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L’antitrust Ue indaga il cloud AWS e Azure: ecco che c’è in ballo



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Le indagini antitrust della Commissione europea su AWS e Azure portano il Digital Markets Act nel cuore delle infrastrutture cloud, mettendo al centro il rapporto tra potere infrastrutturale, interoperabilità e sovranità digitale in un mercato dominato da pochi grandi fornitori extraeuropei

Pubblicato il 21 nov 2025

Federica Giaquinta

Consigliere direttivo di Internet Society Italia



digital omnibus economia; cloud region

La decisione della Commissione europea di aprire tre distinte indagini antitrust di mercato nel settore del cloud computing rappresenta uno dei passaggi più significativi della fase attuativa del Digital Markets Act, poiché porta per la prima volta il controllo regolatorio a confrontarsi con le infrastrutture tecnologiche profonde che sostengono l’economia digitale europea.

Infatti, non è assolutamente un caso che l’attenzione concentrata su Amazon Web Services e Microsoft Azure non derivi da un automatismo quantitativo, bensì dall’emersione empirica di un potere infrastrutturale che, pur non rientrando nelle soglie presuntive previste dal regolamento, sembri integrare quella funzione di “porta di accesso” attraverso cui imprese, amministrazioni e servizi digitali transitano di fatto in modo ineludibile.

Giganti del cloud e potere infrastrutturale in Europa: le indagini antitrust della Commissione Ue

Pertanto, è proprio in questo scenario che il cloud non viene più letto come un semplice servizio di supporto, ma come un nodo strategico la cui configurazione tecnica, le condizioni contrattuali e la capacità di influenza sugli ecosistemi digitali hanno assunto una rilevanza tale da richiedere un accertamento regolatorio specifico e ad ampio spettro.

L’avvio delle indagini non mira soltanto a verificare se tali operatori debbano essere qualificati come gatekeeper, ma sollecita una riflessione più ampia sul modo in cui le concentrazioni infrastrutturali nel cloud possano incidere sulla contendibilità dei mercati, sui margini di autonomia degli utenti commerciali e, in ultima analisi, sulla capacità dell’Unione di mantenere un equilibrio tra innovazione e sovranità tecnologica in un settore dominato da attori extraeuropei.

La scelta della Commissione si configura quindi come un atto di vigilanza strategica che intercetta una trasformazione profonda nella natura stessa dei mercati digitali, i quali non sono più governati da sole dinamiche concorrenziali tradizionali, ma da architetture tecniche e da modelli di integrazione verticale attraverso cui un numero ristretto di fornitori è in grado di plasmare intere filiere di servizi.

In questo quadro la centralità del cloud computing deriva proprio dalla sua natura di infrastruttura abilitante che sostiene l’erogazione dei servizi di intelligenza artificiale, la gestione scalabile e distribuita dei dati, le attività di modellazione predittiva e, più in generale, tutte le funzioni che oggi costituiscono l’ossatura tecnica della produttività e dell’innovazione.

Da ciò discende, quindi, la domanda giuridica cruciale che riguarda la stessa capacità di queste infrastrutture di tradursi in asimmetrie infrastrutturali così profonde da condizionare l’accesso al mercato degli operatori che nel cloud trovano un elemento imprescindibile del proprio funzionamento: se migrare da un fornitore all’altro, se interoperare tra sistemi differenti o se disaccoppiare le proprie architetture software e dati.

Sovranità digitale e concentrazioni nel cloud

Le indagini avviate dalla Commissione intervengono dunque in un punto di tensione tra regolazione ex ante e dinamiche di potere economico che mutano con una velocità superiore a quella degli strumenti normativi. L’operare combinato di effetti di rete, economie di scala e integrazione verticale produce, nel caso dei grandi fornitori, una forma di potere sistemico che si manifesta nella capacità di configurare standard de facto, vincoli contrattuali e dipendenze tecniche che irrigidiscono l’ambiente competitivo.

Tale potere, infatti, non è immediatamente riconducibile alle categorie classiche del diritto antitrust, poiché non trova espressione in condotte abusive manifeste, bensì nell’architettura stessa dell’offerta che, attraverso l’aggregazione di servizi, la gestione unilaterale delle regole di interoperabilità e l’organizzazione delle politiche di accesso ai dati, genera posizioni di vantaggio difficilmente contestabili.

Proprio per questa ragione il Digital Markets Act, con la sua possibilità di estendere la designazione anche in assenza delle soglie quantitative, si rivela uno strumento particolarmente adatto ad affrontare fenomeni in cui la dimensione infrastrutturale del potere digitale prevale sul tradizionale paradigma economico.

Interoperabilità del cloud e sovranità digitale degli ecosistemi

La seconda direttrice dell’azione della Commissione, quella volta a verificare l’efficacia degli obblighi attualmente previsti dal regolamento rispetto al settore del cloud, aggiunge una dimensione ulteriore alla riflessione. La scelta di interrogarsi sulla sufficienza dell’impianto normativo e di farlo mediante una consultazione ampia degli operatori indica proprio l’intenzione dell’Unione di non limitarsi a un approccio regolatorio statico, ma di sviluppare un modello di governance adattivo e resiliente.

Ciò appare particolarmente rilevante in un settore in cui l’interoperabilità non è solo un auspicio tecnico, ma una condizione necessaria per evitare che l’intero ecosistema digitale europeo rimanga intrappolato in percorsi tecnologici senza alternative. Gli ostacoli alla portabilità, l’accesso condizionato ai dati generati dagli utenti commerciali, la presenza di clausole contrattuali squilibrate o di pratiche di bundling che alterano la libertà di scelta dei clienti rappresentano elementi che possono compromettere la contendibilità del mercato pur senza concretizzare violazioni formali del diritto della concorrenza.

Da ciò discende, quasi in modo naturale, una considerazione di particolare rilievo: l’Unione europea sta progressivamente adottando un paradigma regolatorio in cui equità, trasparenza e possibilità effettiva di entrare e uscire da un ecosistema digitale assumono valore equivalente, se non superiore, alla mera tutela della concorrenza.

Ciò comporta un ripensamento del ruolo che i grandi fornitori di cloud svolgono nella definizione del mercato, poiché essi operano non solo come imprese dominanti, ma come custodi di infrastrutture critiche su cui si basa la capacità dell’Europa di sviluppare politiche pubbliche moderne, sistemi di intelligenza artificiale affidabili e servizi digitali efficienti.

Perciò la riflessione sulla possibile designazione di AWS e Azure come gatekeeper non attiene solo alla loro posizione sul mercato, ma alla loro influenza sulla struttura stessa della digitalizzazione europea. Stabilire obblighi più rigorosi su interoperabilità, accesso ai dati, portabilità e neutralità contrattuale significherebbe incidere direttamente sulle modalità con cui i soggetti economici potranno sviluppare, distribuire e governare i servizi digitali nei prossimi anni.

Sovranità digitale, responsabilità regolatoria e cloud

L’intero procedimento, inoltre, riflette un principio di responsabilità regolatoria che appare destinato a segnare l’evoluzione della governance digitale europea: l’idea secondo cui le piattaforme non debbano limitarsi a rispettare la concorrenza formale, ma debbano rendersi permeabili e accessibili affinché l’innovazione non si concentri in pochi centri privati, ma possa diffondersi in maniera pluralistica.

Ecco perché la possibilità, prevista dal DMA, di aggiornare mediante atti delegati gli obblighi applicabili al settore cloud conferma l’intenzione del legislatore europeo di costruire un diritto digitale non fissato una volta per tutte, ma capace di adattarsi all’evoluzione delle infrastrutture tecnologiche senza perdere legittimità o coerenza sistemica.

Nel contesto globale, infine, l’approccio europeo alla regolazione del cloud assume una valenza geopolitica che non può assolutamente essere trascurata. La dipendenza sistemica dell’economia e della pubblica amministrazione da infrastrutture cloud prevalentemente statunitensi solleva interrogativi sulla sovranità tecnologica e sulla capacità dell’Europa di definire autonomamente le condizioni di funzionamento del proprio spazio digitale.

Pertanto, contribuire a delineare i confini di una possibile autonomia strategica, nella quale la regolazione diventa strumento di riequilibrio rispetto a dinamiche globali, è indispensabile per sfuggire al rischio di concentrare altrimenti il potere digitale in pochi poli extraeuropei. In questo senso, la procedura diventa un atto politico nel significato più alto del termine: un tentativo di riaffermare la capacità dell’ordinamento europeo di governare le proprie infrastrutture critiche e di assicurare che la digitalizzazione, pur basata su tecnologie globali, non sfugga al quadro valoriale e istituzionale dell’Unione.

Geopolitica del cloud e futuro dell’Europa digitale: la posta in gioco delle azioni antitrust

In conclusione, le indagini della Commissione rappresentano un momento cruciale nella definizione del ruolo che il diritto giocherà nell’era delle infrastrutture digitali pervasive. Mettono alla prova la tenuta del modello europeo di regolazione, la sua capacità di anticipare gli sviluppi tecnologici, di riconoscere forme di potere non immediatamente visibili e di costruire un ecosistema in cui l’innovazione non sia subordinata alla dipendenza da pochi soggetti globali.

La posta in gioco, allora, non sembra più circoscritta alla qualificazione di due operatori come gatekeeper, ma si dilata sino a interpellare direttamente l’idea stessa di società digitale che l’Europa intende configurare per il proprio futuro istituzionale ed economico.

Di fronte a infrastrutture tecnologiche che, per estensione, profondità e capacità plasmante, rischiano di assumere la forma di ordinamenti privati paralleli, la domanda che emerge in tutta la sua rilevanza è se l’Unione sia in grado di riaffermare la primazia del diritto sulla tecnica, e non viceversa, e se possa evitare che il cloud diventi un territorio sottratto alla sfera pubblica, spazio opaco di decisioni unilaterali non sindacabili.

Ci si deve interrogare, in definitiva, su quale architettura regolatoria l’Europa voglia adottare per impedire che le infrastrutture digitali si consolidino come luoghi di dominio privato anziché come beni funzionali alla collettività e su come intenda conciliare la spinta all’innovazione con l’esigenza di assicurare che la concorrenza non venga ridotta a mero enunciato economico, ma preservata quale condizione democratica imprescindibile per garantire pluralismo, accessibilità e capacità effettiva di autodeterminazione tecnologica.

Può un ordinamento che ambisce a esercitare un ruolo autonomo nello spazio digitale globale rinunciare a interrogarsi sul rapporto tra potere infrastrutturale e sovranità normativa? Può consentire che il baricentro della digitalizzazione europea si sposti definitivamente verso poli privati extraeuropei senza predisporre anticorpi giuridici adeguati?

E, soprattutto, può rinunciare a chiedersi se la governance del cloud debba essere lasciata alle sole logiche di mercato o se debba invece essere ricondotta entro un orizzonte pubblico più ampio, in cui le scelte infrastrutturali si traducano in diritti, garanzie e possibilità concrete per imprese, cittadini e istituzioni?

Sono questi, in definitiva, gli interrogativi che le indagini della Commissione sembrano porre con forza crescente e ai quali il diritto europeo è oggi chiamato a rispondere con lucidità, ambizione e coerenza sistemica.

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