il paradosso

Fondi pubblici per l’innovazione: ecco perché in Ue non nascono Big Tech



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Le startup europee faticano a crescere, ostacolate da frammentazione normativa, scarsa propensione al rischio e meccanismi di finanziamento inefficaci. Gli Usa, di contro, dimostrano come obiettivi ambiziosi e committenza pubblica possano generare innovazioni rivoluzionarie

Pubblicato il 20 dic 2024

Francesco Vito Tassone

imprenditore nel Cleantech



innovazione (1)

É ormai sotto gli occhi di tutti che l’Europa sta perdendo tutte le principali sfide sull’innovazione e sta affrontando una forte deindustrializzazione. Attenzione, però: stando ad Eurostat l’Europa contribuisce per il 20% degli investimenti nella ricerca e nell’innovazione a livello mondiale. E sono le imprese a rappresentare i maggiori investitori in R&S, per una quota del 66% della spesa totale europea (quasi 233 miliardi di euro su 352 totali). Perché, allora, L’Europa fatica a far emergere leader globali nel settore tecnologico?

L’Europa e l’innovazione: un paradosso nascosto

Allo stesso tempo dal 2015-2023 le tech company del Vecchio Continente hanno raccolto 426 miliardi di dollari, decuplicando il valore del decennio precedente con un settore che impiega 3,5 mln di persone con più startup attive anche rispetto agli USA, ben 35.000.

Allo stesso tempo l’Europa è l’area geografica al mondo che produce più PhD in materie tecnico scientifiche, con un livello medio ai vertici mondiali e dal costo unitario particolarmente basso, una frazione rispetto agli USA. Quindi le già enormi risorse mobilitare in realtà sono in grado di muovere una massa critica superiore di materia grigia rispetto a quasi qualsiasi area geografica al mondo.

Usa-Ue: un confronto impietoso

Di fronte a questo non abbiamo creato negli ultimi 50 anni una sola azienda ai vertici mondiali nel tech.

Le “magnificent 7” sono le 7 aziende più grandi negli USA per capitalizzazione Alphabet, Amazon, Apple, Meta, Microsoft, Nvidia e Tesla valgono insieme 16,2 trilioni di dollari, più di tutte le borse europee messe insieme UK inclusa. Sono tutte tech company, la più vecchia è Microsoft che ancora non ha spento 50 candeline.

L’equivalente europeo, le 11 grandi “Granolas” sono Gsk, Roche, Asml, Nestlé, Novartis, Novo Nordisk, L’Oreal, Lvmh, AstraZeneca, Sap e Sanofi. Ne valgono 2,6, un ottavo. Di queste c’è molto farmaceutico, vede 2 aziende attive nell’elettronica ed ICT, lusso, cosmetica, la più recente è ASML nata nell’84, ma da una costola di Philips che di anni ne ha più 130. Le altre frutto di varie fusioni. Non è male, se non fosse che tutte hanno più di 50 anni, molte più di un secolo.

Il caso della Francia

Cosa manca quindi al sistema europeo per performare al pari di quello nordamericano.

Se guardiamo uno dei campioni europei dell’innovazione, del venture capital e della spesa pubblica in ricerca, la Francia, forse troviamo qualche indizio.

Pur essendo la nazione che da sempre ha mobilitato grandi risorse pubbliche i pochi cittadini francesi che hanno fondato startup negli USA hanno performato meglio dell’intero ecosistema francese.

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Il confronto è impietoso.

Regimi di favore alle startup: ma è la strada giusta?

Il valore di mercato trasparente, cioè quello determinato dal valore a mercato mobiliare a seguito di una IPO, vede una valutazione delle french startup negli USA 100 volte superiore, con ben 4 decacorni (società private con una valutazione di oltre 10 miliardi di dollari) in Usa VS zero in Francia. Questo risultato è stato raggiunto raccogliendo un decimo delle risorse raccolte in Francia. Con solo 17 miliardi raccolti da privati VS 170 milioni di risorse mobilitate in gran parte pubbliche.

Quando in Europa quindi si chiedono maggiori aiuti alle startup, regimi fiscali di favore, grants etc. dovremmo chiederci: ma siamo sicuri che la strada sia quella giusta?

Ma, soprattutto, visto che storicamente gli investimenti dei VC veri sono tra le asset class a maggior rendimento, per quale motivo dovremmo mobilitare regimi fiscali di favore per convincere gli investitori ad investire nei settori a più alto rendimento? E per quale motivo questi, pur avendo in gestione trilioni di euro, non investono nel Venture Capital europeo?

Il rebndimento è il vero problema

Forse dovremmo chiederci piuttosto perché in Europa non c’è il rendimento.

Perché la controparte del ragionamento è: in Europa I fondi VC al netto dei contributi pubblici perdono soldi. Finanziare un VC e non vedere nel loro portafoglio Unicorni e buoni rendimenti vuol dire semplicemente allocare aiuti alle piccole aziende passando per una intermediazione finanziaria costosa, che vive grazie alla management fee. Un mercato in cui i VC continuano ad operare sul mercato, e non guadagnano dai rendimenti vuol dire non fare selezione tra i VC ed avere una scelta di investitori su cui allocare le risorse che molto probabilmente non migliorerà nel tempo.

Il mercato delle valutazioni su carta

L’aggravante è che siamo il mercato delle valutazioni su carta, (specie in Francia) dove un fondo a maggior sottoscrittore pubblico cede ad un altro fondo a maggior sottoscrittore pubblico. Entrambi magari partecipati dalla stessa istituzione e tutti si raccontano di aver fatto bene il proprio mestiere. Però di aziende plurimiliardaria da 10-100 e più miliardi non se ne vedono le tracce.

Frammentazione e sovraregolamentazione

Cerchiamo di analizzare i motivi per cui gli ecosistemi performano in modo così diverso, da quello più ovvio a quello forse più strategico.

Quello più ovvio è la frammentazione del mercato, fatto da norme, lingue, raccolta capitali etc. Per cui abbiamo CDP che investe poco in startup Italiane, BPI investe molto di più ma solo francesi, i lander in quelle tedesche etc. A cui si aggiunge la iperregolamentazione bulimica europea che vede ad esempio circa 100 leggi incentrate sul settore tecnologico e oltre 270 autorità di regolamentazione attive nelle reti digitali in tutti gli Stati membri. Con requisiti eterogenei. Con 13.500 nuove nome nate negli ultimi 5 anni. Una produzione di milioni di pagine.

Il ruolo distorsivo della burocrazia pubblica

A fronte di questo la nuova commissione propone una pezza peggiore del buco.

Aggiungere un 28esimo regime speciale per le startup, che però si somma ai 27 esistenti. Per cui il metodo prevede che si sappia ex ante quali saranno le startup di successo è distorsivo. Per cui per alcune aziende si applica un regime regolamentatore diverso da altri.

E chi decide questo? La seconda distorsione è che un sistema del genere sicuramente farà si che ad accedere al regime speciale diverso siano le startup con il pedigree giusto, quelle che vendono da incubatori “certificati” oppure che abbiamo alle spalle gli investitori “Giusti” o vengono fuori dai circuiti universitari corretti e via dicendo. Che abbiamo dietro I Grant buoni e via dicendo.

Il mercato però non funziona così. La storia dimostra come non è il pedigree a dire chi diventerà decacorno o più. Le startup di successo spesso sono quelle che hanno founder, per citare un termine molto in voga nella City, con la “cazzimma” giusta. Anche qui uno sguardo oltreoceano ci può dare una mano.

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Molto dell’ecosistema USA è nato da immigrati, senza pedigree, non nati negli USA. Che sono andati lì in cerca di fortuna e che hanno trovato nel mercato la selezione naturale, non nella procedura.

Passiamo però all’aspetto più strategico e che richiederebbe maggiore attenzione.

Domanda pubblica vs offerta di innovazione

Forse uno dei problemi europei e su cui non si presta mai abbastanza attenzione, è su come la spesa pubblica finisce nei circuiti dell’innovazione

Il pubblico in tutto il mondo è il top spender. In Europa la spesa pubblica è stabilmente sopra il 50% del PIL. Forse prima di chiedere al pubblico di entrare direttamente o indirettamente nel capitale delle startup, prima di finanziare ricerca e sviluppo senza preoccuparsi se gli output hanno senso sarebbe il caso che il top spender sia il cliente dell’innovazione. Tant’è che ha in mano, in modo quasi esclusivo, alcuni dei settori a più alta necessità di innovazione:

  • Difesa, con tutto quello che ruota intorno, dall’elettronica avanzata, ai sistemi di trasporto, alle telecomunicazioni, etc.
  • Salute, con il farmaceutico, la robotica, la diagnostica etc.
  • Mercato dell’energia, dove sono I soggetti pubblici a dare le carte al mercato. E molti altri. Tutti questi settori avrebbero altissima necessità di innovazione deep e disruptive.

Se da un lato questo top spender dovrebbe essere il maggiore acquirente di innovazione, allo stesso tempo se guardiamo al mercato sono tutti comparti off-limits alle startup. I requisiti di accesso per essere fornitori sono inarrivabili. Requisiti di capitale, fidejussione, mezzi propri per finanziare gli stati di avanzamento, relazioni. Nelle commesse “innovative” a livello europeo si vedono coinvolte sempre e quasi esclusivamente grandi aziende, alcune tra l’altro che vedono negli stati l’azionista di maggioranza, oppure cordate infinite, con più nazioni coinvolte, dove le attività di coordinamento sono più importanti delle reali attività di introduzione dell’innovazione. Non mi sembra che vi sia una sola municipalità europea che si sia dotata di veicoli prodotti da startup, oppure lanciatori di startup europee etc. senza il più grosso cliente sulla piazza. L’unico che può veramente rischiare. E’ difficile per una startup anche raccogliere capitali privati ed ecco uno dei motivi della bassa scalabilità.

I limiti dei grant pubblici

Altro punto su cui si vede uno Stato che pretende di guidare l’offerta più che di generare la domanda la si vede nei miliardi investiti in tutta Europa per Grant alle imprese e startup. Tutte hanno la stessa dinamica: le imprese propongono un progetto di innovazione in cui dichiarano che in X ore di lavoro e con X mezzi otterranno il risultato A. In Y ore otterranno il risultato B ed in Z ore otterranno il risultato C. Presentata la domanda se questa viene ritenuta ammissibile da un valutatore pubblico, che però non comprerà l’output, ecco che lo Stato contribuisce in quota parte alle spese.

Nella maggior parte dei casi si verificherà che dopo il tempo X, Y e Z I risultati ottenuti saranno A,B e C. Ed a questa tipologia di aiuto partecipano dalla micro impresa alla grande azienda. È evidente a tutti che siamo di fronte ad attività di mero ribaltamento di costi interni su Grant pubblico. Chiunque si sia trovato ad affrontare sfide che richiedono profonda innovazione, che per definizione deve essere disruptive, non è in grado di pianificare ex-ante tempi e risultati con il livello di precisione con cui viaggiano i vari Grant.

Le lezioni americane: Darpa e obiettivi ambiziosi

Ma da questo nasce un’altra domanda: se l’innovazione rappresenta una sfida alla sopravvivenza del core business di un’impresa, perché mai una PMI o una grande azienda dovrebbe decidere di sottostare a tempistiche e regolamenti pubblici?

Valutiamo invece dove sono proprio gli Stati a performare bene ed hanno contribuito e contribuiscono a generare ecosistemi dell’innovazione.

La risposta è semplice: quando stabiliscono quello che per loro è un desiderata strategico di innovazione in un settore o materia che capiscono bene e sono pronti a comprarla, a rischio, da chiunque sia in grado di fornire il risultato richiesto.

Oppure quando si pongono obbiettivi così alti che lungo il percorso, per risolvere innumerevoli sfide e problemi, nascono le innovazioni che cambieranno il mercato. Anche li prediamo ad esempio il primo della classe, gli Stati Uniti,

La Silicon Valley, prima della domanda pubblica di semiconduttori per armamenti, era solo Valley a produzione agricola. Le innovazioni nate dietro il programma Apollo sono state così numerose non perché si è finanziata un’impresa per fare innovazione, ma perché a fronte di un risultato atteso al limite del tecnicamente impossibile, decine di imprese si sono inventate tecnologie fino a quel momento inesistenti.

Dietro i progetti, la più grande fucina al mondo delle tecnologie del domani: il Defense Advanced Research Projects Agency (lett. “Agenzia per i progetti di ricerca avanzata di difesa”, in sigla DARPA). Non mega istituzioni, cordate infinite, ma 220 persone che gestiscono circa 250 progetti per volta. Però grazie alla richiesta di desiderata impossibili sono nati Internet, il GPS, in quantum computing, le tecnologie stealth, robotica avanzata, AI, lidar e centinaia di altre tecnologie disruptive.

Questa ambizione ha fatto sì che negli anni gli USA abbiano messo budget pubblico su progetti infinanziabili in Europa.

L’esempio del progetto Nascent Light-Matter Interactions (NLM)

Faccio un esempio recente. Tra i progetti più assurdi finanziari dalla Darpa recentemente c’è sicuramente Nascent Light-Matter Interactions (NLM) Una variazione del progetto di motore EMdrive, motore che viola della legge di conservazione della quantità di moto. Quindi la possibilità che tale motore sia impossibile è prossima al 99,99%. Perché finanziarlo? per due motivi:

Il primo è che proprio cimentandosi in progetti impossibili che lungo il percorso, per affrontare problemi impossibili, può nascere la vera innovazione anche se il risultato finale non si raggiunge.

Il secondo è che solo il pubblico può scommettere su quello 0,001% che nel caso in cui funzioni genera un vantaggio competitivo risultante enorme.

Il CHIPS and Science Act

Ma saliamo di scala sempre negli USA, con il CHIPS and Science Act. L’atto include 39 miliardi di dollari di sussidi per la produzione di chip sul suolo statunitense, unitamente a crediti d’imposta sugli investimenti del 25% per i costi di manifattura e 13 miliardi per la ricerca sui semiconduttori. Il desiderata è chiarissimo. A queste imprese gli USA garantiranno le commesse, visto che tutto l’apparato pubblico, a partire dalla difesa comprerà solo CHIP made in USA. Le imprese stanno rispondendo mobilitando risorse a leva.

Il programma Horizon Europe

Nel mentre in Europa ecco che abbiamo Horizon Europe, il Programma quadro dell’Unione europea per la ricerca e l’innovazione per il periodo 2021-2027 successore di Horizon 2020.

Il programma ha una durata di sette anni ed ha una dotazione finanziaria complessiva di 95,5 miliardi. È il più vasto programma di ricerca e innovazione transnazionale al mondo. In cui gli Stati mettono enormi risorse senza però dire cosa vogliono. Aspettano le proposte dal basso. Ed ecco quindi che migliaia di consulenti lavoreranno per presentare migliaia di richieste di agevolazione, confezionante ad uso e consumo dei valutatori, quindi con cordate transnazionali, con cronoprogrammi precisissimi, rendicontazioni impeccabili, con cui si finanzieranno decine di migliaia di imprese a fare innovazione. La storia delle programmazioni precedenti ci fa ipotizzare che di grandi innovazioni e di aziende che cambieranno il mondo, grazie a queste risorse non ne vedremo.

L’equivalente del CHIPs act Europeo, è fumoso, presenta un budget di 15 miliardi non molti, ma condiviso con altri programmi può arrivare 43 miliardi, ha uno spettro di azione amplissimo, che copre 27 mercati, ma non chiarisce se il committente pubblico comprerà Chip made in Europe. La risposta delle aziende è tiepida.

Qual è l’ulteriore effetto collaterale di questo approccio.

Che stiamo trasformando migliaia di talenti, PhD, la punta avanzata delle nostre intelligenze, in burocrati esperti di procedure, dove la selezione nelle imprese e nelle pubbliche amministrazioni di chi guida l’innovazione non è data da chi stravolge il mercato, ma da chi è bravo a raccogliere finanziamenti. Il disastro dietro il crollo in tutti i settori industriali che richiedono innovazione è di fatto pianificato, e lo stiamo vedendo ovunque in Europa.

Rischio e innovazione

Ultimo punto.

Il pubblico è quello che più di ogni altro può rischiare. Il settore pubblico e quello privato hanno approcci differenti alla gestione delle risorse e alla realizzazione di progetti, soprattutto in termini di innovazione e rischio. Il budget pubblico, finanziato attraverso la tassazione e gestito dalle istituzioni governative, può permettersi di cimentarsi in progetti più rischiosi rispetto al settore privato avendo flussi di cassa certi che difficilmente vengono intaccati dal rischio.

A differenza del settore privato che, se alloca le risorse in modo sbagliato, fallisce, il settore pubblico può giustificare gli investimenti in termini non necessariamente economici o temporalmente identificabili come la salute pubblica, la sicurezza nazionale e lo sviluppo sostenibile, il vantaggio competitivo sul lungo periodo sono obbiettivi pubblici by design. Se è proprio la commessa pubblica a richiedere la maggiore compliance, la più elevata rispondenza alle varie normative tecniche, a richiedere le maggiori garanzie, ecco che per definizione sarà il pubblico a comprare meno innovazione.

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