L’attuale politica tariffaria degli Usa, per la sua natura e l’enorme alone di incertezza che la circonda, rappresenta una forte discontinuità nell’evoluzione degli scambi internazionali e comporta un mutamento irreversibile nei rapporti tra i Paesi, nelle culture, nella dinamica dei sistemi tecnico-scientifici, nella configurazione degli apparati economico-produttivi globalizzati.
Adesso anche molte delle big tech, soprattutto quelle legate ai chip, protestano e chiedono al presidente Usa Donald Trump un cambio di direzione.
Indice degli argomenti
Le contraddizioni immediate delle tariffe americane e gli effetti sui mercati finanziari
Quello che apparentemente costituisce solo l’inizio di una fase protezionistica nel commercio mondiale sembra in effetti l’inizio di una ristrutturazione profonda delle relazioni tra i tradizionali attori (Paesi, imprese, reti socio-economiche transnazionali). Gli effetti sono imprevedibili sia per gli stessi autori della svolta (gli USA), sia per tutti gli operatori a vari livelli.
Sarebbe facile ironizzare, ma non è il caso di farlo, sulle conseguenze immediate delle nuove “tariffe variabili”, inaugurate dal Presidente USA. Si pensi ad esempio al fatto che al fatto che l’inizio della “trade war” ha avuto l’immediato effetto di far diminuire il prezzo del petrolio, mettendo quindi a repentaglio l’industria Usa del petrolio da scisto bituminoso (shale oil), innervosendo non poco i produttori connazionali, alcuni dei quali vicini alla bancarotta (Smith e McCormick, 2025).
È inoltre accaduto che la vendita di titoli del Tesoro Usa, iniziata all’annuncio delle imminenti nuove tariffe, è proseguita dopo la loro entrata in vigore, per poi rimbalzare verso l’alto dopo la retromarcia di Trump, con una propensione diffusa a disfarsi dei bond, non si sa ancora da parte di chi: Cina? Hedge Funds? Brokers, traders, investors? (Reuters, 2025a). Forse un po’ tutti.
È però certo che il trend negativo ha coinvolto il dollaro, in significativo calo (Fig.1)
Fig.1

Fonte: CNBC, 2025a (consultato il 19-04-2025)
In breve, la serie di annunci contraddittori, infine la dilazione e la pausa di un trimestre per lo sviluppo di una contrattazione con 60 Paesi, raggruppati in vario modo, hanno generato timori, sollievo, cautela, incertezza (Reuters, 2025b). Non sorprende, allora, che sia aumentato il “nervosismo”, specie sul mercato americano, con la vendita record dei fondi più rischiosi (quelli a 30 anni), unita alla previsione di un ulteriore aumento del deficit pubblico di 1,5 trilioni di dollari nella prossima decade, in seguito a un ampliamento del taglio fiscale introdotto nel 2017.
Questo evento e l’aumento del costo del debito, conseguente alla diminuzione di prezzo indotta sia dall’eventualità di “fuga dai titoli del Tesoro” (specie da parte dei Paesi asiatici e del Medio Oriente), sia dalla rarefazione dei compratori (cosiddetto buyer strike, McGeever, 2025), potrebbe portare ad una crescita del debito nazionale fino a 5,8 trilioni di dollari, secondo l’indipendente Committee for a Responsible Federal Budget (CRFB, 2025).
Dazi USA, la protesta dell’industria chip
Le principali aziende tecnologiche statunitensi, tra cui Le principali aziende tecnologiche statunitensi, tra cui Qualcomm, Intel, Micron e Nvidia, hanno espresso forti preoccupazioni riguardo all’impatto negativo delle misure protezionistiche dell’amministrazione Trump, in particolare l’introduzione di dazi su semiconduttori e componenti tecnologici importati. hanno espresso forti preoccupazioni riguardo all’impatto negativo delle misure protezionistiche dell’amministrazione Trump, in particolare l’introduzione di dazi su semiconduttori e componenti tecnologici importati.
Qualcomm, Intel e Micron
Qualcomm, Intel e Micron questa settimana hanno avvertito il Dipartimento del Commercio degli Stati Uniti che l’aumento dei costi di importazione derivante dai dazi potrebbe rallentare gli sforzi per incrementare la produzione nazionale di chip e tecnologie avanzate. L’aumento dei costi colpirebbe infatti l’intera catena di approvvigionamento, rendendo più onerosa la produzione interna e riducendo la competitività delle aziende americane, proprio mentre Washington punta a rafforzare la propria autonomia tecnologica.
Intel, pur avendo una presenza produttiva significativa negli Stati Uniti, esternalizza ancora parte della produzione di chip avanzati a fornitori esteri, soprattutto in Asia. Se i dazi dovessero colpire anche queste componenti o le apparecchiature necessarie per la produzione, la capacità degli Stati Uniti di espandere rapidamente la propria industria dei semiconduttori e dell’intelligenza artificiale sarebbe seriamente ostacolata.
Inoltre, le aziende americane di macchinari per semiconduttori – come Applied Materials, Lam Research e KLA – rischiano perdite fino a 1 miliardo di dollari all’anno a causa dell’aumento dei costi di approvvigionamento di componenti importati.
Nvidia
Nvidia, tra le aziende più esposte, ha dichiarato che i dazi renderebbero molto più costosa la produzione di chip e tecnologie avanzate, costringendola a trovare fornitori alternativi o ad aumentare i prezzi dei propri prodotti. Per aggirare i dazi, Nvidia ha annunciato investimenti massicci nella produzione di supercomputer e chip AI interamente negli Stati Uniti, collaborando con partner come TSMC, Foxconn e Amkor. Questo progetto mira a rafforzare la filiera americana, ma comporta costi e complessità notevoli, soprattutto in una fase di domanda globale in forte crescita.
Nonostante alcune esenzioni temporanee dai dazi per prodotti come smartphone, computer e processori – decise per evitare danni immediati alle big tech americane – l’incertezza rimane elevata. Le aziende temono che l’estensione delle tariffe ai semiconduttori possa compromettere la loro competitività globale e aumentare i prezzi per i consumatori finali.
Altri effetti sull’industria tech
L’industria tecnologica nel suo complesso sottolinea che i dazi rischiano di avere un effetto boomerang, colpendo le stesse aziende americane che dipendono da una supply chain globale per componenti, macchinari e tecnologie avanzate. Oltre ai maggiori costi, le restrizioni sulle esportazioni verso la Cina – già introdotte dall’amministrazione Biden e ora rafforzate – hanno avuto un impatto diretto sui conti di aziende come Nvidia, che ha stimato una perdita di 5,5 miliardi di dollari a causa dei limiti alle vendite dei suoi chip più avanzati.
Infine, secondo analisti ed esperti, le misure protezionistiche rischiano di danneggiare anche i consumatori americani, che si troverebbero a pagare prezzi più elevati per prodotti tecnologici e dispositivi elettronici. L’effetto complessivo sarebbe una riduzione della competitività dell’industria tech statunitense e un rallentamento dell’innovazione nel settore.
Redazione
L’impatto delle tariffe americane su debito pubblico e stabilità economica interna
Si tratta di uno shock non da poco per un Paese aduso a pagare tassi modesti per le proprie emissioni di titoli, anche in caso aumento del debito del Tesoro, considerato al vertice di una economia sana e di un mercato economico-finanziario, che è il punto di riferimento mondiale. È peraltro da mettere in evidenza come dal 2020 al 2024 il costo del debito, tradizionalmente basso, è quasi triplicato -secondo le stime del CRFB- da 445 a 882 miliardi di dollari (Fig.2)
Fig. 2

Fonte: CRFB, 2025
Il trend verso il raggiungimento del più alto livello della storia americana sembra chiaro (Peterson Institute, 2025). La manovra tariffaria ha ingenerato quasi subito prospettive di crescenti difficoltà per gli scambi internazionali e per l’economia americana, facendo emergere un potenziale di instabilità diffusa, con al centro proprio la prima potenza economica mondiale. La sensazione che la Presidenza Usa non avesse debitamente considerato l’impatto possibile delle misure intraprese è stata quasi generale. Sia la stampa specializzata che le imprese produttive e i big player (finanziari e produttivi) hanno in vari modi espresso la convinzione che l’aumento delle tariffe avrebbe causato innanzitutto un aumento dell’inflazione negli Usa e in altri Paesi, spingendo poi le Banche centrali ad intervenire con variazioni in aumento dei tassi di interesse, a seguito dei quali diventava molto probabile uno scenario di stagnazione. Il quadro estremamente complesso e incerto non poteva non indurre la volatilità dei mercati e aspettative generalizzate di grande incertezza nel mondo e negli Usa (Fig. 3)
Fig. 3

Fonte: Sandbu, 2025
Reazioni dei mercati e strategie difensive di fronte alle tariffe americane
Lo scenario ha indotto anche un significativo calo della fiducia dei consumatori (Fig.4)
Fig. 4

Fonte: Burn-Murdoch, 2025
L’impatto inevitabile su investimenti e consumi non può che essere depressivo ovunque, in quanto anche la retromarcia sospensiva delle misure non fa altro che spingere consumatori e imprese ad adottare un atteggiamento di forte prudenza, a meno che non si sia stati in grado di anticipare le mosse altalenanti della Presidenza USA, come è accaduto nel caso di Apple. Secondo Reuters (Kaira et al., 2025) l’azienda di Cupertino avrebbe anticipato l’introduzione delle tariffe facendo partire dall’India voli cargo con 600 tonnellate di Iphone, pari a quasi un 1.500.000, dopo una forte intensificazione dei ritmi produttivi.
In ogni caso non hanno certo stabilizzato le aspettative degli operatori su tutti i mercati i dissidi all’interno dell’entourage di Trump. È infatti singolare che Elon Musk abbia pubblicamente dichiarato la sua contrarietà alle nuove tariffe[1], spingendosi fino a discutere pubblicamente con Peter Navarro, “architetto delle tariffe”, definito “più stupido di un mucchio di mattoni” e ribattezzato gentilmente “Peter Retarrdo” (Warzel, 2025). Big manager sostenitori di Trump sono stati più diplomatici.
Divisioni interne e critiche alla politica delle tariffe americane
Bill Ackman, miliardario di un hedge fund americano, ha postato su X l’affermazione che le tariffe sono l’”equivalente di una “guerra nucleare economica” e ha segnalato il rischio di una grave perdita di reputazione degli USA nel resto del mondo. Ackman ha anche riconosciuto di aver sottovalutato l’inclinazione di Trump a “creare caos”. Molto più morbida la valutazione di Joe Lonsdale, co-fondatore di Palantir[2], secondo il quale “le tariffe potevano essere fatte meglio”.
Intanto da Wall Street sono partiti dei segnali di allarme circa il futuro dei mercati (Gannon, 2025). Larry Fink (CEO, BlackRock) ha messo in evidenza come l’incertezza e l’ansietà fossero al centro delle conversazioni con i clienti. Jamie Dimon (CEO, JPMorgan) si è soffermato sulla paralisi decisionale di investitori e consumatori, mentre operatori di alto livello delle banche già adottano comportamenti precauzionali, basati su accantonamenti per coprire possibili perdite[3]. Molti top CEO americani sono intanto propensi a ritenere probabile l’inizio di una recessione nell’anno incorso e qualcuno si spinge fino a ritenerla già avviata (Pound, 2025).
La fuga verso beni rifugio e l’erosione della fiducia nelle tariffe americane
Non sorprende che in uno scenario confuso ed estremamente complesso, in seguito alle prospettive di escalation delle risposte tariffarie, in primis della Cina, si sia innescata la corsa a beni rifugio, quali oro, yen e titoli europei. Lo ha rivelato la Deutsche Bank, la cui responsabile delle vendite per la Cina e i mercati emergenti, Lillian Tao, ha affermato che investitori cinesi stanno diversificando il loro portafoglio, con l’abbandono dei titoli del Tesoro Usa per orientarsi verso l’oro e i titoli europei (The Business Time, 2025).
La fuga dai titoli americani è rilevata anche dal Sole24ore (Cellino, 2025), ma viene argomentata -sulla base di analisi dell’Institute of International Finance- una tesi che invita alla prudenza interpretativa, perché comparazioni con precedenti significative crisi (Covid, 2008, 1973) mostrano trend analoghi a quelli odierni, ma non tali da portare a sommovimenti strutturali dei flussi finanziari. Il dollaro non ha infatti subito rilevanti liquidazioni dall’estero e la domanda di T-bond a 10 e 30 anni è tuttora sostenuta (Cellino, 2025).
La futura evoluzione del dollaro dipende dunque da come evolve la politica tariffaria e dalle reazioni che si innescano a vari livelli, come vedremo tra poco nte. Il dato interessante è che il “nervosismo” degli investitori è generalizzato anche a Wall Street, dove lo shock delle tariffe è particolarmente avvertito dai clienti, data l’intensificazione dei timori e le conseguenti richieste di informazioni sulle scelte da effettuare, anche dopo la retromarcia di Trump. Incertezza e dubbi sulle proprie posizioni finanziarie sono estremamente diffuse, con spinte verso la ricerca di indefinite soluzioni alternative (Herbst-Bayliff et al., 2025).
Il contesto normativo delle tariffe americane e i rischi istituzionali
Le misure tariffarie in realtà si inseriscono in un turbinio di decreti presidenziali, che investono numerosi campi del sistema socio-economico Usa: riduzione di finanziamenti alle Università, revisioni normative a favore dell’industria farmaceutica (Aboulenein, 2025), conflitto con la Corte Suprema in tema di diritti individuali (Luce 2025), e così via.
Le decisioni presidenziali rischiano, inoltre, di modificare equilibri di fondo del sistema politico-istituzionale USA e del sistema mondiale. Su “Politico” il “tariff man”, afferma Victoria Guida (2025), “finally shot the hostage”, riprendendo una dichiarazione dell’analista Neil Dutta. Nel trimestre in corso il mondo è infatti sospeso su un pendio s un pendio molto rischioso.
Le implicazioni in termini di disordine interno e globale
L’incertezza e il disorientamento imperanti mettono innanzitutto a dura prova le strategie della Federal Reserve in termini di obiettivi occupazionali e di controllo dell’inflazione, come sostiene il Governatore Jerome Powell (Jones, 2025) perché rischiano di mettere in moto un quadro di stag-flazione (inflazione+stagnazione) dopo un periodo indeterminato di attese e comportamenti imprevedibili dei vari attori internazionali. La Federal Reserve ha infatti esplicitamente adottato un approccio “wait and see” (Schneider e Saphir, 2025) e i mercati non si attendono una variazione del tasso di interesse dalla prossima riunione di Maggio della stessa banca (Moore, 2025).
L’ipotesi che gli equilibri interni agli Usa siano messi in discussione emerge anche dall’analisi di Bloomberg (Orlik, 2025), che stima l’impatto potenziale delle misure odierne sulla base del modello di simulazione impiegato dalla Federal Reserve durante il primo mandato presidenziale di Trump. Il risultato è uno scenario deflattivo, che si dispiega su un arco di tempo triennale. Pur condividendo alcune tesi di Trump, come la necessità di un riequilibrio degli scambi con alcuni Paesi, che “fregano gli USA”, quindi del loro dovere di cambiare le politiche sulla base del principio “buy more, sell less, rebalance trade”, il contributo in questione espone le ragioni per cui la strategia del reshoring dell’industria manifatturiera è foriera di problemi:
- i salari americani sono più alti che in Cina e negli altri Paesi.
- Le tariffe causerebbero costi più alti per le imprese manifatturiere, che dovrebbero acquistare componenti e macchinari essenziali.
- L’eventualità che l’industria manifatturiera sia reintrodotta in America non deve suscitare aspettative infondate di grandi aumenti occupazionali, dal momento che è prevedibile un rilevante impiego di robot sostitutivi di posti di lavoro.
A conferma di ciò si porta l’esempio emblematico dell’Apple: “Ity’s notable that Apple’s press release from February touting $500 billion in investments in the US also promises to create a scant 20.000 jobs. Do the math, and that’s a cool of $ 25 million for each new –employee- nice work if you can get it” (Orik, 2025: 17).
L’improvvisazione della politica delle tariffe americane e i rischi sistemici
L’orizzonte del ritorno del manifatturiero negli States non sembra quindi l’esito di una riflessione ponderata sul futuro del sistema socio-economico. Detto in altri termini, le misure intraprese appaiono di natura improvvisata, anche se frutto di una radicata visione, definita “ossessione” da Bloomberg (Green, 2025). Non sembra infondata la tesi che la politica tariffaria appena dispiegata non derivi da un Master Plan (Warzel, 2025) e quindi si configuri piuttosto come un’opzione variabile alla luce delle reazioni di una molteplicità indefinita di attori.
Il problema è che ciò accade nel –per così dire- “teatro finanziario” intorno a cui gravita il mondo intero, mentre al centro del palcoscenico è il Tesoro americano, che costituisce un canale importante per la politica monetaria della Federal Reserve, in quanto dal suo andamento scaturisce il rendimento degli asset finanziari risk free, quindipunto di riferimento per la definizione dei prezzi degli asset rischiosi nei vari mercati. Al tempo stesso il mercato del Tesoro costituisce “key source of safe and liquid assets for investors and is used for liquidity risk management by many financial firms, both banks and nonbanks” (Liang, 2025).
Le crisi, che hanno investito nel 2008 e durante il Covid il mercato dei titoli del Tesoro (T-bond), hanno causato mutamenti importanti sia nella composizione degli operatori che nelle loro strategie operative, con il risultato di ridurre la liquidità del mercato e l’ulteriore effetto di renderlo meno resiliente, cioè soggetto a marcate oscillazioni dei tassi di rendimento. Questi trend sono poi divenuti più accentuati in condizioni di incertezza e hanno richiesto, come durante il Covid, potenti iniezioni di liquidità da parte della Federal Reserve, che nel 2020 ha comprato T-bond per 360 milioni di dollari. In questo caso l’iniezione monetaria (quantitative easing) era coerente con gli obiettivi di politica monetaria di stimolo all’economia e di far salire l’inflazione al 2%. L’equilibrio strategico tra componenti fondamenti delle Istituzioni è stato quindi preservato, riducendo l’incertezza e la volatilità dei rendimenti.
Attualmente, invece, l’escalation tariffaria altalenante e lo stallo incbombente (90 giorni) ha spinto verso il basso il prezzo dei T-bond a 10 e 30 anni, generando un incremento della volatilità e dei costi di transazione sui titoli, mentre tra gli operatori emergeva la tendenza a lasciare i titoli rischiosi Fig. 5).
Fig. 5

Fonte: Wigglesworth et al., 2025 (LSEG)[4]
L’improvvisazione della politica delle tariffe americane e i rischi sistemici
Feedback loop tra disorientamento, confusione strategica, incertezza e volatilità sono la fonte di imprevedibilità ed espressioni della discrasia di fondo tra comportamenti di organismi fondamentali della più importane economia del mondo. Le dichiarazioni improvvide di importanti autorità istituzionali hanno poi complicato ulteriormente il quadro, ingenerando la sensazione di anticipazioni indebite, mentre un numero crescente di americani ricchi hanno aperto conti in banche svizzere per evitare i rischi incombenti sugli Usa (Frank, 2025).
Le tariffe americane e la crisi del sistema commerciale multilaterale
Le misure tariffarie USA rischiano di provocare, date le modalità di emanazione e la loro natura variabile, “danni permanenti” al sistema del commercio internazionale, le cui regole di funzionamento, basate su accordi tra i vari Paesi, sono del tutto obliterate. I danni sono profondi, perché investono molti piani delle relazioni internazionali. In primo luogo l’iniziativa USA, consapevolmente o meno, di fatto tenta di riaffermare la centralità dell’America nelle trattative con Paesi “orbitanti” in quella che è chiaramente concepita come la sua sfera di influenza, ad eccezione della Cina, vista come avversario di cui contenere velleità espansive.
Sono dunque messe unilateralmente in discussione i fondamenti di una governance mondiale del commercio, finora basata regole stabilite in ambito WTO, ma che è necessario rivedere alla luce dei mutamenti in atto da tempo nella configurazione mondiale dei flussi di beni e servizi (Lombardi e Paci, 2023). Il riorno dal multilateralismo all’unilateralismo “su misura”, per così dire, ha evidenti implicazioni geopolitiche, nella misura in cui lascia trasparire non una strategia definita, bensì un insieme indeterminato di accordi specifici, che dovrebbero avere una portata criss-cross, investendo le esistenti associazioni internazionali tra Paesi, a volte riguardanti aree geografiche delimitate e altre inclusive di più aree strategiche (si pensi ai BRICS). Le tariffe americane sono quindi, di fatto, interventi multidimensionali, perché intrinsecamente destinati a modificare dinamiche geo-strategiche, socio-economiche e politiche di notevole complessità, che peraltro deriva dall’applicazione meccanica di una “formuletta” elementare nel determinare la molteplicità tariffaria, specifica per Paese: surplus commerciale di un Paese verso gli Usa, diviso per le sue esportazioni, trasformata in percentuale che, divisa per 2, dà la tariffa mirata per ciascuna.
L’era del caos: come le tariffe americane destabilizzano l’ordine globale
Occorre poi considerare un ulteriore effetto dirompente dell’iniziativa Usa. Essa interviene in un mondo iperglobalizzato, dove le catene del valore sono estremamente distribuite, per cui le differenze tariffarie generano chiaramente andamenti dei costi del tutto imprevedibili. L’impatto sulle trasformazioni delle supply chain globali non può che essere dirompente, essendo necessario ridefinirle in un orizzonte oscuro, soggetto a variabili fuori controllo e con forza distruttiva di equilibri raggiunti faticosamente.
Le strategie multi-scala degli attori economici e politici devono essere rielaborate in un contesto di alleanze più o meno strutturate, con la conseguenza che possono amplificarsi le differenze di vedute, i contrasti di interessi, le difficoltà nel definire nuovi accordi. Sembrano quindi destinati ad emergere squilibri permanenti, con la creazione di un’atmosfera certo non favorevole a investimenti e decisioni strategiche di medio –lungo termine.
Un’”era del caos”, appunto, che erode sostanzialmente la fiducia, elemento basilare per le decisioni di qualsiasi natura, da cui deriva poi l’ansietà per il futuro ignoto, unito ad aspettative non ottimistiche in tema di lavoro, iniziative imprenditoriali, rivalità geopolitiche fuori controllo. Possono derivarne l’instabilità finanziaria, le diseguaglianze all’interno dei (e tra i) Paesi, la perdita di credibilità delle élites politico-culturali e delle strutture istituzionali, innescando per questa via quella che è stata definita “crisi del capitalismo democratico” (Wolf, 2023), con il diffondersi di regimi autoritari e di peculiari forme di democrazia autoritaria[5].
Il futuro del dollaro nell’era delle tariffe americane variabili
L’era del caos potrebbe essere caratterizzata da un’altra tendenza già emergente: la perdita di fiducia nel dollaro come asset sicuro e riserva di valore della Banche Centrali (Wiggleswort et al., 2025), in quanto la sua attuale perdita di valore, pur se al di sopra dei valori minimi raggiunti in passato (Fig.6), viene associata alla perdurante incertezza sulle decisioni della Presidenza Usa e degli altri protagonisti del sistema degli scambi internazionali.
Fig. 6

Fonte: Wiggleswort et al., 2025
L’eventualità non si può escludere, se si ipotizza la continuazione di una politica tariffaria variabile, anche se il dollaro resta la moneta predominante come riserva detenuta dalle banche Centrali (Fig.7).
Fig. 7

Fonte: IMF, Time Period 2024 Q3, Allocated Reserves of currencies (billions)
Un ulteriore elemento da tenere presente è che uno dei temi al centro della riflessione di molte Banche Centrali è la creazione di monete digitali (CBDCs, Central Bank Digital Currencies), delle cui implicazioni sul sistema dei pagamenti internazionali e sul ruolo del dollaro si discute molto. La stessa Banca Centrale Europea sta riflettendo sulla necessità di creare l’“euro digitale”, su cui è intervenuto più volte il Governatore della Banca d’Italia (Panetta, 2023)[6].
Le radici storiche degli squilibri che le tariffe americane tentano di correggere
Occorre però segnalare una questione più generale, posta da alcuni analisti di economia e politica internazionale. Gli odierni squilibri degli scambi commerciali degli Usa con l’estero sono il pendant dell’egemonia del dollaro sul mercato finanziario globalizzato, in seguito alla dinamica del processo di globalizzazione. Pettis (2024) ha messo in luce come altri Paesi abbiano adottato politiche industriali mirate, al fine di sviluppare la propria industria manifatturiera e renderla competitiva (costi e prezzi più bassi), mentre l’America attraeva i capitali in eccesso, che si formavano nelle nuove aree del mondo. È opportuno chiarire che ciò è avvenuto grazie al poderoso sviluppo della finanza globale e dei servizi finanziari messi a disposizione dagli operatori del Nord America, mentre nella Silicon Valley si sviluppavano i poderosi motori del sistema fisico-cibernetico mondiale (Lombardi e Vannuccini, 2022). Si è quindi creata una sorta di “divisione del lavoro” a livello globale tra Usa e il resto del mondo, a nostro parere ben sintetizzata dal seguente passo di Pettis (2024):
“To be more specific, if export-enhancing policies in one country force domestic savings to exceed domestic investment, as long as that country has unfettered access to foreign financial and capital markets, the country into which it directs its excess savings must either increase its investment or, if it cannot do so (as is the case in most advanced and many developing economies), it must accept structural changes that reduce domestic savings. The imbalance between savings and investment in the latter country, in other words, is determined by the imbalance created in the former.”
Se aggiungiamo a tutto questo il contenimento della domanda interna agli Usa, data la distribuzione del reddito molto squilibrata, si comprende come durante gli ultimi cinque decenni si è realizzato una sorta di equilibrio globale, basato su asimmetrie di fondo che si compensavano. Al tempo stesso, però, l’evoluzione socio-economica complessiva accumulava al proprio interno un potenziale di instabilità, dovuto al convergere di trend dirompenti: accelerazione tecnico-scientifica, disuguaglianze crescenti, creazione di una sfera informativa globale soggetta a meccanismi endogeni di alterazione dei processi decisionali, crisi delle democrazie.
È pertanto emerso con forza quello che anni or sono l’economista Dani Rodrik (2007) ha chiamato “inevitabile trilemma dell’economia mondiale”, ripreso da Derbyshire (2017) e Pettis (2025): “democrazia, sovranità nazionale e integrazione economica globale sono incompatibili”. È possibile perseguire simultaneamente 2 dei 3, ma non tutti e 3 gi obiettivi, perché in un mondo iperglobalizzato le politiche economiche adottate nei Paesi si influenzano reciprocamente e quindi, in presenza di libertà dei movimenti di capitali e risorse, gli effetti di politiche altrui si riverberano necessariamente nella propria sfera di sovranità e viceversa. Bisogna dunque pensare ad un nuovo orizzonte di collaborazione internazionale, in assenza del quale non possono che moltiplicarsi eventi distruttivi sempre più forti.
Brevi riflessioni (non) conclusive
Può sembrare utopistico indicare la necessità di ripensare le basi di un nuovo approccio multilaterale in un mondo multipolare come quello odierno, caratterizzato da un numero elevato di guerre due delle quali coinvolgono Paesi con armi di distruzione di massa. Non esiste però alternativa più realistica, se si vuole salvare il Pianeta e la vita su di essa, tenendo presenti le sfide congiunte da affrontare: climatica, sanitaria, sociale, economica, alle quali occorre aggiungere la crisi dei processi democratici e i rischi degli sviluppi dell’intelligenza artificiale.
È necessario che gli intelletti di buona volontà si attivino per contribuire a delineare una svolta culturale, che inizi da una riflessione seria sul posto dell’uomo nella Natura e riacquisti la consapevolezza che la mente umana ha bisogno di interazioni sociali non conflittuali, tantomeno belliche, come principio ispiratore di ciascuno nel proprio spazio interattivo vitale, sia esso il lavoro-professione oppure l’esercizio di funzioni pubbliche a qualsiasi livello. Comprendere e vivere l’importanza assoluta del “pensare strategicamente” e con una visione sistemica si configura come un dovere ineludibile, mentre riconoscere negli altri esseri umani la comune matrice è un imperativo morale, che costituisce la nostra essenza. Queste affermazioni sono ancor più necessarie oggi, perché nell’odierno scenario globale si profilano rischi epocali.
Bibliografia
Aboulenein A., 2025, Trump signs healthcare executive order that includes a win for pharma companies, Reuters, April 16.
Bergengruen V., 2024, How Tech Giants Turned Ukraine Into an AI War Lab, Time Magazine, February 24.
Burn-Murdoch J., 2025, Trump chaos is alienating Republicans, Financial Times, April 10
CNBC, 2025, Investors are growing concerned about a U.S. asset exodus as Treasury’s and the dollar decline, Avril 12.
CRFB, 2025, Senate Budget Could Enable Unprecedented Deficit Increase, April 4.
Derbyshire J., Why governments can’t have it all, Financial Times, July 28.
Fabbri F., 2024, Batterie per veicoli elettrici, ecco i 10 più grandi produttori al mondo, Energia Italia News, 9 Maggio.
Frank R., 2025, Rich Americans opening Swiss bank accounts fearing U.S. risks, CNBC, April 18
Gannon P. 2025, Wall Street execs sound warnings on economic outlook, Axios, April 18.
Green J., 2025, The Mar-a-Lago Theory of Trump’s Tariff Obsession, Bloomberg, May.
Guida V., 2025, ‘He Finally Shot the Hostage’: Trump’s Trade War Is a Brutal Reality Check, Politico, March 4.
Herbst-Bayliff S. et al., 2025, Wall Street’s response to tariff shock: client calls and bonus worries, Reuters, April 10.
Jones C., 2025, Donald Trump’s tariffs put Federal Reserve’s jobs and inflation goals at risk, says Jay Powell, Financial Times, April 17.
Kaira A. et al., 2025, Apple airlifts 600 tons of iPhones from India ‘to beat’ Trump tariffs, sources say, Reuters, April 10.
Liang N., 2025, What’s going on in the US Treasury market, and why does it matter?, Brookings, The Hutchins Center on Fiscal and Monetary Policy, April 14.
Lombardi M., Vannuccini S., 2022, Understanding emerging patterns and dynamics through the lenses of the cyber-physical universe, Patterns 3, November 11.
Lombardi M, Paci A., 2023, Quale governance per un’economia aperta? L’organizzazione mondiale del commercio: un’ambizione tanto più necessaria, Annuario CESPI in collaborazione con Intesa Sanpaolo, Donzelli Editore.
Luce E., 2025, Trump is halfway to making America a police state, Financial Times, April 15.
Markets Insider, 2025, Palantir (PLTR) Stock Dive Opens Door for Retail Investors to Join the Elite, March 13.
McGeever, 2025, Creaking US bond market signals danger still lurks, Reuters, April 10.
Moore S., 2025, Interest Rate Cut Unlikely At Fed’s May Meeting, According To Markets, Forbes, April 21.
Orlik T. 2025, Dangerous Game, Bloomberg Businessweek, May.
Panetta F., 2023, The cost of not issuing a digital euro. Speech at the CEPR-ECB Conference The macroeconomic implications of central bank digital currencies, Frankfurt am Main, 23 November.
Peter G. Peterson Institute, 2025, Any Way You Look at It, Interest Costs on the National Debt Will Soon Be at an All-Time High, January 22.
Pettis M., 2024, Which Country Should Design U.S. Industrial Policy?, Carnegie Endowment for International Peace, July 17.
Pettis M., 2025, The US would be better off without the global dollar, Financial Times, April 11.
Pound J., 2025, BlackRock’s Larry Fink says U.S. is very close to a recession and may be in one now, CNBC, April 7.
Reuters, 2025a, What just happened in the US Treasury market? April 12.
Reuters, 2025b, Wall Street’s week of whilplash brought fear, relief, and caution, April 10.
Rodrik D., 2007, The Inescapable trilemma of the world economy. Unconventional thoughts on economic development and globalization, Dani Rodrik’s weblog, June 27.
Sandbu M., 2025, Donald Trump has had his first Liz Truss moment, Financial Times, April 10.
Schneider H., Saphir A., 2025, Powell says Fed remains in wait-and-see mode; markets processing policy shifts, Reuters, April 17.
Smith J., McCormick, 2025, US shale sector in peril as oil price plunge rattles drillers, Financial Times, April 10
The Business Times, 2025, Duetsche Bank sees more China clients moving out of US assets, April 18
Warzel C., 2025, There Was Never a Master, The Atlantic, April 9.
Wolf M., 2023, The crisis of democratic capitalism, Penguin Press.
[1] Ciò è del tutto comprensibile se si pensa che imprese cinesi nel 2023 producevano il 57%, a livello mondiale delle batterie agli ioni di litio per la mobilità elettrica (Fabbri, 2024).
[2] Il 60% del fatturato di Palantir è realizzato con il Ministero della Difesa americano (Markets Insider, 2025) e la società è primaria protagonista della guerra cibernetica in Ucraina (Bergengruen, 2024).
[3] Un esponente di JPMorgan ha anche indicato l’accantonamento di 975milioni di dollari a fini precauzionali (Gannon, 2025).
[4] LSEG (https://www.lseg.com/) è un centro di analisi ed elaborazione dati in campo finanziario a livello globale.
[5] Di cui abbiamo esempi in Europa e nel mondo.
[6] Su questi temi nei giorni 8-10 Maggio prossimo si svolgerà a Firenze un importante Convegno Internazionale (https://bic25.org/), organizzato presso Il Dipartimento di Scienze per l’Economia e l’Impresa dall’Unità Dipartimentale di Ricerca Babel-Unifi. Sono previsti interventi di esponenti di Banche Centrali e autorevoli studiosi internazionali.