziare le sfide e opportunità. A livello internazionale, emerge una forte correlazione tra dimensione aziendale e utilizzo dell’IA: le grandi imprese la adottano più facilmente grazie a economie di scala, maggiori risorse e capacità di attrarre talenti, sebbene spesso restino in fase sperimentale. In Italia, la maggioranza delle imprese non usa l’IA, principalmente perché non sa come integrarla nei processi. Nonostante i ritardi, esistono punti di forza che potrebbero favorire le PMI italiane: la flessibilità organizzativa, che riduce i tempi decisionali; la tradizione di personalizzazione e creatività dei prodotti; la centralità del B2B, meno esposto a vincoli di marketing e privacy; la cultura della «co-opetition» tipica dei distretti industriali; e la riduzione delle barriere tecnologiche grazie al cloud e alla GenAI”.
La guida approfondisce anche gli aspetti regolatori e di governance, da un lato analizzando la compliance all’AI Act europeo, la gestione dei dati e i modelli di risk management, dall’altro fornendo indicazioni operative per integrare l’etica e la sostenibilità nelle strategie aziendali. L’obiettivo è aiutare le imprese a fare dell’intelligenza artificiale non solo uno strumento tecnologico, ma una leva di valore e di competitività sistemica.
Il volume si chiude con un’analisi empirica sullo stato dell’adozione dell’IA nelle PMI italiane, condotta in collaborazione con I-Com e Confindustria. I cui risultati sono chiari: oltre l’86% delle imprese che hanno già introdotto soluzioni di intelligenza artificiale ne valuta l’impatto come positivo o molto positivo, in termini di efficienza, innovazione e apertura ai mercati internazionali. Un buon punto di partenza, da cui cominciare a correre.
“L’opportunità offerta dall’IA all’Italia e alle sue imprese e ai suoi lavoratori è duplice”, sottolinea da Empoli. “Da un lato c’è l’esigenza, più che altrove, di recuperare tassi di crescita della produttività più elevati dell’ultimo trentennio, anche per puntare a una dinamica salariale che faccia riguadagnare il tempo perduto. Dall’altro, non bisogna certo dimenticare che tutti gli scenari ci dicono che da qui alla fine del secolo, a parità di domanda di lavoro, non sarà possibile soddisfare le esigenze delle imprese, anche considerando una moderata immigrazione. Per questi due motivi, fatto non sufficientemente sottolineato, le potenzialità dell’IA sono perfino superiori da noi rispetto ad altri Paesi”.













