diritto d’autore

Copia privata sul cloud: la tassa occulta (e iniqua) che pesa su tutti



Indirizzo copiato

La copia privata, introdotta in Italia nel 1992 per compensare gli autori delle copie domestiche, oggi è un meccanismo che genera oltre 100 milioni di euro annui, colpendo indiscriminatamente tutti i consumatori, indipendentemente dai reali comportamenti digitali

Pubblicato il 8 set 2025

Sergio Boccadutri

Consulente antiriciclaggio e pagamenti elettronici



Cd copia privata

Il nuovo decreto ministeriale sulla copia privata attualmente in consultazione (fino al 15 settembre) dimostra una creatività fiscale senza precedenti: ora pagheremo anche per lo spazio cloud dove conserviamo le foto scattate con il nostro smartphone durante le vacanze per non intasare la memoria del telefono e lasciare spazio alle APP sempre più “pesanti”.

La logica del colpevole fino a prova contraria applicata alla tecnologia

La logica della proposta è semplice quanto disarmante: siccome potremmo teoricamente usare quel gigabyte per copiare una canzone, allora dobbiamo pagare un compenso preventivo. Non importa se quel cloud lo usiamo solo per i documenti di lavoro o per il backup delle nostre foto di famiglia. Il principio è quello del “colpevole fino a prova contraria” applicato alla tecnologia.

Ma non finisce qui. Avete mai sentito parlare di doppia imposizione? Ecco, se e quando dovessimo decidere di comprare uno smartphone usato – magari per risparmiare o per motivi ambientali – ci toccherà pagare il compenso per copia privata. Il telefono “aveva già pagato” quando era stato acquistato come nuovo, ma se viene “ricondizionato” la copia privata va pagata di nuovo.

È come pretendere la revisione periodica (altra tassa occulta) o il bollo annuale per intero anche nel caso di acquisto di un’auto usata nonostante il precedente proprietario abbia – poco prima della vendita – fatto revisionare l’auto o pagato il bollo. Il paradosso è evidente: mentre il mondo si digitalizza e dematerializza, il nostro legislatore continua a ragionare come se fossimo ancora all’epoca delle musicassette. Invece di modernizzare il sistema del diritto d’autore per l’era digitale, si preferisce moltiplicare i micro-balzelli che finiscono per gravare su tutti, indiscriminatamente.

E se pensiamo di poter aggirare il tutto dimostrando che usate i dispositivi solo per lavoro, prepariamoci a un’odissea burocratica degna di Kafka.

Moduli, dichiarazioni, schede tecniche, fatture da allegare. Il tutto per dimostrare che no, davvero, quel cloud lo usiamo solo per archiviare i contratti e non per scaricare l’ultimo album di Vasco Rossi.

Il risultato finale? Un sistema che penalizza l’innovazione, scoraggia l’economia circolare e trasforma ogni consumatore in un potenziale evasore. Perché in Italia, si sa, la cosa più facile da fare è tassare.

Copia privata: le origini di un sistema nato per l’era analogica

Ogni volta che compriamo uno smartphone, un tablet o un computer, persino una scheda per la macchina fotografica digitale, oltre al prezzo paghiamo un importo imposto per legge che non è l’iva. È nascosta nel prezzo, ma c’è. Si chiama “compenso per copia privata” e nel 2023 ha fruttato 124 milioni di euro.

È la storia di un sistema nato per compensare gli autori delle perdite dovute alle copie domestiche, lecite, ma che oggi si è trasformato in qualcosa di molto diverso: una rendita che tutti paghiamo per pratiche che quasi nessuno esercita più. Una tassa sui dispositivi elettronici che finanzia un mondo analogico in un’era digitale dominata dallo streaming.

Per capire questa storia bisogna tornare indietro di molti anni, quando farsi una audiocassetta per l’auto dai propri LP era faticoso, ma normale, oppure quando comprare un CD e masterizzarne una copia per l’auto, o trasformarne le tracce in altrettanti “mp3” da riprodurre su un apposito lettore o sul proprio pc, era l’abitudine. La tesi era che gli autori e le case discografiche perdevano vendite a causa di queste duplicazioni domestiche, impossibili prima dell’avvento dei supporti vergini.

L‘evoluzione normativa dal 1992 ai giorni nostri

Le origini della copia privata risalgono al 1992, quando con Legge n. 93 del 5 febbraio 1992 l’Italia introduce per la prima volta norme “a favore delle imprese fonografiche e compensi per le riproduzioni private senza scopo di lucro” L’idea è semplice: se l’utente può fare copie di opere (musicali o audiovisive) per uso personale, agli autori, artisti e produttori deve essere riconosciuta una compensazione dal mancato acquisto di un supporto originale (equo compenso).

Nel 2001 l’UE approva la Direttiva 2001/29/CE, che armonizza alcuni aspetti del diritto d’autore nella società dell’informazione. La direttiva riconosce in via generale il diritto esclusivo di riproduzione ai titolari, ma lascia agli Stati membri la possibilità di introdurre un’eccezione di copia privata, a condizione che sia accompagnata da una “equa remunerazione” per i titolari.

Con il D.Lgs. 9 aprile 2003, n. 68, l’Italia recepisce la direttiva e inserisce nella Legge sul diritto d’autore (L. n. 633/1941) alcuni articoli per normare la copia privata. Le nuove norme consentono la licenza legale per la copia privata di fonogrammi e videogrammi su qualsiasi supporto, per uso esclusivamente personale, senza scopo di lucro; attribuiscono agli autori, produttori e artisti un compenso per copia privata; affidano alla SIAE la riscossione e ripartizione dei compensi.

Fino al 2009 è rimasto in vigore un regime transitorio sui compensi per copia privata che prevedeva il corrispettivo applicato all’acquisto di supporti audio e video, analogici o digitali dedicati (ad esempio CD e audiocassette) in rapporto alle ore di registrazione. Invece nel caso di supporti digitali non dedicati, ma idonei alla registrazione di audio e video e videogrammi il compenso era determinato in proporzione alla memoria installata. Inoltre, era stabilito un compenso pari al 3% dei prezzi di listino sugli apparecchi esclusivamente destinati alla registrazione analogica o digitale audio o video.

Nel 2009, il Ministero della Cultura col DM 30 dicembre 2009 stabilisce una prima determinazione organica delle tariffe per copia privata. Un sistema che sarà poi richiamato nei regolamenti successivi, compreso quello tuttora in consultazione. Un successivo e ampio aggiornamento delle tariffe viene stabilito col successivo DM 20 giugno 2014 che istituisce anche un tavolo tecnico per il monitoraggio dei mercati e delle abitudini di consumo. Nel 2019 viene pubblicato il DM 18 giugno 2019 relativo alle esenzioni dal versamento del compenso per determinate fattispecie, che sarà poi annullato dal Consiglio di Stato, e da qui la necessità di un nuovo DM 30 settembre 2024 sulle esenzioni e i rimborsi del compenso per copia privata. Intanto col DM 30 giugno 2020 vengono determinate le nuove tariffe per la riproduzione privata di fonogrammi e videogrammi (oggi la base tariffaria vigente in attesa della pubblicazione del nuovo DM in consultazione).

L’idea in origine sembrava elegante nella sua semplicità: se tutti possono fare copie private, tutti contribuiscono a un fondo che compensa gli autori. Un sistema di solidarietà che sembrava perfettamente calibrato sui comportamenti di consumo dell’epoca. Peccato che acquistando un cd musicale o un dvd, una parte del prezzo andasse già a remunerare il diritto d’autore e il privato aveva dunque il diritto di riprodurre liberamente il contenuto per soli fini personali, mai commerciali.

Intanto i tempi sono cambiati. Lo streaming ha rivoluzionato il modo in cui fruiamo la musica, Netflix ha fatto lo stesso con i film. Eppure, il sistema della copia privata è rimasto immutato, anzi si è espanso per includere sempre più dispositivi e supporti.

Caratteristiche di una tassa mascherata

Le caratteristiche per definire la copia privata una tassa ci sono tutte: si tratta di una “prestazione imposta” dalla legge, la determinazione dell’importo è fatta in via autoritativa, con tanto di sanzioni nel caso di mancata corresponsione; quindi, i soggetti obbligati (i produttori) non possono sottrarsi al pagamento. In parole semplici: è una “tassa”, anche se non viene chiamata così. E dato che è imposta ai produttori potremmo anche definirlo, sposando la definizione dell’Istituto Bruno Leoni, un auto-dazio imposto a determinate categorie di beni a prescindere dal luogo della loro produzione: “un trasferimento forzoso di risorse dai consumatori a un ristretto gruppo di beneficiari”. E come tutti i dazi che si rispettano, il costo viene infine traslato sui consumatori e incorporato nel prezzo di vendita.

Ed è una tassa particolarmente iniqua perché colpisce tutti allo stesso modo, indipendentemente dall’uso che si fa del dispositivo. È regressiva perché pesa di più sui redditi bassi. È indiscriminata perché non distingue tra chi effettivamente copia contenuti protetti e chi usa i dispositivi per tutt’altri scopi.

Ma è una tassa ingiusta, infatti, come vedremo nel prosieguo, è tutta da provare la rispondenza del compenso generato all’effettivo utilizzo dei supporti e dispositivi per la creazione di copie private: la correlazione appare sempre più una fictio iuris. Nella realtà, questo meccanismo sembra configurarsi come un escamotage per recuperare – in parte, in toto o oltremisura è impossibile determinarlo – i mancati introiti dovuti alla pirateria digitale e al download illegale di contenuti protetti.

Di fronte alle oggettive difficoltà nel contrastare il fenomeno diffuso della pirateria online, il compenso per copia privata si è di fatto trasformato in un indennizzo forfettario per il fenomeno della pirateria a carico della generalità dei consumatori, che pagano indistintamente per compensare perdite presunte ma mai quantificate. Il paradosso è evidente: mentre il sistema dichiara di compensare le copie private legittime (quelle effettuate da fonti legali per uso personale), nella pratica funziona come una tassa occulta che dovrebbe compensare anche – o soprattutto – le perdite da pirateria. Il solito metodo all’italiana, invece di stanare i furbi si colpiscono gli onesti: nell’era dello streaming, dove il 97% degli italiani utilizza servizi legali e pochissimi effettuano copie private, con questo prelievo – che genera oltre 100 milioni di euro annui – si impone ai consumatori onesti il prezzo della pirateria altrui.

I numeri che non quadrano: 124 milioni per un mercato da 22

Ma in oltre 30 anni, quanto è costato l’equo compenso, e poi la copia privata, agli italiani? Una stima approssimativa del totale generato dal 1992 al 2024 è compresa tra i 3,1 e il 3,5 miliardi di euro. Quindi anche adottando una stima più prudente è di circa 3 miliardi di euro il gettito della misura, imposta ai produttori ma pagata dai consumatori. Un sondaggio commissionato da Anitec-Assinform del 2024 mostra come il 70% degli italiani ignora di pagare questa “tassa” e che quasi la metà non ha effettuato copie private negli ultimi tre anni.

Oggi il paradosso è sotto gli occhi di tutti, basta guardare i numeri. Nel 2023 il mercato italiano dei CD musicali valeva 21,9 milioni di euro. Un mercato residuale, sostenuto più dalla nostalgia che dall’uso pratico. Anche i vinili, pur in crescita, rimangono un fenomeno di nicchia legato al collezionismo e alla particolarità del suono, non certo alla possibilità di farne copie. Escludiamoli dunque da qualunque calcolo: chi compra un vinile non lo fa per farne una copia digitale!

Eppure, nello stesso anno il sistema della copia privata ha generato 124 milioni di euro. Come è possibile che un compenso legato alla “eventualità” di copiare digitalmente musica da un supporto fisico valga sei volte l’intero mercato dei CD musicali?

Certo sarebbe necessario considerare anche i supporti video, DVD e soprattutto BlueRay 4K, ma chi compra questo tipo di supporti lo fa proprio per sfruttare al massimo le potenzialità dei nuovi televisori (con risoluzioni e fluidità sempre crescenti), piuttosto che farne una copia ad una risoluzione inferiore. Ma anche a voler escludere il mercato video dal monte totale della copia privata, la distorsione rimane evidente. Infatti, secondo il bilancio della Fondazione Copia Privata (alla quale la SIAE ha conferito la gestione operativa delle attività di raccolta e ripartizione primaria della “tassa”), la ripartizione primaria della copia privata è 65% Audio e 35% Video. Quindi, sempre per il 2023 e tenendo conto della ripartizione della copia privata per il settore Audio si arriva ad un importo complessivo di 80 milioni di euro: anche così gli incassi della “tassa” valgono 4 volte l’intero mercato dei CD musicali. I conti continuano a non tornare.

Costi di gestione sproporzionati per un prelievo automatico

C’è poi da dire che circa il 4,5%, pari a 5,5 milioni di euro per il 2023 degli introiti viene trattenuto dalla SIAE per la gestione della copia privata (di cui 3,8 milioni di euro girati alla “propria” Fondazione Copia Privata). Si tratta di importi enormi che non sono giustificati: la copia privata grava automaticamente su tutti gli acquisti, c’è infatti da considerare che gli acquisti in nero sono molto difficili in un settore in cui è sempre richiesta la “garanzia” del produttore per coprire rischi di difetti di fabbrica che possono compromettere totalmente un qualunque utilizzo dell’hardware.

Quindi, mentre abbiamo smesso di comprare CD da copiare, continuiamo a comprare smartphone, tablet, computer, hard disk che potrebbero teoricamente essere usati per fare copie. Il sistema non guarda a quello che facciamo realmente, ma a quello che potremmo fare. E ci fa pagare.

Come ha osservato lo studio dell’Istituto Bruno Leoni, siamo di fronte a un “indennizzo forfettario a carico della generalità dei consumatori” che spesso non hanno alcun rapporto con il diritto d’autore. L’imprenditore che compra un hard disk per i backup aziendali paga la stessa “tassa”, così come lo studente che archivia gli appunti universitari o la famiglia che conserva le foto delle vacanze. Certo il sistema di esenzione, previsto dal decreto del Ministro della cultura 30 settembre 2024, rep. 302, consente di non applicare la “copia privata” ad alcuni casi, ma il sistema è davvero farraginoso e anch’esso basato su presunzioni.

Dal monopolio Siae alla liberalizzazione del mercato

La gestione di questo fiume di denaro proveniente dalla copia privata è stata tradizionalmente affidata in esclusiva alla SIAE, con costi di gestione molto alti, pari come abbiamo visto a circa il 4,5%, non male per un importo comunque imposto dalla legge a tutte le vendite di determinate categorie di prodotti.

Ma la questione va oltre i numeri. Il monopolio SIAE nella gestione della copia privata rifletteva un modello più ampio di controllo sul diritto d’autore che per decenni ha caratterizzato il mercato italiano. Un sistema chiuso, poco trasparente, con barriere all’accesso per i nuovi autori e nessuna concorrenza. È in questo contesto che solo nel 2018 quando l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato certificò l’abuso di posizione dominante di SIAE, che il mercato delle “collecting” viene liberalizzato. La sanzione fu simbolica – mille euro – ma il messaggio era chiaro: il monopolio era finito. Dopo anni di battaglie legali, nel 2019 SIAE e Soundreef firmarono un accordo storico che riconosceva ufficialmente la fine dell’esclusiva.

Così anche nella gestione della copia privata, l’arrivo della concorrenza ha creato nuove dinamiche e nuovi conflitti. Nel 2020 SIAE e Soundreef avevano trovato un accordo per la ripartizione dei proventi in base alle rispettive quote di mercato. Il meccanismo prevedeva che SIAE incassasse l’intero ammontare e poi corrispondesse a Soundreef la sua quota.

Per il periodo 2017-2018, Soundreef aveva rivendicato 1,2 milioni di euro, cifra che SIAE aveva pagato pur contestandola. Il contenzioso è finito in tribunale e nel 2024 è arrivata una prima sentenza: la quota spettante a Soundreef era di soli 215.179 euro. Una differenza di quasi un milione che riflette la reale dimensione del mercato: SIAE mantiene il 99,2% della rappresentatività, Soundreef si ferma allo 0,8%.

Un sistema che penalizza innovazione e competitività

Il caso Soundreef-SIAE sulla copia privata è emblematico di un problema più ampio: un sistema che ha perso il collegamento con la sua giustificazione originaria.

Mentre i consumi culturali si sono spostati verso lo streaming e le piattaforme digitali, la copia privata continua a colpire chiunque acquisti un dispositivo con una memoria digitale, indipendentemente dall’utilizzo finale effettivo. Il nesso causale originario è saltato: le somme raccolte non corrispondono più a una reale attività di riproduzione personale, ma alla diffusione di smartphone, hard disk e tablet utilizzati per le finalità più disparate.

Il risultato è un sistema che penalizza l’innovazione e rende il mercato italiano meno competitivo. Ogni nuovo dispositivo più capiente comporta un prelievo maggiore, per questo invece di aumentare gli importi della copia privata, ed estenderne addirittura l’applicazione al cloud, il Ministero della Cultura dovrebbe fare un bagno di realtà e ridurli. Servono criteri di calcolo aggiornati che tengano conto dei reali comportamenti di consumo nell’era digitale. Serve maggiore trasparenza nella gestione delle risorse. Serve un sistema che non penalizzi l’innovazione tecnologica ma la accompagni. Soprattutto, serve il coraggio di ammettere che alcuni strumenti normativi, nati in epoche diverse per esigenze specifiche, possono trasformarsi in rendite parassitarie quando perdono il collegamento con la realtà economica e sociale. Difendere oggi la copia privata nella sua forma attuale significa difendere un privilegio corporativo.

È incredibile che la politica, che chiacchiera di voler ridurre le tasse (che poi si dovrebbe occupare di ridurre la spesa, perché è solo così che si riducono le tasse) non si preoccupi di cancellare una tassa occulta del tutto ingiustificata rispetto alle sue finalità ufficiali.

La tassa nascosta sui nostri smartphone, sui nostri pc, sulle nostre schede SD e da domani persino sul cloud che utilizziamo per conservare le nostre foto fatte con l’iPhone, non è solo una questione tecnica di diritto d’autore. È il simbolo di un paese che deve ancora imparare a distinguere tra tradizione e immobilismo, tra tutela dei diritti e rendite di posizione, tra innovazione e conservazione. Una lezione che vale ben oltre il mondo della musica.

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