L’idea di open innovation introdotta vent’anni fa da Henry Chesbrough ha trasformato il modo in cui le imprese accedono, condividono e sviluppano conoscenza. Oggi, come ha spiegato Linus Dahlander, professore alla European School of Management and Technology di Berlino, questa logica collaborativa è entrata in una nuova fase: l’integrazione crescente dell’intelligenza artificiale nei processi di innovazione. Un cambiamento che, secondo il ricercatore, non si limita a rendere più efficienti le pratiche esistenti, ma sta riscrivendo le regole della collaborazione e della creatività organizzativa.
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L’evoluzione dell’open innovation nell’era dell’AI
Nella definizione originaria, l’open innovation implicava l’apertura dei confini aziendali, favorendo lo scambio bidirezionale di idee tra interno ed esterno. Dahlander ricorda che il modello si fondava su due movimenti: «portare idee esterne all’interno dell’organizzazione e, allo stesso tempo, inviare idee interne al mondo esterno».
L’arrivo dell’intelligenza artificiale sta però sfumando questi confini. Algoritmi avanzati, dataset sempre più ampi e piattaforme collaborative stanno dando vita a un ecosistema in cui la creatività umana si intreccia con la capacità computazionale. Secondo Dahlander, l’AI «ha il potenziale per cambiare fondamentalmente le regole del gioco», trasformando la natura stessa dei processi di innovazione.
Tre lenti per interpretare la trasformazione: miglioramento, abilitazione, sostituzione
Dahlander propone tre prospettive per osservare l’impatto dell’AI sull’open innovation: miglioramento, abilitazione e sostituzione.
Nella prospettiva del miglioramento, l’AI funge da amplificatore delle capacità umane. Attività come analizzare feedback dei clienti, monitorare social network o esaminare database brevettuali diventano automatizzabili e scalabili. Il docente cita l’esempio di LexisNexis, che utilizza algoritmi di AI per scandire milioni di documenti in pochi minuti. «L’AI può individuare schemi e scoprire opportunità che probabilmente perderemmo», osserva Dahlander. In questo scenario, l’automazione libera tempo per intuizione e decisione strategica.
La seconda lente, quella dell’abilitazione, evidenzia come l’AI apra nuove forme di collaborazione. Un caso emblematico è il Federated Learning, che consente a diverse organizzazioni di addestrare modelli condivisi senza scambiarsi direttamente i dati sensibili. L’AI diventa così un ponte che permette cooperazione anche dove vincoli normativi o di privacy impedirebbero lo scambio di dataset.
Un altro esempio arriva dal settore musicale: la piattaforma TONEX di IK Multimedia usa algoritmi di AI per modellare amplificatori rari, trasformando competenze altamente specialistiche in risorse digitali replicabili.
La prospettiva della sostituzione introduce invece una discontinuità più marcata. Gli algoritmi generativi non si limitano a supportare l’ideazione: possono produrre nuove idee. «Le idee generate dall’AI sono spesso valutate come più creative di quelle dei professionisti umani», sottolinea Dahlander. Il ruolo delle persone si sposta così dalla creazione alla selezione e implementazione delle proposte generate dall’AI.
Nuovi network della conoscenza: verso ecosistemi ibridi
L’intreccio tra open innovation e intelligenza artificiale cambia anche i network attraverso cui circola la conoscenza. La collaborazione non è più limitata a partner identificati, ma si estende a comunità digitali e piattaforme globali. I confini tra interno ed esterno si dissolvono e l’innovazione diventa un processo distribuito.
Dahlander parla di un «mondo ibrido» nel quale l’AI democratizza l’innovazione, rendendola accessibile «a chiunque abbia un’idea, indipendentemente dal background tecnico». Questo approccio amplia il bacino di partecipazione: cittadini, ricercatori, designer, startup e imprese possono contribuire a cicli creativi in evoluzione continua.
Le piattaforme basate su AI favoriscono così un nuovo equilibrio tra intelligenza individuale e collettiva, dando forma a ecosistemi in cui gli esperimenti sono continui e la conoscenza circola con maggiore rapidità.
Fiducia, trasparenza e governance dei dati: le nuove condizioni dell’innovazione aperta
L’espansione dell’AI nei processi collaborativi introduce anche temi di governance, privacy ed etica. Dahlander richiama il caso Adobe, che ha ricevuto critiche per alcune policy sui dati percepite come eccessivamente invasive. Il professore sottolinea che «man mano che cresce il potere dell’AI, deve crescere anche la nostra attenzione al lato umano dell’innovazione».
La fiducia diventa un prerequisito per la collaborazione aperta: senza trasparenza sull’uso dei dati, i modelli di innovazione rischiano di perdere credibilità. La gestione della proprietà intellettuale, la protezione dei dataset sensibili e la responsabilità condivisa richiedono nuovi accordi tra imprese, utenti e istituzioni.
Verso una nuova cultura dell’innovazione aperta
Il contributo di Dahlander apre infine una riflessione più ampia sul rapporto tra esseri umani e sistemi intelligenti. L’AI non è solo una tecnologia capace di accelerare processi, ma un attore cognitivo che modifica la struttura del lavoro creativo.
La sfida non consiste nel contrapporre creatività umana e generatività algoritmica, ma nell’integrare le due dimensioni. La curiosità, la sperimentazione e la responsabilità etica restano centrali in un contesto in cui automazione e intelligenza umana coesistono.«Fiducia, trasparenza e collaborazione stanno diventando più importanti che mai», ricorda Dahlander. Una sintesi che mette in luce la dimensione culturale della convergenza tra open innovation e intelligenza artificiale: un’evoluzione che ridefinisce non solo gli strumenti dell’innovare, ma il significato stesso di innovazione.












