L’hate speech, tradotto con le parole “discorso d’odio”, è divenuto negli anni recenti un fenomeno giuridico, sociale e culturale che occupa un ruolo centrale nel dibattito pubblico europeo.
In particolare, il trasferimento del confronto politico sulle piattaforme digitali ha prodotto un nuovo spazio comunicativo — quello dei social network — nel quale gli strumenti normativi tradizionali appaiono inadeguati a regolarne l’impatto.
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Il quadro giuridico dell’hate speech online in Italia
L’Italia, nel quadro dell’Unione Europea, ha consolidato una giurisprudenza piuttosto severa, soprattutto nei casi in cui l’incitamento all’odio si accompagna alla propaganda razzista, al negazionismo o alla diffamazione aggravata da motivi discriminatori.
Il caso Stormfront: precedente giurisprudenziale sull’odio online
Tra i precedenti più significativi, spicca il cosiddetto “processo Stormfront”[1], che ha condotto a condanne penali in primo grado per venticinque imputati e, più recentemente, alla pronuncia della Corte di cassazione del 6 dicembre 2024 (depositata il 26 marzo 2025)[2], la quale ha confermato l’impianto accusatorio a suo tempo elaborato dal P.M. Luca Tescaroli, ritenendo integrati i reati di istigazione all’odio razziale e di diffamazione aggravata, oltre che le responsabilità degli indagati nella partecipazione al network di una comunità neonazista.
A questo caso, si affianca l’inchiesta condotta dal Tribunale di Milano sulle 246 querele sporte dalla senatrice a vita Liliana Segre per i messaggi antisemiti e diffamatori ricevuti attraverso le piattaforme on-line, a testimonianza del perdurare di un fenomeno che, seppur disapprovato a livello politico e mediatico, trova ancora ampi spazi di impunità giuridica nei vuoti della cooperazione tra le diverse giurisdizioni a livello globale e nella debolezza dei mezzi investigativi a disposizione dell’autorità giudiziaria.
Il sito web Stormfront, i cui server erano ospitati in Florida negli Stati Uniti, costituiva una piattaforma a vocazione suprematista bianca e neonazista, articolata in “sezioni” nazionali tra cui spiccava quella italiana, amministrata da un gruppo articolato di soggetti che si sono avvicendati nel tempo nella sua gestione.
I contenuti a suo tempo pubblicati dagli utenti, protetti da pseudonimi e moderati da amministratori nominati dalla loro stessa comunità, costituiscono atti estesi di diffamazione reiterati e sistematici rivolti nei confronti di esponenti ebrei, intellettuali, politici, magistrati e cittadini comuni. Tra le parti civili si sono costituite note personalità come Riccardo Pacifici, Roberto Saviano, Giuseppina Nicolini, Enrico Sassoon e altri. Il Tribunale di Roma ha riconosciuto la sussistenza di un sistema organizzato volto alla propaganda dell’odio razziale e alla diffusione di messaggi lesivi della dignità e dell’onore delle persone offese, fondando la condanna sull’articolo 3 della legge 654/1975 (oggi traslato nell’art. 604-bis del Codice penale, dopo la riforma introdotta dal D.lgs. 21/2018) e sull’art. 595, comma 3, in tema di diffamazione attraverso la comunicazione al pubblico.
Le conferme della Cassazione sui reati di odio online
La Corte d’Appello di Roma ha parzialmente riformato la sentenza di primo grado in data 22 aprile 2022[3], dichiarando la prescrizione dei reati ma confermando tutte le statuizioni civili. Infine, la Cassazione ha annullato senza rinvio solo le condanne al risarcimento danni in favore di alcune delle parti civili, nei casi in cui non era stata dimostrata la connessione tra contenuti pubblicati e i soggetti lesi.
La stessa Corte ha peraltro confermato la responsabilità penale degli imputati condannati in primo grado per la diffusione di contenuti idonei a incitare alla discriminazione e alla violenza su base razziale, escludendo con nettezza l’applicabilità della scriminante del diritto di critica. Secondo la Suprema Corte, la propaganda razzista “non è un’opinione” e non può essere giustificata dal principio costituzionale della libertà di manifestazione del pensiero (Art. 21 della Costituzione), il quale trova un limite insormontabile nella tutela della pari dignità e dell’uguaglianza sostanziale (Art. 3 della Costituzione).
La natura giuridica dei reati di hate speech online
Il reato di propaganda di idee fondate sull’odio razziale e quello di istigazione alla discriminazione o alla violenza sono entrambi considerati delitti di pericolo, nei quali l’efficacia persuasiva o imitativa del messaggio assume rilevanza anche indipendentemente dal suo recepimento da parte della persona offesa.
Per la Cassazione, la semplice pubblicazione di “post”, commenti, “like” e “link” in forum digitali apertamente razzisti — come Stormfront — è già di per sé comportamento idoneo a rafforzare e diffondere un messaggio d’odio, partecipando così al disegno criminoso collettivo. Si tratta quindi di reati che, pur fondandosi su atti di comunicazione, esorbitano dallo spazio costituzionalmente protetto della libertà d’espressione e si collocano in un’area penalmente rilevante proprio per la loro capacità di offendere beni giuridici fondamentali come l’uguaglianza, l’integrità morale e la sicurezza delle minoranze.
L’hate speech online tra diritto italiano ed europeo
All’interno del dibattito apertosi sul contrasto ai discorsi di odio on-line, la giurisprudenza italiana ha assunto negli anni una posizione coerente con il dettato della Convenzione di New York del 1966 e con gli orientamenti della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Secondo quest’ultima, la libertà d’espressione garantita dall’art. 10 della Convenzione non può essere invocata per giustificare la diffusione di contenuti che negano la “Shoah” o che inneggiano a ideologie totalitarie ispirate all’odio. In questa prospettiva, il caso Stormfront si configura come un banco di prova riuscito per l’efficacia deterrente del diritto penale, almeno nei confronti dei soggetti individuabili, rinviabili a giudizio e condannabili.
Tuttavia, proprio questo processo rende evidente il paradosso attuale: la maggior parte dei contenuti d’odio presenti in rete non proviene da siti organizzati come Stormfront, ma da social network di uso quotidiano — Facebook, X (ex Twitter), Instagram, Telegram — in cui l’anonimato e la mancata cooperazione dei gestori delle piattaforme ostacolano sistematicamente le indagini.
Il caso Segre e i limiti investigativi dell’hate speech
Tale circostanza è dimostrata proprio dall’inchiesta milanese aperta a seguito delle numerose querele presentate dalla senatrice Liliana Segre per i messaggi diffamatori e antisemiti da essa stessa ricevuti on-line. I contenuti oggetto di querela, spesso accompagnati da immagini, insulti, minacce, accostamenti alla figura del “kapò” o del “nazista”, sono stati ritenuti in larga parte gravemente offensivi dal giudice per le indagini preliminari. Tuttavia, l’impossibilità di identificare gli autori — a causa della mancata risposta di service provider come Facebook, Google, X e Telegram — ha compromesso l’efficacia dell’azione penale.
Nonostante siano stati emessi numerosi decreti di acquisizione dei dati relativi ai responsabili delle violazioni di legge da parte dei magistrati inquirenti, le piattaforme si sono trincerate dietro il diritto statunitense alla libertà d’espressione (c.d. “Primo Emendamento” della Carta costituzionale degli U.S.A.), il quale nel proprio ambito interpretativo connotato dalle decisioni della Suprema Corte, protegge contenuti che in Italia integrano comportamenti sanzionati penalmente. Il GIP di Milano ha sottolineato, nella recente ordinanza del 28 aprile 2025, come la strategia processuale debba ormai adattarsi a questo scenario: richiedere dati tramite rogatoria verso gli USA è sostanzialmente inutile, poiché le autorità americane non danno seguito a indagini per reati considerati, nel loro ordinamento, privi di offensività.
Una conferma indiretta di quanto scriviamo ci perviene dal ricorso presentato il 17 giugno 2025 da “X Corp.” nei confronti dell’Attorney General di New York, Letitia James, con cui la società che gestisce l’omonima piattaforma “social” impugna per incostituzionalità alcune disposizioni del disegno di legge presentato al Senato con il N. S895B, che prevede sanzioni pecuniarie e il rischio di assoggettare le piattaforme di social network ad azioni legali per il risarcimento del danno per il caso in cui i loro gestori non fornissero informazioni periodiche di particolare delicatezza sul se e in che modo, esse definiscano e moderino (i) l’odio razziale o il razzismo, (ii) l’estremismo o la radicalizzazione, (iii) la disinformazione o l’informazione scorretta (iv), le molestie, (v) interferenza politica straniera.
Questo genere di imposizioni per legge va a cozzare, secondo a quanto scrivono i legali newyorkesi di “X” con i diritti di giudizio editoriale garantiti dal Primo Emendamento provocando una non permissibile interferenza con il diritto della ricorrente e delle sue simili piattaforme digitali di rimuovere, demonetizzare o altrimenti porre in posizione non prioritaria i contenuti dei post pubblicati dagli utenti.
Nel suo ricorso “X” sottolinea che la stessa materia era stata in precedenza in un’altra decisione[4] favorevole a “X” e che, comunque, l’introduzione di norme che pongano obblighi di tal fatta ai social network sarebbe contraria al paragrafo 230(c)(2)(A) del titolo 47 dello U.S. Code il quale esclude che il fornitore di servizi on-line possa essere ritenuto responsabile nel caso in cui dia in buona fede accesso a materiale che il provider o l’utente considerino osceno, impudico, lascivo, sporco, eccessivamente violento, molesto, o in altro modo discutibile, sia che detto materiale sia oppure no protetto. Quest’ultima presa di posizione di “X” sull’assenza di responsabilità editoriale di chi gestisce le piattaforme “social” è oggetto di forti contrasti a livello politico, in quanto vi sono proposte di legge che mirano a temperare quest’ampia scriminante.
Non sappiamo ancora quale sarà la decisione della Corte del Southern District di New York, ma i segni tracciati nel recente passato lasciano intendere che l’applicazione estesa ed indiscriminata del Primo Emendamento della Carta costituzionale statunitense non condurrà a un mutamento dell’atteggiamento dei social network nel consentire agli utenti la totale libertà nell’esprimere pensieri, anche se violenti e lesivi dell’onore e della reputazione altrui.
Di fronte a questa impasse, si rende necessario un cambio di paradigma.
Le sfide processuali nell’hate speech digitale
Il web non può di conseguenza essere considerato uno spazio giuridicamente neutro o impunito[5]. Il rischio è che il principio di legalità penale e la tutela dei diritti fondamentali si arrestino di fronte ai confini della sovranità digitale. Il caso Segre è emblematico: il peso simbolico e storico della figura della senatrice a vita non è stato sufficiente ad attivare la collaborazione internazionale necessaria a perseguire dei messaggi che appaiono di tenore chiaramente antisemita, spesso pubblicati da utenti con identità fittizie. Il GIP ha ribadito con forza che “accusare di nazismo una reduce dai campi di sterminio” costituisce di per sé un’offesa infamante, incompatibile con qualsiasi forma di critica politica, e che “lo schermo di un computer non è una barriera che assicura l’anonimato, e la tastiera non è un’arma contro la quale non ci sono difese“.
Gli strumenti normativi europei contro l’hate speech
Nel contesto europeo, esistono strumenti normativi che potrebbero essere rafforzati per contrastare in modo più efficace l’hate speech. La direttiva 2010/13/UE sui servizi di media audiovisivi, la Raccomandazione R(97)20 del Consiglio d’Europa e la più recente legge sui servizi digitali (Digital Services Act) prevedono obblighi di vigilanza e responsabilità per le piattaforme. In Italia, l’Ag.Com. ha adottato la delibera 157/19/CONS che impone misure di contrasto all’hate speech nei media audiovisivi.
Tuttavia, in ambito social, mancano ancora strumenti efficaci di enforcement, anche perché i grandi operatori digitali continuano a sfuggire all’autorità dei singoli Stati.
La risposta politica e sociale al fenomeno dell’hate speech online
Alla luce di ciò, la questione centrale non è soltanto giuridica ma profondamente politica: l’odio digitale prospera dove il diritto non riesce ad arrivare. E proprio di fronte a tali situazioni si misura la capacità dello Stato di difendere i suoi cittadini più vulnerabili. Il caso Stormfront ha dimostrato che la giustizia può colpire quando l’odio è strutturato, riconoscibile, organizzato. Il caso Segre ci ricorda invece che l’odio più diffuso, quello quotidiano, sbrigativo e crudele, resta spesso impunito, protetto dall’inerzia normativa e dal disinteresse delle piattaforme. In un tempo in cui le parole diventano armi e la rete un campo di battaglia ideologico, la posta in gioco non è solo il rispetto delle leggi, ma la tenuta democratica della società.
L’odio on-line è il sintomo di un malessere che si esprime con ferocia proprio dove lo Stato è più debole, di conseguenza, contrastarlo non è una questione di censura, ma di civiltà. A tale fine, serve una volontà politica che consideri la lotta ai discorsi d’odio una priorità nazionale ed europea, capace di coniugare sicurezza giuridica e tutela della dignità. Non sono sufficienti nuove norme, servono anche consapevolezza, formazione e responsabilità collettiva. La memoria, specie quella dolorosa di chi ha vissuto l’odio nella sua forma più estrema, non può restare indifesa in un tempo in cui la storia viene travisata con un clic. Chi è colpito dall’hate speech non chiede vendetta: chiede giustizia. E in una democrazia, fare giustizia significa impedire che l’odio abbia l’ultima parola.
Note
[1] Sulla storia di questo procedimento si può leggere questo articolo: https://www.agendadigitale.eu/cultura-digitale/hate-speech-troppo-diverse-le-norme-usa-europa-ecco-perche/ e, per la cronaca giudiziaria precedente questo: https://www.agi.it/cronaca/news/2015-07-20/antisemitismo_stormfront_25_a_giudizio_patteggiano_in_6-289451/
[2] La sentenza reca il N. 11976/2025 R.G.N. 44040/2022 della I Sezione Penale della Corte di cassazione è stata resa dal Collegio, presieduto dal Cons. Giacomo Rocchi, Relatore, Cons. Marco Maria Monaco
[3] Con sentenza N. 4597/2022, resa dalla suddetta Prima Sezione Penale della Corte di Appello di Roma in data 22 aprile 2022, è stato giudizialmente dichiarato di non doversi procedere nei confronti degli appellanti perché i reati loro ascritti sono estinti per scadenza dei termini di prescrizione. La medesima sentenza ha confermato le statuizioni civili relative al risarcimento del danno, secondo il giudicato di primo grado, condannando altresì gli appellanti al pagamento delle spese processuali.
[4] Si tratta del caso “X Corp.” vs. Bonta deciso in appello dal Nono Circuito nel mese di febbraio 2025 che aveva rovesciato la sentenza di primo grado favorevole alle disposizioni della legge della California AB257 dell’anno 2022. Alcune norme di tale legge stabilivano che i gestori delle piattaforme social fossero tenuti a pubblicare rapporti periodici sulle politiche di moderazione dei contenuti, fornendo dati sulle modalità con cui vengono gestiti gli “hate speech” la disinformazione, l’estremismo, eccetera.
[5] La problematica di cui ci occupiamo presenta ulteriori sfaccettature e risvolti nelle violazioni commesse attraverso i “deepfake” e l’uso dell’intelligenza artificiale in termini più generali. Sulla questione si può leggere questo contributo: https://www.agendadigitale.eu/cultura-digitale/la-reputazione-rovinata-dallia-come-difendersi/