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Digital Markets Act: cos’è e cosa prevede



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Il Digital Markets Act è il regolamento europeo sui mercati digitali nato per contrastare gli abusi di posizione dominante prima che si verifichino. Prevede whitelist, blacklist e sanzioni per le big tech che non si adegueranno

Pubblicato il 18 apr 2025

Barbara Calderini

Legal Specialist – Data Protection Officer



dsa agcom piattaforme

Il Digital Markets Act (DMA) rappresenta una delle riforme più ambiziose dell’Unione Europea nel settore della regolamentazione digitale.

Cos’è il Digital Markets Act e come è nato

Entrato in vigore nel 2023, questo regolamento introduce un quadro normativo vincolante il cui obiettivo è, laddove operino i gatekeeper, garantire il corretto funzionamento del mercato interno attraverso l’introduzione di norme armonizzate che assicurino condizioni di concorrenza leale e accessibile nel settore digitale in tutta l’Unione Europea. Ciò ovviamente a beneficio sia degli utenti commerciali che dei consumatori finali.

What impact is the Digital Markets Act having? | FT Tech

Il regolamento si applica ai servizi di piattaforma di base forniti o offerti dai gatekeeper agli utenti commerciali con sede nell’Unione o agli utenti finali stabiliti o situati nell’Unione, indipendentemente dal luogo di registrazione o residenza dei gatekeeper e dalla normativa applicabile alla fornitura del servizio.

Le disposizioni in esso contenute non pregiudicano l’applicazione degli articoli 101 e 102 del TFUE, né delle norme nazionali sulla concorrenza che vietano accordi anticoncorrenziali, decisioni di associazioni di imprese, pratiche concordate e abusi di posizione dominante. Inoltre, non limita l’applicazione di normative nazionali che vietano altre forme di condotta unilaterale, purché riguardino imprese diverse dai gatekeeper o impongano obblighi aggiuntivi a questi ultimi. Rimane altresì in vigore il Regolamento (CE) n. 139/2004 del Consiglio e le norme nazionali sul controllo delle concentrazioni.

Alle autorità nazionali è precluso di adottare decisioni in contrasto con quelle della Commissione nell’ambito del DMA. La Commissione e gli Stati membri devono anzi collaborare strettamente e coordinare le loro azioni esecutive secondo i principi stabiliti nel Regolamento (art.li 37 e 38).

Per i gatekeeper, il DMA, stabilisce una serie di obblighi e divieti, organizzati in due categorie: una blacklist di pratiche vietate e una whitelist di pratiche obbligatorie. Tra le misure più rilevanti ci sono il divieto di privilegiare i propri servizi a discapito di quelli di terzi, l’obbligo di garantire l’interoperabilità delle piattaforme e restrizioni più severe sull’uso dei dati personali degli utenti.

Le violazioni del regolamento possono comportare sanzioni fino al 10% del fatturato globale dell’azienda, con la possibilità di misure correttive più severe in caso di recidiva.

Questa normativa avrà dunque un impatto significativo sul mercato digitale europeo, nell’intento di promuovere una maggiore concorrenza, aumentando la libertà di scelta per gli utenti e creando un ecosistema digitale più equo.

Ma quali saranno le ripercussioni reali per le aziende e i consumatori? Il DMA funzionerà davvero?

Obbligare le piattaforme ad aprirsi non significa automaticamente creare un mercato più equo: se WhatsApp interagisce con altri servizi di messaggistica, chi ne trae davvero beneficio? Piccole startup innovative o altri giganti già affermati come Telegram e Signal? Non solo: più scelta può significare più confusione, e rendere i servizi interoperabili potrebbe compromettere sicurezza e usabilità. Inoltre se i tempi di applicazione saranno lenti, il DMA rischia di trasformarsi in un insieme di buone intenzioni incapaci di scalfire lo status quo. Per ora, l’unica certezza è che le big tech non staranno a guardare, e il futuro del mercato digitale europeo è tutt’altro che scritto.

Esploriamo nel dettaglio le misure introdotte e il loro effetto sul settore.

Come cambierà il mercato digitale con il Digital Markets Act

Il DMA introduce un nuovo assetto normativo per i mercati digitali europei, obbligando i gatekeeper – le grandi piattaforme con un forte potere economico e una base utenti estesa – a rispettare regole precise per garantire concorrenza e trasparenza.

I principali cambiamenti includono:

  1. Stop all’auto-preferenza: le big tech non potranno più favorire i propri servizi rispetto a quelli di terze parti (es. Google non potrà dare priorità ai propri prodotti nei risultati di ricerca).
  2. Maggiore interoperabilità: servizi come WhatsApp, iMessage o Messenger dovranno garantire la compatibilità con piattaforme concorrenti, facilitando la comunicazione tra utenti di sistemi diversi.
  3. Libertà di scelta per gli utenti: gli utenti avranno il diritto di disinstallare app preinstallate sui dispositivi e scegliere liberamente il proprio browser, motore di ricerca o servizio di pagamento.
  4. Accesso equo ai dati: le aziende che utilizzano piattaforme di marketplace (es. venditori su Amazon) avranno pari accesso ai dati, evitando che il gestore della piattaforma possa sfruttarli per avvantaggiare i propri prodotti.
  5. Restrizioni alla pubblicità mirata: l’uso dei dati personali per la pubblicità sarà limitato, soprattutto per i minori, aumentando la tutela della privacy.

Il Digital Markets Act promette di riequilibrare il potere delle grandi piattaforme e di favorire una concorrenza più leale, ma non è esente da critiche e incertezze. In primo luogo, sebbene l’obiettivo sia quello di ridurre le pratiche anticoncorrenziali, c’è il rischio che norme troppo rigide possano limitare l’agilità e l’innovazione, ostacolando sia le startup sia le imprese emergenti. Inoltre, la complessità burocratica e i meccanismi di controllo potrebbero introdurre inefficienze che rallentano l’adozione di nuove tecnologie e scoraggiano investimenti nel settore. Infine, se le autorità non riusciranno a coordinarsi in maniera efficace, si potrebbero creare conflitti normativi che danneggiano l’intero ecosistema digitale, compromettendo la competitività e la crescita del mercato. In sintesi, mentre il DMA si propone di correggere squilibri di potere consolidati, il successo della sua implementazione dipenderà dalla capacità di bilanciare la regolamentazione con la necessità di mantenere un ambiente favorevole all’innovazione e alla competitività.

DMA: gli effetti concreti per gli utenti

Per i consumatori, il Digital Markets Act dovrebbe tradursi in una maggiore libertà e una più ampia gamma di opzioni, riducendo il controllo che i giganti digitali esercitano sulle loro esperienze online. La maggiore concorrenza darà vita a vere alternative ai servizi che oggi dominano il mercato, come motori di ricerca, social network ed e-commerce, offrendo così scelte più diversificate e soddisfacenti. Al contempo anche la trasparenza sarà migliorata, poiché il DMA impone una maggiore chiarezza su come vengono utilizzati i dati personali e su quali pratiche sono vietate, proteggendo meglio la privacy degli utenti. Un altro vantaggio importante sarebbe l’aumento dell’interoperabilità, che consentirà agli utenti di passare facilmente da un servizio all’altro senza essere intrappolati in ecosistemi chiusi, come avviene ad esempio con i sistemi di messaggistica. Infine, il DMA dovrebbe contribuire a ridurre la pubblicità invasiva, limitando l’uso dei dati personali per la profilazione pubblicitaria, con effetti positivi sulla privacy e sull’esperienza utente.

In breve:

Più concorrenza = alternative reali a servizi oggi dominanti (motori di ricerca, social network, e-commerce).
Maggiore trasparenza = chiarezza su come vengono utilizzati i dati personali e su quali pratiche sono vietate.
Migliore interoperabilità = possibilità di scegliere servizi diversi senza rimanere “bloccati” in un ecosistema chiuso (es. passare da un sistema di messaggistica all’altro senza perdere i contatti).
Meno pubblicità invasiva = limiti all’uso dei dati personali per la profilazione pubblicitaria, con effetti positivi sulla privacy.

Vero. Tuttavia a fronte delle promesse di maggiore scelta, trasparenza e tutela per gli utenti,permane comunque il rischio che le piattaforme reagiscano con strategie difensive, come l’introduzione di costi nascosti o la limitazione di alcune funzionalità gratuite per compensare le nuove restrizioni. Inoltre, la maggiore frammentazione potrebbe portare a un’esperienza utente meno fluida: ad esempio, l’interoperabilità tra servizi di messaggistica potrebbe compromettere alcune funzionalità avanzate o la sicurezza dei dati. Infine, il rispetto delle nuove normative potrebbe tradursi in un aumento della burocrazia per le piattaforme, con possibili ripercussioni in termini di rallentamenti nello sviluppo di nuove soluzioni.

Anche su questo fronte dunque, sebbene il DMA punti a creare un ecosistema digitale più equo, resta da vedere se i benefici per gli utenti supereranno le possibili conseguenze indesiderate, come un’esperienza d’uso meno intuitiva o nuove forme di limitazioni imposte dalle stesse piattaforme.

DMA: quali conseguenze per le big tech

Le aziende identificate come gatekeeper, ovvero quelle che soddisfano specifici criteri di fatturato, numero di utenti e presenza in più Paesi dell’UE, dovranno adattarsi rapidamente alle nuove normative previste dal Digital Markets Act (DMA). Questo comporterà significativi costi di adeguamento e una possibile riduzione del loro potere di mercato, stante che le normative limitano pratiche come il favoritismo dei propri servizi.

In caso di violazioni, le sanzioni possono essere pesanti, arrivando fino al 10% del fatturato globale, con un incremento fino al 20% in caso di recidive, e in situazioni estreme, le aziende potrebbero essere costrette a scorporare alcune attività. Ciò implica la necessità per le aziende, in particolare quelle che basano il loro modello di business sulla raccolta e monetizzazione dei dati personali, di rivedere le proprie strategie.

Allo stesso tempo, ci saranno cambiamenti significativi nei marketplace e negli app store, con colossi come Amazon, Apple e Google obbligati a garantire maggiore equità nella gestione delle piattaforme e nei sistemi di pagamento, favorendo sì una concorrenza più sana e un’esperienza migliore per gli utenti, ma forse anche stimolando strategie volte a trovare soluzioni che aggirino le norme o che possano preservare i loro interessi economici.

In breve:

  1. Rischio di sanzioni pesanti: fino al 10% del fatturato globale in caso di violazioni, fino al 20% per recidive e possibili scorpori forzati di alcune attività in casi estremi.
  2. Necessità di rivedere i modelli di business: in particolare per società che basano il proprio vantaggio sulla raccolta e monetizzazione dei dati personali.
  3. Cambiamenti nei marketplace e negli app store: Amazon, Apple e Google dovranno garantire più equità nella gestione delle piattaforme e nei sistemi di pagamento.

Il Digital Markets Act è davvero la rivoluzione che promette?

Il Digital Markets Act (DMA) è stato accolto come un punto di svolta per il mercato digitale europeo, con l’obiettivo di arginare lo strapotere delle big tech e garantire maggiore concorrenza.

Ma la domanda è: funzionerà davvero?

Per quanto ambizioso, il nuovo regolamento si scontra infatti con una serie di ostacoli che potrebbero limitarne l’efficacia o, paradossalmente, produrre effetti collaterali inattesi.

Uno dei problemi principali riguarda proprio l’applicazione concreta delle regole. L’Unione Europea ha dimostrato in passato di essere lenta nelle battaglie contro i giganti del web: basti pensare ai lunghi procedimenti contro Google e Apple, che si sono trascinati per anni senza risultati immediati. Il DMA prevede sanzioni severe per chi non si adegua, ma le multinazionali hanno eserciti di avvocati pronti a contestare ogni decisione, ritardando qualsiasi intervento. Il rischio è che le nuove norme rimangano sulla carta per molto tempo, mentre le piattaforme continuano a operare come sempre, magari trovando modi più sottili per aggirare le restrizioni.

C’è poi il tema della concorrenza. Aprire i servizi delle big tech non significa automaticamente creare un mercato più equo. Costringere WhatsApp a essere compatibile con altre piattaforme, per esempio, potrebbe avvantaggiare competitor già affermati come Telegram o Signal, senza però dare spazio a nuove realtà emergenti. Lo stesso vale per i marketplace online: Amazon potrebbe semplicemente cambiare il modo in cui propone i suoi prodotti senza violare formalmente il DMA, mantenendo comunque il controllo delle dinamiche di acquisto.

Anche per gli utenti finali, la rivoluzione promessa potrebbe non essere così immediata o positiva. Maggiore libertà di scelta significa spesso maggiore complessità. Se all’avvio di uno smartphone bisognerà selezionare manualmente ogni singolo servizio – dal browser al motore di ricerca fino al sistema di pagamento – il rischio è di creare un’esperienza meno intuitiva e più macchinosa. Anche la tanto invocata interoperabilità potrebbe non essere un vantaggio assoluto: rendere compatibili diversi sistemi di messaggistica potrebbe indebolire la crittografia end-to-end o creare problemi di sincronizzazione tra le piattaforme.

Se dunque il Digital Markets Act è una risposta necessaria a uno squilibrio di potere che ha caratterizzato e caratterizza il mondo digitale per anni, tuttavia la regolamentazione da sola non basta a garantire un mercato più aperto e competitivo. Qualora l’Unione Europea non dovesse riuscire a far rispettare le regole con decisione e rapidità, il DMA rischia di diventare l’ennesimo esempio di buone intenzioni che si scontrano con la realtà di un settore dominato da pochi, potentissimi attori.

E mentre le istituzioni si muovono nel labirinto burocratico, le big tech continueranno a dettare le regole del gioco.

Esaminiamo più da vicino.

I gatekeeper del Digital Markets Act: tra normative stringenti e sfide operative

La chiave del DMA è la definizione di gatekeeper, ovvero quelle piattaforme digitali così grandi e influenti da poter condizionare l’accesso al mercato. Non si tratta solo di aziende di successo, ma di vere e proprie “porte d’accesso” attraverso cui milioni di utenti e imprese devono passare per operare nel digitale.

Senza una chiara distinzione, il DMA rischierebbe infatti di colpire in modo indiscriminato le piattaforme digitali, compromettendo la proporzionalità e l’efficacia della regolamentazione e potenzialmente soffocando l’innovazione anche tra le aziende più piccole.

L’UE ha stabilito criteri precisi per identificare questi soggetti: devono avere un fatturato annuo di almeno 7,5 miliardi di euro o una capitalizzazione di 75 miliardi, oltre a una base di utenti attivi superiore a 45 milioni al mese nell’Unione.

Entrando più in dettaglio, per essere classificata come gatekeeper, un’azienda deve soddisfare tre criteri fondamentali:

  • Dimensione economica significativa: deve operare in almeno tre Paesi dell’Unione Europea e avere un fatturato annuo superiore a 7,5 miliardi di euro negli ultimi tre anni oppure una capitalizzazione di mercato superiore a 75 miliardi di euro.
  • Ruolo centrale nella connessione tra utenti e imprese: la piattaforma deve avere almeno 45 milioni di utenti attivi al mese e 10.000 aziende utenti all’anno nell’UE.
  • Posizione consolidata e duratura: deve aver mantenuto questi parametri per almeno tre anni consecutivi.

Le aziende che rientrano in questa definizione sono tenute a rispettare una serie di obblighi e divieti volti a garantire un mercato più equo.

Ad oggi, tra i principali gatekeeper identificati dalla Commissione Europea ci sono Google, Apple, Amazon, Meta, Microsoft e ByteDance (TikTok), ma l’elenco potrebbe ampliarsi in base all’evoluzione del mercato.

Il concetto di “gatekeeper” deriva originariamente dall’idea di chi, fisicamente, controlla l’accesso a un determinato spazio: il guardiano del cancello. In ambito sociale, questo termine viene esteso a chi controlla il flusso delle informazioni, mentre nel mondo del business indica le società che detengono il potere di filtrare o indirizzare l’accesso a un settore di mercato. Nel contesto digitale, i gatekeeper sono rappresentati dalle cosiddette LoPs – Large Online Platforms – che, per ragioni sia quantitative che qualitative, assumono un ruolo centrale come intermediari tra utenti e concorrenza.

Dal punto di vista quantitativo, il controllo di un gatekeeper si manifesta attraverso indicatori misurabili quali:

  • La quota di mercato posseduta,
  • Il numero di utenti attivi sulla piattaforma,
  • Il tempo medio che ogni utente trascorre sulla piattaforma,
  • I ricavi annuali della società.

Sul versante qualitativo, invece, l’influenza di questi attori si evidenzia nella loro capacità di:

  • Imporsi come intermediari indispensabili, facendo da “porta” attraverso la quale devono passare altre imprese per raggiungere il consumatore,
  • Gestire e sfruttare i dati degli utenti non solo per migliorare i propri servizi, ma anche per competere in settori adiacenti, integrando funzioni di analisi e profilazione.

In sostanza, i gatekeeper nel mercato digitale sono quei fornitori di servizi fondamentali – social network, browser, motori di ricerca, servizi di messaggistica e piattaforme social – che, per le loro dimensioni e capacità, controllano in modo determinante l’accesso a dati e servizi online.

L’individuazione dei gatekeeper secondo il DMA avviene attraverso un processo articolato in tre fasi:

  • In un primo momento, la società interessata deve verificare autonomamente se sussistono i requisiti quantitativi e comunicare il risultato alla Commissione Europea.
  • Successivamente, la Commissione esamina le informazioni fornite e, eventualmente, avvia ulteriori indagini per confermare la designazione di “gatekeeper”.
  • Infine, entro sei mesi dall’identificazione ufficiale, la società designata deve conformarsi ai divieti e agli obblighi previsti dal DMA.

È fondamentale sottolineare che il Digital Markets Act conferisce alla Commissione Europea il potere di valutare caso per caso se le piattaforme soddisfano i requisiti quantitativi necessari per essere designate come “gatekeeper”. Inoltre, la Commissione ha la possibilità di aggiornare periodicamente queste soglie in base agli sviluppi tecnologici e alle evoluzioni del mercato digitale. La designazione di gatekeeper non è dunque definitiva, ma può essere soggetta a un riesame ciclico, garantendo che la normativa rimanga adeguata alle dinamiche in continua trasformazione del settore. Una volta identificate, le piattaforme gatekeeper sono sottoposte a tutta quella serie di specifici obblighi che mirano a riequilibrare il mercato e prevenire distorsioni concorrenziali.

In questo contesto, il DMA si distingue dalle tradizionali normative antitrust, che spesso sono risultate lente e complesse nel rispondere agli abusi di posizione dominante. Le indagini antitrust convenzionali non sono sempre in grado di fermare rapidamente gli effetti dannosi di pratiche anticoncorrenziali, soprattutto quando questi derivano da dinamiche strutturali del mercato digitale e non da comportamenti immediatamente riscontrabili. Il DMA, al contrario, optando per un approccio proattivo, ovvero regolando in anticipo i comportamenti delle Large Online Platforms (LoPs) attraverso strumenti mirati, punta proprio ad un intervento tempestivo e più efficace, rispondendo prontamente alle sfide del settore.

Questo almeno sulla carta.

Blacklisting, whitelisting e valutazioni caso per caso

Per superare le lacune delle indagini antitrust, il DMA introduce tre strumenti principali: blacklist, whitelist e case by case assessment.

  1. Blacklist:
    La blacklist del DMA si riferisce a una serie di pratiche vietate che, se adottate dalle piattaforme, comportano sanzioni severe. Queste pratiche includono il leveraging, cioè l’abuso della propria posizione dominante per estendere il monopolio ad altri mercati (come quando una piattaforma impone commissioni elevate per l’accesso a nuovi mercati o limita l’accesso a determinati servizi). Altri comportamenti sanzionabili sono il self-preferencing, che implica favorire i propri prodotti o servizi all’interno della piattaforma a discapito di quelli di concorrenti. Altre pratiche sanzionabili riguardano il rifiuto di accesso ai dati degli utenti a terze parti, l’imposizione di termini di servizio eccessivamente restrittivi, la pratica di tying (offrire insieme beni o servizi non correlati senza giustificazione) e l’aggregazione di servizi senza il consenso degli utenti. Inoltre, sono vietati abusi nella raccolta di dati personali e l’impossibilità per gli utenti di portare con sé i propri dati o di interoperare con altre piattaforme.

Pratiche vietate dal DMA

  • Auto-preferenza: i gatekeeper non potranno favorire i propri servizi rispetto a quelli di terze parti (ad esempio, Google non potrà posizionare i suoi servizi prima di quelli concorrenti nei risultati di ricerca).
  • Blocco di applicazioni di terze parti: Apple e Google non potranno impedire agli sviluppatori di distribuire app attraverso store alternativi ai loro.
  • Limitazioni nell’uso di servizi di pagamento alternativi: gli sviluppatori potranno integrare sistemi di pagamento diversi da quelli imposti dalle piattaforme, riducendo le commissioni obbligatorie sui marketplace digitali.
  • Raccolta abusiva di dati personali: sarà vietato combinare i dati raccolti da diversi servizi senza il consenso esplicito dell’utente (ad esempio, l’uso incrociato di dati tra Facebook e Instagram senza permesso).
  • Whitelist: la whitelist, invece, definisce gli obblighi che i gatekeeper devono rispettare per garantire la concorrenza leale nel mercato. Tra questi obblighi, si includono il diritto degli utenti di disinstallare le app preinstallate, il divieto di favorire i propri prodotti attraverso un posizionamento privilegiato e l’obbligo di fornire dati chiari e trasparenti agli inserzionisti, consentendo loro di monitorare in modo efficace gli spazi pubblicitari. Inoltre, le piattaforme sono tenute a garantire l’accesso libero e in tempo reale a dati aggregati o non aggregati, sia per gli utenti commerciali che per i terzi autorizzati dagli utenti stessi, a condizione che venga rispettato il consenso degli utenti.

Obblighi principali per i gatekeeper

  • Interoperabilità dei servizi: le piattaforme di messaggistica, come WhatsApp, Messenger e iMessage, dovranno garantire la compatibilità con servizi concorrenti.
  • Accesso equo ai dati: le imprese che operano su una piattaforma (ad esempio, i venditori su Amazon) dovranno avere accesso agli stessi dati utilizzati dalla piattaforma per i propri prodotti.
  • Libertà di scelta per gli utenti: i consumatori potranno disinstallare le app preinstallate, scegliere liberamente browser, motori di ricerca e servizi di pagamento senza restrizioni imposte dal sistema operativo.
  • Trasparenza nella pubblicità online: le piattaforme dovranno fornire agli inserzionisti dettagli chiari sul funzionamento degli algoritmi pubblicitari e sull’utilizzo dei dati personali.
  • Case by Case Assessment: infine, il case by case assessment consente una valutazione flessibile delle singole situazioni. La Commissione Europea ha il potere di esaminare in modo dettagliato le specifiche pratiche delle piattaforme, decidendo se applicare determinate regole in modo più specifico e personalizzato. Questo approccio consente di affrontare i casi particolari che non rientrano perfettamente nelle categorie generali stabilite da blacklist e whitelist, ma che potrebbero comunque avere effetti dannosi per la concorrenza.

Sanzioni per la violazione delle norme DMA

Come già anticipato il DMA prevede sanzioni severissime per le aziende che non rispettano le sue disposizioni. Se un gatekeeper viola le regole stabilite dal regolamento, può essere multato fino al 10% del suo fatturato globale annuale. In caso di recidiva, questa cifra può salire fino al 20%. Tutte le sanzioni progettate per avere un impatto significativo, costringendo le piattaforme a conformarsi alle normative al fine di evitare gravi danni economici.

Per le infrazioni minori, come la mancata collaborazione con la Commissione durante le indagini, è prevista una multa che non supera l’1% del fatturato dell’impresa. Tuttavia, in caso di violazioni sistematiche, le sanzioni possono essere particolarmente gravi, con misure straordinarie che includono la possibilità di cedere parte del capitale o delle proprietà aziendali. Questa misura è pensata per intervenire direttamente sulla struttura economica dell’impresa, in modo da eliminare le pratiche anticoncorrenziali in modo decisivo.

L’applicazione delle sanzioni dipende dalla gravità della violazione, e la Commissione Europea ha il potere di modificare l’importo della multa o annullarla. In ogni caso, il DMA si propone di assicurare che le violazioni siano sanzionate con un livello di severità proporzionato e di prevenire eventuali abusi di potere da parte dei gatekeeper.

In teoria tutto sembra “girare”. Ma nella pratica, l’efficacia va dimostrata.

Le big tech hanno già dimostrato di saper sfruttare ogni scappatoia normativa per mantenere il loro vantaggio competitivo, e non sarà semplice monitorare ogni aspetto del loro comportamento.

L’azione normativa dell’Unione Europea contro i giganti tecnologici come Apple e Google rappresenta in tal senso un passaggio cruciale per la regolamentazione del mercato digitale. Le misure adottate si riveleranno significative non solo per le implicazioni dirette sul mercato, ma anche per le ripercussioni geo-politiche e diplomatiche che potrebbero derivare da queste decisioni.

Un primo segnale di enforcement del Digital Markets Act

L’attuazione del Digital Markets Act ha raggiunto una fase cruciale con il recente adempimento richiesto dalla Commissione Europea. I gatekeeper designati il 6 settembre 2023 – Alphabet, Amazon, Apple, ByteDance, Meta e Microsoft – entro il 07 marzo scorso[1], hanno dovuto depositare le relazioni dettagliate sulle misure di conformità aggiornate. Queste relazioni, obbligatorie ai sensi del DMA, dovevano illustrare le modifiche implementate e le misure adottate nell’anno trascorso, evidenziando come ciascuna società stesse adeguando le proprie pratiche per soddisfare gli obblighi imposti dal DMA. Parallelamente, agli stessi gatekeeper era richiesto di presentare rapporti aggiornati sulle tecniche di profilazione dei consumatori, da sottoporre successivamente  a revisione indipendente. Le versioni pubbliche dei rapporti di conformità, così come i riassunti non riservati dei report di profilazione, sono a disposizione sul sito dedicato del DMA della Commissione Europea. Stakeholder, accademici e rappresentanti della società civile potranno in tal modo esaminare e commentare le misure specifiche adottate dai gatekeeper.

Tuttavia, mentre il processo di conformità procede, la Commissione ha già mosso le prime contestazioni, ritenendo che le pratiche di Google e Apple non rispettino pienamente le disposizioni del DMA.

Il Digital Markets Act colpisce Google e Apple

La presa di posizione della Commissione evidenzia non solo il rigore con cui l’UE intende applicare il regolamento, ma anche le tensioni che potrebbero emergere nel tentativo di riequilibrare il mercato digitale.

Le violazioni attribuite a Google, in particolare il self-preferencing dei propri servizi a discapito dei concorrenti, costituiscono un chiaro esempio di come il Digital Markets Act intenda correggere le profonde disparità di potere che queste piattaforme hanno accumulato nel tempo. Nel caso specifico di Google, l’accusa riguarda l’alterazione dei risultati di ricerca per privilegiare i propri servizi, rendendo più arduo per i consumatori individuare alternative valide. Inoltre, la società viene accusata di limitare la libertà degli sviluppatori nel indirizzare gli utenti verso soluzioni esterne al suo app store, restringendo in tal modo la concorrenza e l’innovazione. La violazione di queste disposizioni può comportare, come già evidenziato, sanzioni fino al 10% del fatturato globale dell’azienda, una percentuale che, in caso di recidiva, potrebbe salire al 20%, con ripercussioni significative non solo sul piano economico ma anche sulla reputazione del gigante tecnologico.

Dal canto suo, Apple si trova a fronteggiare una “sollecitazione” ad aprire i propri sistemi operativi alla compatibilità con dispositivi di altre marche, come smartwatch e cuffie, nell’ottica di promuovere un ecosistema più inclusivo e interoperabile. Questa richiesta, che mira a indebolire il modello chiuso che ha caratterizzato il successo di Apple, riflette perfettamente la pressione crescente verso la creazione di un ambiente digitale più aperto e concorrenziale. Sebbene, al momento, questa misura non comporti sanzioni immediate, la Commissione Europea ha già chiarito senza mezzi termini che un eventuale rifiuto a conformarsi potrebbe tradursi in penalità economiche severissime, con l’obiettivo di forzare un cambiamento strutturale che incida direttamente sulle dinamiche di mercato e sull’accessibilità dei servizi digitali.

Nelle decisioni  assunte il 19 marzo scorso, riguardo alla conformità di Apple alle norme di interoperabilità, la Commissione ha dunque stabilito le misure specifiche che Apple dovrà adottare per consentire un’integrazione più fluida e aperta tra i dispositivi iOS e i dispositivi di terze parti, come smartwatch, cuffie e TV.

Il primo gruppo di misure riguarda la connettività iOS, in particolare nove funzionalità utilizzate dai dispositivi connessi, come la visualizzazione delle notifiche sugli smartwatch, i trasferimenti di dati rapidi e la configurazione semplificata dei dispositivi. Tutte misure che dovrebbero garantire ai produttori di dispositivi una migliore interazione con gli iPhone, migliorando anche l’esperienza dell’utente finale, con maggiore accesso alle funzionalità di iOS e il rispetto delle normative sulla privacy e la sicurezza.

Il secondo gruppo di misure riguarda invece la semplificazione del processo di richiesta di interoperabilità da parte degli sviluppatori. Apple dovrà migliorare la trasparenza, l’accesso alla documentazione tecnica e la tempistica della revisione delle richieste di interoperabilità. Tanto dovrebbe accelerare l’innovazione e fornire ai consumatori europei una maggiore varietà di dispositivi e servizi compatibili con iPhone e iPad.

Tali decisioni giungono dopo un lungo processo consultivo, che ha incluso contributi da parte di Apple e di terze parti durante la consultazione pubblica del 2024.

L’enigma della auto-preferenza: Google tra innovazione e rigoroso enforcement del DMA

L’ultimo intervento[2] della Commissione Europea su Google mette in luce la crescente difficoltà nel garantire il rispetto del divieto di auto-preferenza sancito dal Digital Markets Act (DMA) all’interno di un ecosistema digitale in costante evoluzione. Dopo mesi di dispute legate ai risultati di ricerca in ambiti come viaggi e acquisti, l’autorità regolatoria ha ribadito con forza che l’obbligo di non favorire i propri servizi non è negoziabile e anzi va ben oltre le tradizionali aree dello shopping online. Infatti, tale principio si estende ora a settori chiave come i dati finanziari, i risultati sportivi e le prenotazioni di treni, rendendo evidente l’intenzione della Commissione di estendere il controllo su tutte le aree in cui Google potrebbe utilizzare la sua posizione dominante per alterare i risultati a suo favore.

Quello che emerge chiaramente è però anche il dilemma operativo e giuridico nell’individuare cosa costituisca un “servizio distinto” quando Google integra i propri dati nei risultati di ricerca, che spaziano dal fattuale al commerciale. Questo infatti complica ulteriormente l’applicazione del divieto di auto-preferenza, poiché la distinzione tra servizi potrebbe non essere sempre evidente. Per alcuni servizi, come Google Finance o Google Travel, la separazione è immediata: il marchio stesso implica un’offerta a sé stante, facilmente identificabile come un servizio distinto. Tuttavia, quando si tratta di ricerche di natura più generica, come domande su condizioni meteorologiche o risultati sportivi, la linea di demarcazione diventa decisamente più labile. In questi casi, diventa difficile stabilire se la risposta fornita da Google provenga semplicemente da una scansione di contenuti web o se sia il frutto di una selezione avanzata, supportata da accordi commerciali che potrebbero favorire ingiustificatamente i propri servizi rispetto alla concorrenza. Questo solleva pertanto ulteriori interrogativi su come applicare in modo equo e coerente le disposizioni del DMA in un contesto così dinamico e complesso, dove la fusione tra dati fattuali e servizi commerciali rischia di minare proprio l’obiettivo di garantire una concorrenza leale. La complessità peraltro aumenta se si considera che Google gestisce circa 99.000 query al secondo, rendendo praticamente impossibile distinguere in modo univoco tra risultati “neutri” e quelli influenzati da accordi commerciali.

Questo contesto inoltre, inevitabilmente, spinge Google verso un approccio sempre più orientato al contenzioso, dato che la sua capacità di conformarsi alle rigide regole del DMA si scontra con le sfide tecniche e commerciali legate alla natura evolutiva del suo motore di ricerca.

Il contrasto tra l’obbligo normativo e la realtà operativa è ulteriormente accentuato dalla necessità di offrire agli utenti risultati di ricerca ricchi e interattivi, che oggi non sono più semplici elenchi di link, ma vere e proprie esperienze digitali integrate. La Commissione, nel richiamare Google, sottolinea che ogni query che attivi un servizio distinto – anche se non immediatamente riconoscibile dall’utente – rientra nel divieto di auto-preferenza. Ciò implica che, per esempio, una ricerca sul punteggio di una partita o sulle previsioni del tempo potrebbe comportare una scelta algoritmica che favorisce i servizi a marchio Google se questi rispondono a un criterio commerciale, piuttosto che a uno puramente informativo.

Il quadro normativo si fa quindi estremamente delicato: da un lato, le regole del DMA sono chiare nel vietare comportamenti che distorcono la concorrenza, ma dall’altro, la natura sempre più sofisticata e integrata della ricerca online rende difficile definire con precisione i confini tra un servizio “generico” e uno “distinto”. Google ha già minacciato, in sede privata, che un’ulteriore imposizione di modifiche potrebbe portare a una semplificazione del servizio, per esempio, riducendo l’offerta al formato tradizionale dei “link blu”, un formato che sarebbe sicuramente conforme ma meno competitivo e innovativo.

Questa tensione evidenzia quindi non solo le sfide tecniche nel monitoraggio e nella regolazione di algoritmi complessi, ma anche le implicazioni economiche e strategiche a cui deve sottoporsi un colosso come Google. La questione, aperta da anni e riacutizzata con le recenti osservazioni della Commissione, potrebbe portare a un lungo contenzioso, con ripercussioni significative sia per il mercato europeo sia per la competitività delle aziende tecnologiche statunitensi.

In sintesi, l’intervento normativo contro Google non riguarda solamente un singolo settore o una singola funzione, ma si inserisce in un contesto più ampio di scontro tra la necessità di garantire una concorrenza leale e quella di permettere l’innovazione in un ambiente digitale sempre più complesso e integrato.

La sfida per i regolatori sarà dunque quella di definire e applicare in modo flessibile le regole del DMA, senza compromettere la qualità e l’innovazione dei servizi che milioni di utenti in Europa e nel mondo utilizzano quotidianamente.

Trasparenza e strategia: come il DMA sta modellando le acquisizioni tecnologiche

La crescente attenzione della Commissione Europea verso le pratiche di auto-preferenza e la gestione dei risultati di ricerca si inserisce in uno scenario più ampio che include anche l’analisi delle acquisizioni tecnologiche da parte dei gatekeeper. In linea con le disposizioni del Digital Markets Act (DMA), Alphabet, pur essendo al centro di indagini per le possibili violazioni di cui sopra, ha notificato alla Commissione Europea l’acquisizione di Galileo AI, una startup statunitense specializzata in immagini e design dell’interfaccia utente basati sull’intelligenza artificiale. Questa acquisizione, annunciata il 21 novembre e divulgata solo di recente, rappresenta la terza operazione di Alphabet nel settore dell’IA, dopo quelle di Evaluable AI e MutableAI. A queste si unisce anche la notifica dell’acquisizione di Specs, una startup statunitense che offre strumenti di codifica per gli sviluppatori dell’applicazione di analisi dei dati Looker di Google. Sebbene il DMA non conferisca alla Commissione il potere di esaminare ogni transazione in dettaglio, la notifica obbligatoria mira comunque a garantire la trasparenza e a prevenire pratiche anticoncorrenziali nel mercato digitale.

Allo stesso modo, le recenti segnalazioni di Microsoft riguardo all’assunzione di un dipendente da Bluesky Data mostrano come le normative del DMA influenzino le dinamiche delle grandi aziende tecnologiche. Malgrado infatti le notifiche di acquisizioni e assunzioni non attribuiscono poteri di intervento diretto, pur tuttavia permettono alle autorità di regolamentazione di monitorare l’espansione delle grandi piattaforme digitali.

Tali operazioni sono quindi parte di quel processo che il DMA mira a guidare, limitando il potere dei “gatekeeper” e promuovendo un mercato digitale più equilibrato, dove le pratiche anticoncorrenziali vengono prevenute sin dalle fasi iniziali delle operazioni.

Amazon sotto la lente: la scomparsa dei prodotti dai risultati di ricerca nel 2023

L’intensificarsi delle misure antitrust non si limita al caso Google, ma sta avendo ripercussioni anche su altri giganti del digitale. Una recente ricerca economicaha infatti evidenziato che, nel 2023, i prodotti Amazon hanno iniziato ad eclissarsi dai risultati di ricerca sulla piattaforma di e-commerce globale dell’azienda. Questo fenomeno si è verificato parallelamente a un inasprimento dei controlli da parte delle autorità antitrust sia negli Stati Uniti sia in Europa, dimostrando come un’attenzione normativa più stringente possa modificare radicalmente le dinamiche dei risultati di ricerca.

Mentre per Google il divieto di auto-preferenza impone di non favorire i propri servizi rispetto a quelli dei concorrenti, per Amazon il nuovo quadro regolatorio si traduce in una diminuzione della visibilità dei propri prodotti interni. L’obiettivo, in entrambi i casi, è quello di ripristinare una competizione più equilibrata sul mercato digitale, evitando che il predominio di pochi attori distorca le scelte dei consumatori e penalizzi l’innovazione.

Tuttavia, tali interventi normativi sollevano anche interrogativi significativi sul futuro dei modelli di business. Se da un lato l’intento è quello di garantire una concorrenza leale e di proteggere l’ecosistema digitale, dall’altro potrebbe emergere il rischio di compromettere la capacità delle piattaforme di investire in innovazione e di offrire trasparenza ai propri utenti. In un mercato in continua evoluzione, dove le tecnologie e le dinamiche competitive si trasformano rapidamente, trovare l’equilibrio tra controllo normativo e libertà imprenditoriale rappresenta un traguardo fondamentale.

Implicazioni politiche e diplomatiche

L’azione dell’UE sta avvenendo in un intreccio geopolitico complesso.

L’azione normativa dell’Unione Europea si inserisce infatti in un contesto dove il Digital Markets Act (DMA) si configura non solo come uno strumento di regolamentazione economica, ma anche come un terreno di scontro tra potenze globali. La Commissione Europea ha dichiarato che le misure adottate contro le grandi piattaforme statunitensi, come Apple e Google, sono finalizzate esclusivamente a “implementare la legge”, cercando di trasmettere un messaggio di legittimità, neutralità e rispetto per i principi del DMA. Tuttavia, dietro questa dichiarazione si celano profonde tensioni geopolitiche. Da un lato, l’UE vuole dimostrare fermezza nell’applicare le sue normative per garantire la concorrenza e la trasparenza nel mercato digitale, mentre dall’altro, la percezione di un intervento severo e autoritario rischia di alimentare l’ostilità dei colossi tecnologici, in particolare quelli della Silicon Valley.

Le critiche provenienti da personalità politiche come Donald Trump, che ha definito l’approccio europeo una forma di “tassazione” delle aziende statunitensi, evidenziano il delicato equilibrio che l’UE deve mantenere. Da un lato, la Commissione si sforza di rafforzare la legittimità delle sue azioni, cercando di garantire che le normative siano applicate equamente a tutte le piattaforme, indipendentemente dalla loro origine geografica. Dall’altro lato, però, le grandi aziende percepiscono queste misure come un attacco che minaccia di limitare l’innovazione e di penalizzare i consumatori. Le lamentele di Apple e Google non sono casuali: entrambe temono che le disposizioni contenute nel DMA possano compromettere i loro modelli di business. Apple, ad esempio, sostiene che l’obbligo di interoperabilità con dispositivi di altre marche aumenterà significativamente i costi e rallenterà l’innovazione, favorendo concorrenti come Meta. Google, d’altro canto, esprime preoccupazione per la possibilità che ulteriori modifiche al suo sistema di classificazione dei risultati di ricerca possano ridurre la qualità dell’esperienza utente e compromettere il traffico verso siti terzi.

Il dilemma centrale risiede nel bilanciamento tra l’obiettivo dell’UE di garantire una concorrenza leale e la preoccupazione delle aziende per gli effetti collaterali di un’applicazione rigorosa delle normative. Mentre la Commissione ha optato per un approccio “amministrativo”, rispettando le scadenze imposte dal DMA, essa è consapevole della necessità di dosare con attenzione la propria azione per evitare un’escalation, sia sul piano legale che diplomatico. In effetti, le decisioni della Commissione potrebbero facilmente alimentare ulteriori tensioni transatlantiche. Già l’amministrazione Trump aveva criticato le normative europee, definendo le multe come una “forma di tassazione” che danneggia le aziende statunitensi, un argomento che si inserisce nel più ampio contesto di ritorsioni economiche, come l’introduzione di tariffe sui prodotti europei, da parte degli Stati Uniti, in risposta alle normative che percepiscono come dannose.

L’escalation di questo conflitto potrebbe andare ben oltre le semplici sanzioni economiche, con potenziali ripercussioni sulle relazioni internazionali. La guerra commerciale in corso, alimentata dalla competizione sulle politiche fiscali e dalle regolamentazioni imposte alle Big Tech, rischia di intensificarsi se l’Unione Europea persisterà su questa linea di intervento normativo. Così facendo, la disputa potrebbe trasformarsi in un conflitto più ampio, in cui la regolamentazione delle piattaforme digitali diventa un campo di battaglia geopolitico con implicazioni significative per le relazioni transatlantiche e l’equilibrio economico globale.

 Big Tech tra Europa e USA: scontro normativo e battaglia per l’influenza globale

La Commissione Europea si trova, dunque, a dover prendere decisioni di grande delicatezza che non riguardano esclusivamente le pratiche delle grandi aziende statunitensi; l’UE è, infatti, sotto pressione anche al suo interno. Aziende, società civile e Parlamento europeo spingono per un’applicazione rigorosa delle proprie normative, come il Digital Markets Act (DMA), entrato in vigore nel 2022, ma la cui implementazione è ancora un processo in fase di definizione. In questo contesto, le tensioni legate alla regolamentazione delle Big Tech si intrecciano con un più ampio conflitto geopolitico che ha implicazioni economiche, strategiche e tecnologiche di enorme portata, nonché un fondamentale confronto tra modelli giuridici divergenti.

Le contrapposizioni tra UE e Stati Uniti non si limitano alla difesa della concorrenza o alla protezione dei consumatori, ma si inseriscono in una sfida globale sul controllo del settore digitale e sulla capacità di stabilire le regole del gioco a livello internazionale. Da un lato, l’Unione Europea si propone come un pioniere nella regolamentazione digitale, cercando di imporre standard rigorosi per tutelare i diritti fondamentali e creare un ambiente digitale più giusto. Dall’altro, gli Stati Uniti si sforzano di preservare il loro primato tecnologico e di evitare che le normative europee diventino un modello di riferimento a livello mondiale. Questa dinamica non è soltanto un confronto economico, ma una vera e propria battaglia per l’influenza globale, che mette a confronto due approcci contrastanti alla governance del digitale.

Le implicazioni di questo conflitto normativo sono enormi per le aziende tecnologiche, che potrebbero trovarsi a operare in un mercato sempre più frammentato, costrette a conformarsi a normative differenti a seconda del territorio. Un simile scenario comporterebbe un aumento dei costi operativi, la duplicazione degli investimenti e una perdita di efficienza complessiva. Inoltre, l’emergere di alleanze normative tra l’Europa e altre economie emergenti, come la Cina e l’India, potrebbe rappresentare una risposta strategica al predominio americano nel settore digitale, ridisegnando gli equilibri globali e intensificando la competizione tra blocchi regolatori. Questo scenario, in continua evoluzione, renderebbe ancora più complessa la governance dell’ecosistema tecnologico globale.

In questo quadro, l’idea di rimettersi ad una legge simile al DMA negli Stati Uniti si scontra con profonde differenze strutturali e culturali. La tradizione giuridica europea, incentrata su un approccio “ordoliberale”, considera la regolamentazione statale come un elemento essenziale per garantire mercati equi e competitivi. Al contrario, negli Stati Uniti prevale il pensiero neoclassico, che difende il libero mercato e prevede interventi statali solo quando si verificano danni concreti ai consumatori, seguendo il principio del “consumer welfare standard”.

Questa divergenza di visioni si riflette direttamente nell’approccio del DMA, che impone obblighi e divieti preventivi ai gatekeepers digitali, operando con una logica di regolamentazione ex-ante, prima che si verifichino abusi di posizione dominante. Negli Stati Uniti, invece, si adotta un approccio ex-post, intervenendo solo dopo che è stato dimostrato un comportamento anticoncorrenziale. Di conseguenza, l’idea di imporre negli USA un sistema di regolamentazione preventiva come quello europeo è difficile da realizzare, poiché verrebbe necessariamente percepita come un’ingerenza eccessiva nella libertà di impresa e nella capacità del mercato di autoregolarsi.

Non sorprende quindi che i tentativi di adattare il DMA al contesto statunitense stiano incontrando resistenze significative, non solo normative, ma anche ideologiche. Mentre l’Europa continua la sua missione di regolamentare il digitale secondo principi di equità e controllo statale, gli Stati Uniti rimangono ancorati al modello della supremazia del libero mercato. La regolamentazione delle Big Tech non è, quindi, solo una questione economica, ma un campo di battaglia simbolico e concreto tra due visioni contrastanti del futuro digitale. Ogni decisione normativa avrà conseguenze dirette sugli equilibri globali di potere e sull’orientamento futuro delle economie digitali, con impatti che vanno ben oltre le singole legislazioni nazionali.

Consumer Agenda 2025-2030 e DMA in azione

Lo abbiamo già detto: l’accelerazione dell’e-commerce e la diffusione di pratiche commerciali ingannevoli come i dark pattern impongono una risposta coordinata, capace di bilanciare tutela dei diritti e competitività del mercato.

La riunione congiunta delle reti Consumer Policy Network (CPN) e Consumer Protection Cooperation Network (CPC), le due principali reti europee dedicate alla protezione dei consumatori tenutasi il 26 marzo 2025, presso lo Stadio Nazionale di Varsavia, non è però solo un segnale di maggiore cooperazione tra gli Stati membri, ma anche un ulteriore tassello di quella strategia che mira a consolidare il ruolo dell’Unione Europea come regolatore globale e di cui il DMA ne è già parte integrante.

L’evento, organizzato dall’Ufficio polacco per la concorrenza e la tutela dei consumatori (UOKiK) e dalla Commissione Europea (DG Giustizia e Consumatori), ha riunito esperti da tutta Europa per definire le priorità della nuova Consumer Agenda 2025-2030 e rafforzare le strategie di tutela dei consumatori in un mercato sempre più digitale e globale.

​​Durante l’incontro, oltre questioni come quelle delle sfide legate dal rapido sviluppo del commercio elettronico, delle pratiche ingannevoli e dark pattern, è stato affrontato anche il tema della protezione dei consumatori vulnerabili, come anziani, bambini e persone con disabilità, che risultano particolarmente esposti alle pratiche commerciali scorrette. L’obiettivo delle istituzioni europee è quello di adottare strumenti che garantiscano una tutela più efficace per queste categorie, soprattutto nel contesto digitale, dove il rischio di manipolazione è elevato.

L’occasione rappresenta una circostanza importante di un più ampio percorso politico che culminerà il 26 maggio con la Giornata europea della concorrenza, altro appuntamento centrale della presidenza polacca del Consiglio dell’UE. In quell’occasione, l’attenzione sarà posta sull’evoluzione del diritto della concorrenza e sulle sfide globali che attendono l’Europa nei prossimi anni. Guardando avanti dunque, la Consumer Agenda 2025-2030 e il DMA rappresentano strumenti complementari che, se applicati in modo coordinato, potranno contribuire a ridefinire il rapporto tra piattaforme digitali, imprese e consumatori.

Conclusioni

Le prime valutazioni sull’attuazione del DMA indicano già che le nuove disposizioni stanno influenzando le dinamiche di mercato. Diverse piattaforme stanno infatti modificando le proprie pratiche per conformarsi alle regole, con l’obiettivo di creare un ambiente più competitivo che offra ai consumatori una scelta più ampia e servizi migliori. Tuttavia, l’impatto complessivo del DMA diventerà evidente solo quando la sua implementazione sarà pienamente operativa e saranno valutati i suoi effetti a lungo termine.

Tra le sfide principali vi sono l’esecuzione e il monitoraggio della conformità. La Commissione Europea dovrà infatti affrontare la complessità dei mercati digitali e intervenire tempestivamente in caso di violazioni delle nuove regole. Inoltre, trovare il giusto equilibrio tra regolamentazione e innovazione rappresenta una questione delicata: pur promuovendo la concorrenza, il DMA deve evitare di imporre oneri eccessivi che potrebbero soffocare l’innovazione e la crescita delle piattaforme.

Un ulteriore aspetto critico è rappresentato dalla natura globale delle piattaforme digitali, che operano su scala internazionale. Ciò rende inevitabili le sfide legate alla regolamentazione transfrontaliera e richiede una cooperazione internazionale per garantire che le regole vengano applicate in modo coerente e che tutte le giurisdizioni possano contare su un sistema di concorrenza leale.

In futuro sarà fondamentale verificare l’efficacia pratica delle disposizioni del DMA. Ad esempio, sarà importante valutare se i requisiti per la portabilità dei dati stiano effettivamente abbattendo le barriere tra le piattaforme e se il divieto di auto-preferenza stia producendo gli effetti desiderati. Allo stesso modo, analizzare l’impatto di queste misure sulle piccole imprese e sugli sviluppatori di software sarà cruciale per determinare se il DMA stia creando opportunità concrete per i più piccoli, o se le grandi piattaforme continuino a esercitare un’influenza sproporzionata sul mercato. Anche l’analisi degli effetti sulle disuguaglianze economiche sarà essenziale per comprendere se il regolamento stia contribuendo a una distribuzione più equa delle opportunità, riducendo il divario tra i giganti tecnologici e i concorrenti minori.

Il Digital Markets Act, dunque, non si configura semplicemente come una misura di regolamentazione economica, ma come un elemento chiave di una più ampia ristrutturazione dei rapporti di potere nel panorama digitale globale. Piuttosto che limitarsi a correggere inefficienze di mercato, il DMA si inserisce in una strategia volta a ridistribuire il controllo delle infrastrutture digitali, riequilibrando il predominio delle Big Tech e rafforzando la sovranità normativa dell’Unione Europea. In questo contesto, la regolamentazione della concorrenza assume una forte connotazione politica, non solo per proteggere i consumatori, ma anche per esercitare un’influenza geopolitica. La vera sfida dei prossimi anni sarà quindi capire se questa visione riuscirà a promuovere un mercato più aperto e innovativo, oppure se rischierà di sacrificare l’efficienza economica nel tentativo di ridisegnare gli equilibri di potere a livello globale.


[1]Stessa data in cui si è svolta la quarta riunione dell’High-Level Group per il Digital Markets Act (DMA) a Bruxelles, celebrando il primo anniversario dell’entrata in vigore del DMA e il secondo anno dalla sua istituzione. Durante l’incontro, il Vicepresidente esecutivo Ribera ha tenuto un discorso programmatico. Il gruppo ha ribadito l’impegno per l’efficace attuazione del DMA, promuovendo coerenza tra i vari strumenti normativi. Le discussioni hanno riguardato i recenti sviluppi nel monitoraggio e nell’applicazione del DMA, e hanno incluso aggiornamenti su temi come dati, interoperabilità e intelligenza artificiale. È stato anche trattato il lavoro congiunto della Commissione con l’EDPB sui legami tra DMA e GDPR, oltre all’interazione con il Digital Services Act (DSA). L’High-Level Group, composto da esperti di vari organismi europei, fornisce consulenza alla Commissione per garantire un’implementazione coerente e futura del DMA. Si veda: https://digital-markets-act.ec.europa.eu/fourth-meeting-digital-markets-act-high-level-group-dma-first-anniversary-2025-03-07_en

[2]La Commissione europea ha inviato ad Alphabet due conclusioni preliminari per violazione del Digital Markets Act. La prima riguarda Google Search, dove si evidenzia che alcune funzionalità favoriscono i propri servizi a discapito di quelli dei concorrenti, compromettendo un trattamento trasparente e non discriminatorio. La seconda riguarda Google Play, che impedisce agli sviluppatori di indirizzare liberamente i consumatori verso canali alternativi per trovare offerte migliori. Queste conclusioni, pur non pregiudicando l’esito finale dell’indagine, esprimono il parere preliminare dell’UE secondo cui Alphabet violerebbe il DMA nei due ambiti designati come gatekeeper.

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