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Fake news, social responsabili? La sentenza su Meta che cambia tutto



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La corte del Delaware ha stabilito che Meta è parzialmente responsabile per la diffusione di fake news su Facebook, respingendo l’immunità della Sezione 230. La decisione potrebbe influenzare il futuro della gestione dei contenuti online

Pubblicato il 28 nov 2024

Luciano Daffarra

C-Lex Studio Legale



fake news (2) (1)

La recente decisione della U.S. Court del “District of Delaware”, nella causa che ha visto contrapposti l’ex governatore dell’Arkansas, Mike Huckabee, e Meta Platforms, Inc., convenuta in giudizio quale proprietaria della piattaforma di social media “Facebook”, ha ad oggetto un caso di fake news diffuse sul web che hanno associato il ricorrente all’uso di derivati dalla cannabis sativa, attribuendogli l’affermazione “Il cannabidiolo mi ha curato e può salvare la vita degli Americani”.

Le richieste del procuratore Huckabee alla Corte del Delaware

Infatti, il 1° luglio 2024, l’ex governatore aveva chiesto al sopra citato tribunale di fare cessare in via d’urgenza la violazione commessa nei suoi confronti da parte di Facebook: avuto riguardo alle norme del “Frank Broyles Publicity Rights Protection Act del 2016[1]”, a quelle vigenti negli Stati Uniti contro l’invasione della privacy – intesa sia come appropriazione dei dati personali, che come attribuzione di un’immagine non propria – e di quelle sull’arricchimento senza causa da parte della convenuta. Il medesimo attore ha formulato domanda di risarcimento dei danni nei confronti di Meta.

La decisione sul provvedimento d’urgenza, pubblicata il 18 novembre 2024, è stata emessa dopo che il giudice ha esaminato le tesi dei contendenti.

Le accuse di Huckabee contro Meta

Da una parte Mike Huckabee accusava Meta di non avere rimosso, dopo avere volontariamente approvato, la pubblicazione su Facebook di tre messaggi pubblicitari messi a disposizione del pubblico attraverso dei “post” di terzi utenti, in cui si faceva uso del suo nome e della sua immagine senza il necessario consenso dell’interessato. Tali messaggi attribuivano all’ex governatore dell’Arkansas il fatto di avere abbandonato la conduzione di programmi televisivi religiosi per svolgere l’attività di promozione di caramelle gommose a base di cannabis e il fatto di essersi egli stesso curato da una malattia autoimmune attraverso l’uso della marijuana.

Per la collocazione su Facebook di questi messaggi diffamatori, rimasti pubblicamente visibili nel periodo compreso fra il 9 aprile e il 6 giugno 2024, secondo la tesi dei legali di Mike Huckabee, Meta utilizza un algoritmo che decide quali dei contenuti creati da terzi – come quelli sopra ricordati – debbano essere compresi o esclusi da una determinata raccolta di inserzioni, in modo tale da calamitare gli utenti, attribuendo agli stessi messaggi una posizione di priorità rispetto agli altri, tenuto conto della loro vis attractiva[2].

La difesa di Meta 

Da parte di Meta Inc. si è evidenziato in atti che le domande svolte dal ricorrente sarebbero precluse dall’applicazione delle disposizioni della “Section 230” del Titolo 47 dello U.S. Code che garantiscono ai fornitori di servizi, che non siano editori, l’immunità per i contenuti pubblicitari pubblicati che – secondo la resistente – erano falsi ancor prima di venire pubblicati su Facebook. Secondo la difesa della resistente, inoltre, quest’ultima non era in alcun caso a conoscenza della loro presenza abusiva sul sito web, di talché tutte le domande svolte dal ricorrente sarebbero state prive di evidenze atte a comprovare la violazione delle norme di legge vigenti in Arkansas da parte di Facebook.

La valutazione del giudice 

Sulla base delle posizioni processuali fatte valere dalle parti, il giudice ha valutato anzitutto l’eccezione dell’assenza di responsabilità dell’ISP in base alle norme sul safe harbor, affermando che Facebook, nel caso de quo, avrebbe assunto il ruolo di fornitore di contenuti a mezzo della rete Internet (c.d. hosting provider), con il conseguente trattamento giuridico applicabile nei suoi confronti per le violazioni commesse. A tale stregua – ha osservato il giudice – Meta rimane parzialmente responsabile per i fatti ad essa attribuiti e, almeno per la fase interinale della causa, e non può dirsi che essa possa godere del safe harbor in base alle norme della “Section 230” del Titolo 47 dello U.S. Code, almeno fintanto che non sia provata l’assenza di un suo contributo materiale alle violazioni contestate[3].

L’esito della decisione 

Se, quindi, non sono state accolte dal tribunale le altre domande formulate da Mike Huckabee nei confronti di Meta Inc. per quanto riguarda le violazioni da lui ascritte alla controparte, – da un lato – per non avere il ricorrente provato la consapevolezza del gestore di tale piattaforma circa le violazioni commesse attraverso i messaggi pubblicitari pubblicati da terzi su Facebook, in cui si è fatto uso del suo nome e della sua immagine, e – dall’altro – per non avere lo stesso dimostrato la presenza di un intento volontario e consapevole da parte dello stesso fornitore di servizi digitali in riferimento alla denunciata invasione della privacy, la decisione interinale ha lasciato aperta la questione della possibile responsabilità vicaria di Meta Inc., rispetto alla norma di cui al § 230(c)(1) del Titolo 47 dello U.S. Code.

Implicazioni della Section 230 

Questa stessa normativa, oggetto di aspre critiche da parte di molti, fra i quali vi è stato lo stesso presidente Usa Joe Biden quando era in corsa per il primo mandato elettorale, durante il quale ne auspicò l’abrogazione, ma di altrettanto significativo supporto proveniente da molti dei fornitori di servizi on-line negli Stati Uniti, è stata presa in esame nel corso di un’altra controversia giudiziale che presenta caratteristiche non dissimili a quella sopra brevemente descritta.

Un caso parallelo: Andrew Forrest

Si tratta della causa che ha visto di fronte alla Corte del Northern District della California, il miliardario australiano Andrew Forrest e la Meta Platforms Inc.

L’oggetto del contendere di questa vertenza era simile a quello che ha connotato l’azione svolta da Mike Huckabee, cioè l’accostamento della persona di Andrew Forrest alla promozione di criptovalute e di investimenti illegali in altri prodotti finanziari in alcuni messaggi pubblicitari postati su Facebook. Dopo che nel corso dell’anno 2022, la Superior Court di Los Angeles aveva respinto le istanze del ricorrente sulla scorta della più volte ricordata Section 230, la causa è stata portata al giudizio della Corte di San Francisco, la quale ha esaminato l’intera vicenda giungendo a sentenza il 17 giugno 2024.

Nel corso dell’anno 2019, Mike Forrest, dopo avere scoperto che la sua immagine da “impostore” era stata utilizzata anche per realizzare e mettere a disposizione del pubblico su Facebook alcuni video “Deepfake”, ha incaricato un investigatore di scoprire quale fosse la fonte di tali illeciti, riuscendo a identificarne l’origine nell’Est Europa e nel Sud Est Asiatico.

Al fine di porre termine a tali soprusi, il magnate e filantropo australiano si è messo in contatto con un dirigente della Meta nel suo paese di origine, allo scopo di vedere rapidamente rimossi i contenuti illeciti che lo riguardavano. Venuta mano la promessa di risolvere la questione attraverso questo contatto, Mike Forrest si è determinato a scrivere una lettera aperta al CEO di Meta Inc., Mark Zuckerberg, ricevendo rassicurazioni circa la cessazione degli illeciti da parte dell’ufficio legale dell’impresa statunitense.

Algoritmo e contenuti illeciti

Non avendo ottenuto il risultato sperato, nel mese di settembre 2021 il ricorrente si è rivolto al tribunale assumendo che gli algoritmi di Meta come “One Tool” fossero in grado di modificare i contenuti di testo, audio e video, migliorando la qualità digitale delle inserzioni e il loro aspetto estetico e che tali strumenti erano stati utilizzati anche per alcuni dei contenuti illeciti che lo riguardavano, coinvolgendo la sua persona in iniziative commerciali non certo commendevoli.

In questo caso, la Corte del Northern District della California ha valutato che, sulla base delle evidenze portate dall’attore, la sua azione non risultava prevenuta dall’applicazione della Section 230 del Titolo 47 dello U.S. Code, come in precedenza illustrata.

Messaggi pubblicati da tezi e responsabilità del fornitore dei servizi

Secondo il tribunale, infatti, pur essendo Meta un fornitore di servizi, vi è spazio per un accertamento di fatto, sulla scorta delle allegazioni di Mike Forrest, relativamente alla circostanza che i messaggi pubblicitari pubblicati su Facebook oggetto della causa siano interamente di provenienza da un terzo content provider, secondo il dettato del § 230(c) della normativa di riferimento.

In base all’interpretazione della citata normativa offerta dalla giurisprudenza del Nono Circuito[4], l’avere materialmente contribuito in tutto o in parte alla creazione dei messaggi pubblicati, di cui alla disposizione della Section 230(f)(3), deve essere considerato come fatto idoneo a generare la responsabilità del fornitore dei servizi seppure il suo intervento si sia limitato alla modifica dell’aspetto esteriore del contenuto stesso.

Da tale ragionamento, il tribunale adito da Mike Forrest è pervenuto alla conclusione che, sebbene il ricorrente non abbia chiaramente provato in quale maniera gli strumenti tecnologici utilizzati dalla resistente funzionino o abbiano concorso all’illeceità dei contenuti oggetto di causa, egli ha evidenziato come Meta Inc. abbia svolto un “ruolo attivo” nel decidere quale dovesse essere l’aspetto dei messaggi pubblicitari costituenti violazione dei diritti di Mike Forrest come persona, di tal guisa dando vita a un fattore determinante nella produzione, disseminazione e successo dei suddetti contenuti[5].

La “neutralità” di Facebook

Il giudice si è quindi posto la domanda circa la “neutralità” di Facebook nel pubblicare i contenuti provenienti da un terzo e si è espresso circa la carenza di una prova – fornita dalla parte resistente – in merito al fatto che l’intervento da quest’ultima svolto sui contenuti pubblicati fosse del tutto priva di correlazione con il loro aspetto esteriore.

Vantaggio economico tratto da Meta

Anche avuto riguardo al vantaggio economico tratto da Meta attraverso la pubblicazione dei messaggi pubblicitari che impersonavano Mike Forrest come promotore di prodotti finanziari abusivi, il giudice ha rilevato che le deduzioni del ricorrente sulla propria notorietà di personaggio pubblico, utilizzato come veicolo pubblicitario con un significativo lucro per il fornitore di servizi, fossero sufficienti a sostenere la posizione di vantaggio di Meta a tale riguardo.

Le accuse di negligenza da parte di Meta

Nel rigettare le eccezioni di preclusione delle domande della resistente in base alle norme sul safe harbor, il tribunale ha respinto anche le istanze del ricorrente relative alle accuse di negligenza da parte di Meta Inc. nell’informare gli utenti della natura di “deepfake” dei messaggi promozionali recanti le immagini e gli altri dati personali di Mike Forrest quale causa di danno, in quanto tale domanda risultava carente di prova e non sembravano ricorrere i presupposti previsti dalla legge per farla valere in giudizio. È stata peraltro concessa la facoltà alla parte attrice di emendare la domanda su questo punto.

Liquidazione del danno

Anche la richiesta di liquidazione del danno derivante da arricchimento senza causa è stata rigettata dal tribunale, anch’essa con facoltà di emendare la domanda da parte del ricorrente, in quanto la stessa risultava essere subordinata per legge all’inesistenza di altri rimedi risarcitori adeguati e specifici a favore dell’attore, circostanza questa che egli non ha provato.

L’applicazione della Ssection 230 agli hosting provider

Alla stregua di quanto si desume dalle recenti controversie prese in esame possiamo asserire che negli Stati Uniti non si è ancora risolta la delicata e annosa questione dei limiti di applicazione nei confronti degli “hosting provider” della normativa più volte sopra citata della Section 230 del Titolo 47 dello U.S. Code[6].

Il caso YouTube-Nohemi Gonzalez

Invero, la stessa Corte Suprema si è astenuta dal decidere circa l’ampiezza e la legittimità della stessa disposizione nella sentenza resa il 18 maggio 2023[7] in un caso riguardante la diffusione di video apparsi sulla piattaforma “YouTube”. Secondo la tesi dei ricorrenti, Google – proprietaria della sopra menzionata piattaforma digitale – sarebbe responsabile per avere aiutato e incoraggiato gli attacchi coordinati dall’ISIS a Parigi nel novembre dell’anno 2015, crimini che hanno condotto alla morte, fra le 129 vittime dell’eccidio, della giovane cittadina statunitense Nohemi Gonzalez. I familiari della giovane studentessa hanno sostenuto in tutti e tre i gradi del giudizio che Google avesse favorito la commissione degli attentati di Parigi “raccomandando” i video postati e messi a disposizione degli utenti dal sopra citato gruppo terroristico.

L’orientamento della Corte suprema Usa

Come detto, la Corte Suprema degli U.S.A. non ha preso alcuna posizione circa l’immunità garantita ai fornitori di servizi on-line dalle norme sul safe harbor, astenendosi dall’esaminarne il dettato posto alla base delle sentenze favorevoli ai gestori della piattaforma digitale nei precedenti due gradi di giudizio.

Il medesimo indirizzo giurisprudenziale, volto ad evitare che possa essere posto in discussione il principio del “free speech” garantito dal Primo Emendamento della Costituzione statunitense, è sotteso alla recente decisione della Corte Suprema nel caso ad essa sottoposto per il vaglio di legittimità avuto riguardo a due provvedimenti legislativi che i Repubblicani hanno approvato e intendono implementare negli Stati della Florida e del Texas. Si tratta delle disposizioni che mirano a ridurre il potere delle imprese detentrici delle piattaforme digitali di social media nel rimuovere i contenuti considerati non conformi ai principi di legge o alle regole dettate dall’impresa che gestisce i media stessi.

L’orientamento espresso nel parere reso per iscritto dai magistrati della Corte Suprema sembra orientato a non volere chiudere del tutto la porta a possibili interventi degli amministratori delle piattaforme di social media sui contenuti postati dagli utenti, purché essi non intervengano direttamente sulla libertà di espressione. In altri termini, la linea di tendenza dei giudici di massimo grado sembra orientata a evitare che le norme di legge statunitensi, nel regolare i servizi digitali di social media, possano consentire che gli editori esercitino un controllo di merito sui contenuti postati dagli utenti.

La decisione sulla vertenza è stata per ora vacata (cioè, sospesa), in attesa di un probabile rinvio delle due cause ai giudici di grado inferiore per chiarire alcuni aspetti di merito delle norme che gli Stati del Texas e della Florida intendono introdurre nei loro ordinamenti.

Fake news e libertà di espressione in Italia

In Italia il tema della libertà di espressione si pone indubitabilmente anche rispetto alle c.d. “Fake News” dove il contenuto espressivo di disinformazione o di inganno dell’utente della rete che veicola il messaggio viene riguardato principalmente sotto l’aspetto della sussistenza o meno del suo contenuto più di frequente falso, tendenzioso o diffamatorio, contrapposto ai principi informatori della libertà di espressione, la cui accezione del termine negli Stati Uniti viene considerata con molta maggiore ampiezza rispetto a quanto avvenga nel nostro Paese [8], ove viene data ampia rilevanza anche agli aspetti penalistici delle espressioni false, le quali sono suscettibili di configurare, ove ne ricorrano i presupposti, diverse fattispecie criminose, come il procurato allarme all’autorità[9], la sostituzione di persona o il furto di identità[10].

Fake news e intelligenza artificiale

A tale proposito, si osserva che il tema della diffamazione viene oggi aggravato dall’uso delle tecnologie digitali e dall’intelligenza artificiale[11], che consentono di modificare voci e volti, talvolta confondendo nomi e persone così da realizzare vere e proprie “fakenews generative”.

In questo contesto, fortemente frastagliato e disomogeneo, risulta difficile trovare un equilibrio fra libertà di espressione e prevaricazione dei diritti altrui attraverso la falsità o la disinformazione. Non giovano alla libertà di pensiero le scelte adottate in alcuni paesi che hanno introdotto norme penali contro la diffusione di fake news, così come era accaduto in Grecia, che nell’anno 2021 aveva sanzionato penalmente la diffusione di dette misinformazioni, ma che nel corso dell’anno 2023 ha provveduto a emendare la legge rimuovendo le norme incriminatrici[12].

La necessità di un intervento globale

Del pari, non sembrano sufficienti ad affrontare questo problema i codici di “buone pratiche in materia di disinformazione”, proposti dall’Unione Europea[13].

Si può invece pensare che il tema vada affrontato a livello globale, attraverso l’introduzione di strumenti che permettano la legittima identificazione dei soggetti che utilizzano la rete Internet per comunicare dati falsi, atti a ingannare il pubblico circa l’attendibilità della notizia diffusa, la quale spesso mira a colpire gli utenti, coinvolgendoli in operazioni commerciali che si risolvono in truffe o in acquisti di beni o servizi abusivi o illegittimi[14].

Note

1) La sopra citata normativa dello Stato dell’Arkansas mira, fra l’altro, a garantire misure appropriaste per il contrasto all’uso commerciale non autorizzato del nome, della voce, della firma, della fotografia o delle fattezze di un cittadino.

2) In proposito il giudice ha ricordato la sentenza resa in un caso che aveva coinvolto TikTok contro tale Tawainna Anderson, decisione che avrebbe accertato fatti analoghi a quelli fatti valere da Mike Huckabee e cioè l’impiego di sistemi di intelligenza artificiale per indicizzare e organizzare la visibilità dei contenuti postati dagli utenti sui social media. Al seguente collegamento ipertestuale si può trovare copia della decisione in argomento: https://digitalcommons.law.villanova.edu/cgi/viewcontent.cgi?article=1747&context=thirdcircuit_2024.

3) Circa l’ambito di applicazione della normativa della Section 230 del Titolo 47 dello U.S. Code, introdotta dal Communication Decency Act statunitense (DCA) del 1996, un cenno a tale tema è stato fatto alla nota n. 15 dell’articolo pubblicato da questa testata: https://www.agendadigitale.eu/cultura-digitale/la-reputazione-rovinata-dallia-come-difendersi/ Nel contesto di tale brano abbiamo osservato che l’articolo 230(c)(1) della Section 230 prevede una ipotesi di immunità dalla responsabilità per gli illeciti commessi in rete a beneficio dei fornitori e degli utenti di un “servizio interattivo della società dell’informazione”, i quali pubblichino dati o informazioni fornite da utenti terzi. La norma sopra indicata recita: “Nessun fornitore o utente di un servizio informatico interattivo potrà essere trattato come editore o come titolare delle informazioni fornite da un altro fornitore di contenuti informativi”.

4) Il tribunale si riferisce alla sentenza resa dalla Corte d’Appello del Nono Circuito nella causa fra Christopher Calise e Anastasia Groschen contro Meta Inc., pubblicata il 17 ottobre 2023, il cui testo è raggiungibile qui: https://cdn.ca9.uscourts.gov/datastore/opinions/2024/06/04/22-15910.pdf

5) Per un breve excursus sulla disciplina della responsabilità degli Internet Service Provider, in riferimento al ruolo di “hoster attivo” si può leggere questo articolo: https://www.agendadigitale.eu/mercati-digitali/violazioni-del-diritto-dautore-la-responsabilita-degli-isp-norme-e-giurisprudenza/ Lo stesso tema, trattato sotto il profilo della messa a disposizione del pubblico di servizi televisivi trova alcuni spunti di approfondimento in questo contributo: https://www.agendadigitale.eu/mercati-digitali/responsabilita-dei-fornitori-dei-servizi-di-hosting-la-sentenza-che-fa-chiarezza/

6) Le norme in questione sono integrative di quelle introdotte dal Digital Millennium Copyright Act in materia di responsabilità dei fornitori dei servizi e non appaiono dissimili nell’interpretazione data dai giudici a quelle della Direttiva e-commerce dell’Unione europea, nel testo vigente del Digital Service Act.

7) La decisione della Corte Suprema U.S.A. in questa causa è rinvenibile qui: https://www.supremecourt.gov/opinions/22pdf/21-1333_6j7a.pdf

8) Le questioni da affrontare nel rapporto fra diffamazione e libertà di informazione vengono brevemente delineate in questo articolo: https://www.agendadigitale.eu/documenti/giustizia-digitale/diffamazione-che-obsolescenza-perche-serve-un-restyling-normativo/

9) La materia è disciplinata dall’art. 658 del Codice penale italiano.

10) L’art. 494 del Codice penale italiano prevede una serie di ipotesi di reato, fra le quali potrebbero rientrare le fattispecie di sostituzione di persona o di furto di identità che sono state illustrate nei casi presi in esame dai giudici statunitensi, ovviamente riferendo tale disposizione ai soggetti che originariamente hanno creato le fake news (o i deepfake) utilizzando le fattezze delle persone lese nella propria immagine e reputazione, per trarre vantaggio dalla loro notorietà.

11) Questa testata ha evidenziato il caso del giornalista irlandese David Fanning in una panoramica sul tema della diffamazione on-line che può essere rinvenuto qui: https://www.agendadigitale.eu/cultura-digitale/la-reputazione-rovinata-dallia-come-difendersi/

12) Qui la notizia aggiornata: https://fom.coe.int/en/alerte/detail/107636771

13) Il riferimento va al documento sviluppato dall’UE e sottoscritto da 34 soggetti firmatari: https://digital-strategy.ec.europa.eu/it/policies/code-practice-disinformation

14) Il 27 settembre 2024, la presidente della Federal Communication Commission statunitense, Jessica Rosenworcel, ha sottolineato in suo discorso pubblico la necessità di applicare le disposizioni del “Telephone Consumer Protection Act” (qui: https://www.fcc.gov/sites/default/files/tcpa-rules.pdf) contro le chiamate telefoniche truffaldine gestite da sistemi di intelligenza artificiale. La stessa ha evidenziato che l’Agenzia è in grado di tracciare le chiamate e di trovare la sorgente che le ha generate, al fine di fare cessare i danni provocati ai consumatori che sono vittime delle iniziative illecite implementate attraverso questi strumenti illegali.

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