C’è stato un tempo – nemmeno troppo lontano – in cui la comunicazione aziendale guardava da vicino la divulgazione scientifica, cercando legittimazione nel tecnicismo, nella spiegazione, nella quantità di dati.
Indice degli argomenti
L’evoluzione: dalla comunicazione tecnica al coinvolgimento emotivo
Poi è arrivato il rumore. Troppo. Troppa informazione, troppi contenuti.
Viviamo in un tempo che trabocca contenuti. Approfondimenti, analisi, dirette, tutorial (spiegazioni). Ma proprio per questo, oggi, il pubblico non cerca più solo sapere, cerca sentire. E in questo cambio di paradigma la comunicazione corporate, ma anche quella istituzionale e pubblica, è chiamata a una trasformazione radicale: parlare alla “pancia”, non solo alla testa. Perché l’approfondimento è importante – e deve esserci, chiaro, accessibile – ma è l’emozione che attira, coinvolge, fidelizza.
Oggi un brand che vuole essere rilevante deve smettere di spiegare. Deve iniziare a raccontare. Per questo la creatività non è un orpello, ma un asset strategico. Una necessità. Una chiave di lettura del presente. Il miglior marketing, oggi, è quello che sa creare una relazione, non un effetto speciale.
Il passaggio dall’informazione al racconto nella strategia aziendale
“Già verso la fine degli anni 70 del secolo scorso la sociologa statunitense Arlie Russell mise in correlazione le emozioni e il mondo del lavoro introducendo il concetto di emotional labor, nel marketing si passa da un marketing di impatto a un marketing di empatia” spiega la psicologa del lavoro e delle organizzazioni Vania Marchionna che aggiunge: “Le corde emotive che funzionano di più sono certamente l’autenticità, le persone cercano verità e trasparenza. Racconti di storie reali, imperfette, vicine all’esperienza comune crea fiducia e senso di somiglianza”.
I nuovi formati digitali dell’emotional marketing
Il marketing più efficace non è quello che cerca l’effetto wow, ma quello che punta alle emozioni. Lo vediamo ogni giorno nei nuovi formati che popolano le piattaforme digitali: video brevi, microstorie, contenuti empatici, emozionali, autentici. Contenuti che non spiegano, ma raccontano. Che non vendono, ma coinvolgono. È questo il cuore dell’emotional marketing, che sta diventando il nuovo standard anche nelle strategie aziendali più strutturate.
Secondo la ricerca di Marc Gobé, che ha reso popolare il concetto di branding emozionale nel suo libro “Emotional Branding: The New Paradigm for Connecting Brands to People”, questo tipo di marketing è l’unico in grado di andare oltre la vendita di prodotti, costruendo così relazioni.
Non è un caso se grandi brand, ma anche piccole eccellenze, stanno riformulando il loro modo di comunicare: meno slide, più storie. Meno metriche, più emozioni. Perché nell’epoca dell’iperconnessione vince chi riesce a connettersi davvero. Con il cuore, non solo con il dato.
Case study di successo: da Coca-Cola a Nike
Con la campagna “Condividi una Coca-Cola”, il marchio di Atlanta ha sostituito il nome sulle etichette delle famose bottigliette di vetro (e lattine) con nomi comuni e frasi come “Amico” o “Anima Gemella”.
La campagna ha generato gioia ed entusiasmo, poiché i consumatori erano entusiasti all’idea di trovare un’etichetta Coca-Cola con il loro nome o quello di un amico. Questa campagna non solo ha incoraggiato le persone ad acquistare bibite, ma ha anche associato Coca-Cola ad un valore positivo come l’amicizia, spingendole a cercare la bottiglia giusta per i propri amici. Nel complesso, la campagna ha unito le persone attraverso un’esperienza condivisa.
Nike, il colosso dello sportswear, ha virato la propria strategia verso l’utilizzo sempre più aggressivo di forme di automazione del marketing digitale, dando meno importanza alla creatività, e ha subito un calo di vendite consistente. “Stiamo iniziando a spostare gli investimenti dal performance marketing al brand marketing”, ha affermato l’amministratore delegato Elliott Hill, che ha sostituito John Donahoe a settembre. Nike così ha già iniziato a gettare le basi per il ritorno a una creatività più coraggiosa.
Nicola Bigi, presidente dell’agenzia creativa TIWI Studio, spiega: “Nel tempo è calata l’attenzione dei brand verso la forma di spot emozionale, perché si utilizza sempre più spesso il branded content per la fase di consideration (tutte quelle strategie progettate per migliorare la percezione del marchio agli occhi del pubblico target), ma per la fase di awareness (quella durante la quale il potenziale cliente diventa consapevole dell’esistenza di un’azienda o di un prodotto o servizio) si è sempre più investito in forme di adv digitale molto legata al programmatic (il sistema automatizzato con cui si comprano in real time spazi pubblicitari sul web per mostrare contenuti a un target selezionato attraverso la raccolta e l’analisi di dati lasciati dagli utenti durante la navigazione). Questo approccio è incredibilmente efficace nel gestire messaggi specifici costruiti automaticamente per microtrarget. È però penalizzante in termini di creatività e connessione emotiva. Per questa ragione credo che il ritorno alla creatività, all’emozione, come centro di una parte della produzione di contenuti nella fase alta del funnel, sia sempre più importante”.
L‘integrazione tra emozione e dati nella comunicazione moderna
Attenzione però spiega Marisandra Lizzi, comunicatrice e fondatrice di Mirandola Comunicazione “non si tratta di contrapporre emozione e dato, bensì di integrarli. Le emozioni sono la porta d’ingresso, i dati sono ciò che consolida la fiducia”
La nuova grammatica del brand
Il consumatore oggi non cerca più un brand che gli parli in modo patinato. Cerca un interlocutore che lo ascolti, che capisca i suoi bisogni, che stia al suo fianco nella realizzazione delle proprie passioni. E questa non è retorica: è strategia. È business. Una strategia d’eccellenza passa dalla consapevolezza che al centro non c’è più il prodotto, ma la persona.
La nuova relazione tra brand e consumatori
Lo ha detto anche Dave Kerpen, columnist del New York Times: “I consumatori non si preoccupano di te, si preoccupano principalmente di loro stessi”. E allora i brand devono imparare a esserci senza pesare, a diventare rilevanti senza essere ingombranti. A essere presenti, ma non invadenti. Invisibili, persino, ma nel modo giusto. Quello che lascia spazio, ma non lascia soli.
Una caratteristica utile, anche (e soprattutto) nella comunicazione istituzionale e pubblica dove l’aspetto emozionale si sta ritagliando uno spazio sempre maggiore. Uno dei casi più recenti è la campagna del Quebec sui rischi dell’attraversamento pedonale non sulle strisce. È interessante perché è radicato in un evento fisico, che però poi guadagna visibilità grazie alla produzione dello spot.
La Regione Toscana, per “Climatica 25” un evento dedicato alla lotta dell’ente istituzionale guidato da Eugenio Giani all’effetto dei cambiamenti climatici e degli eventi meterologici estremi ha deciso di aprire i lavori con un breve spot emozionale per introdurre i partecipanti al tema centrale dell’evento senza citare dati e senza l’utilizzo di slide.
Il marketing come servizio e strumento di prossimità
In fondo è questa la nuova missione del marketing: diventare servizio. Essere utile, di prossimità, vero. In ascolto. Non c’è più spazio per la comunicazione autoreferenziale, per i claim urlati, per la pubblicità che interrompe. Oggi serve una narrazione che accompagni. Che abiti le emozioni. Che sappia toccare, più che colpire.
E allora la trasformazione passa anche dalla cultura digitale. Da come vengono usate le piattaforme, dalla scelta dei formati, da come vengono progettati i contenuti. Serve uno storytelling che parte dai bisogni reali e arriva alle persone. Non più target, ma comunità. Non più audience, ma relazioni.
Storytelling autentico e coinvolgimento corporeo
“Lo storytelling efficace non è inventato ma interpretato. È il lavoro che proviamo a fare ogni giorno con le persone e con i brand che seguiamo: partire da un’esperienza reale, raccontata con onestà e cercare in quella storia un seme universale. Non servono effetti speciali: servono pause, domande, punti di svolta. I nostri contenuti migliori nascono così: da un vissuto, da un cambio di direzione, da un’emozione, da una sensazione che si prova nel corpo. Lo storytelling efficace è quello che si sente nel corpo non solo nella mente ed è li che si crea la possibilità di engagement” racconta Marisandra Lizzi, voce autorevole quando si parla di comunicazione.
I marketer, quindi, devono imparare a riconoscere le emozioni, le proprie e quelle altrui, cercando di elaborarle e indirizzarle in modo costruttivo nelle strategie delle aziende e dei loro brand.
Per Vania Marchionna: “Ciò che secondo me, oggi, è particolarmente vincente è l’offerta del senso di appartenenza, la ricerca della comunità e l’identificazione. Appartenere a qualcosa, ad un racconto comune. Ad una comunità. Ci tocca di più la condivisione di una propria architettura emotiva che l’effetto spettacolo. Quello che raccolgo sempre di più è l’esigenza di essere visti. Che è una richiesta semplice ma se colto e curato è un processo di legame potente e duraturo, anche nel marketing”.
La presenza discreta come nuovo paradigma del brand
Oggi il marketing più efficace è quello che sceglie di fare un passo indietro, per poterne fare due avanti nella relazione con le persone. In un’epoca in cui siamo costantemente bersagliati da messaggi, notifiche, inviti all’attenzione, il valore di un brand non si misura più da quanto riesce a imporsi nella vita delle persone, ma da quanto riesce ad abitare quelle vite aggiungendo valore con discrezione e senso.
La nuova sfida è essere una presenza che rassicura, che accompagna, che diventa familiare, ma mai invadente. Riconoscibili senza essere rumorosi. Il brand non è più il protagonista assoluto del racconto: un compagno di viaggio che parla quando serve, che sa esserci nel momento giusto, nel contesto giusto, con il tono di voce giusto.
Questo significa rinunciare alla tentazione – forte, comprensibile, ma oggi inefficace – di mettersi costantemente al centro della scena.
I brand che oggi funzionano sono quelli che riescono a farsi parte del quotidiano delle persone, non come una presenza che interrompe, ma come una realtà che ispira e migliora.
“Apple dalla sua campagna in stile 1984 ha sempre provato a non parlare mai di caratteristiche tecniche dei suoi prodotti, ma di aspirazioni, diventando un marchio in cui riconoscere parte dei propri sogni o aspirazioni” chiarisce Nicola Bigi.
Verso una nuova alleanza tra parole, corpo e visione
In definitiva, il brand di oggi è forte non quando è il più visibile, ma quando è il più rilevante. E la rilevanza non si costruisce con la pressione o con il rumore, ma con l’ascolto. Non con la presenza ingombrante, ma con una presenza significativa, continua e gentile.
Il futuro del marketing è lontano dagli effetti speciali, e vicino alle emozioni. Il futuro delle aziende e dei loro brand per quanto riguarda il marketing e la comunicazione passa da qui “una nuova alleanza tra parole, corpo e visione. Una comunicazione capace di toccare la pelle e lo spirito dei consumatori, non solo lo schermo di uno smartphone” dice Marisandra Lizzi.