Le straordinarie potenzialità offerte dall’intelligenza artificiale al settore della moda sono in continua evoluzione. Questa tecnologia non si limita a supportare il processo creativo, ma è in grado di ridefinirne i confini, influenzando profondamente le modalità di ideazione e produzione, nonché l’interazione tra brand e consumatori.
Grazie all’IA, i creativi possono generare pattern e design innovativi, visualizzare prototipi tridimensionali estremamente realistici e sviluppare campagne pubblicitarie con modelli digitali che somigliano in tutto e per tutto a persone reali. L’IA viene persino impiegata per preservare lo stile del brand nel tempo: alcuni designer stanno addestrando algoritmi in grado di replicare il proprio linguaggio creativo, con l’obiettivo di garantire continuità stilistica anche nel lungo termine.
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IA nella moda: sfide legali e reputazionali
Tuttavia, man mano che questi strumenti si perfezionano, emergono anche nuove sfide legali e reputazionali. Come tutelare i pattern e i design generati da sistemi di IA? Inoltre, l’impiego sempre più esteso di IA solleva interrogativi sull’omologazione degli output.
In questo contesto, il dialogo tra tecnologia, creatività e diritto appare quanto mai necessario per tracciare nuovi confini di tutela e responsabilità, senza soffocare l’innovazione.
Il nodo della proteggibilità degli output generati tramite intelligenza artificiale
La proteggibilità degli output generati tramite intelligenza artificiale è oggi oggetto di dibattito. Le norme in materia di diritto d’autore si fondano tradizionalmente su una visione antropocentrica, richiedendo la presenza di un apporto umano affinché un’opera possa essere tutelata. Tuttavia, con l’evoluzione delle tecnologie e l’aumento dell’autonomia dei sistemi di IA, si fa sempre più concreto il rischio che l’intervento umano diventi, in alcuni casi, marginale o addirittura assente.
In risposta a queste sfide, alcune giurisdizioni stanno iniziando a chiarire che, per poter beneficiare della tutela autoriale, l’opera non deve essere generata esclusivamente dall’IA: ciò che rileva è l’esistenza di un contributo creativo umano. In Italia, ad esempio, il disegno di legge approvato dal Senato lo scorso marzo e in esame in commissione — volto a modificare la legge sul diritto d’autore — prevede che siano protette anche le opere create con l’ausilio dell’intelligenza artificiale, purché rappresentino il risultato del lavoro intellettuale di un autore.
L’importanza di garantire tutela legale agli asset creativi
La possibilità di proteggere gli output è una questione cruciale per i brand: poter garantire tutela legale ai propri asset creativi significa avere strumenti concreti per valorizzarli e difenderli efficacemente in caso di utilizzi non autorizzati. Difatti, ove un pattern non fosse tutelabile (per esempio perché creato esclusivamente con l’IA o con un minino apporto umano), chiunque potrebbe riprodurlo anche identico, con un grave pregiudizio per il brand.
Il rischio di standardizzazione
Un altro rischio legato all’utilizzo dell’IA riguarda la standardizzazione. In un’epoca in cui l’intelligenza artificiale si nutre di dati preesistenti per generare output, la moda rischia di perdere quella ricchezza espressiva e quell’autenticità e spontaneità che da sempre la contraddistinguono. Alcuni brand hanno già dimostrato come l’IA possa produrre pattern e design originali in tempi record e a costi contenuti. Eppure, dietro la promessa di efficienza, si cela un’insidia: la creatività algoritmica si basa su dataset spesso omogenei. Il risultato? Una produzione visiva che porta con sé il rischio di replicare modelli preesistenti, contribuendo alla creazione di una sorta di monocultura digitale, piuttosto che aprire le porte a nuove frontiere espressive. Sarà dunque necessaria un’attenta elaborazione dell’output, per evitare questa omogeneità e la perdita di quell’estro creativo che è la chiave vincente dell’industria della moda.
Pregiudizi dell’IA: i rischi dei bias culturali e sociali per i brand
Un altro rischio riguarda la natura dei dati utilizzati per addestrare l’algoritmo, che potrebbero essere influenzati da bias culturali e sociali o provenire prevalentemente da specifiche aree geografiche. Inoltre, non è possibile conoscere in anticipo — né controllare con precisione — in che modo tali dati verranno selezionati, combinati e interpretati dal sistema per generare l’output, né comprendere le logiche che portano alla scelta di un’informazione rispetto a un’altra.
Il risultato può essere un output che riflette pattern, immagini o modelli visivi “standardizzati”, incapaci di rappresentare la varietà di visioni e culture esistenti. Questo può costituire un limite per un brand, che spesso costruisce la propria identità creativa proprio sull’integrazione di ispirazioni eterogenee e influenze culturali diverse (creando, peraltro, ulteriori e diverse problematiche, come le ormai note critiche relative alla cultural appropriation).
Le tutele dell’AI act
Per fronteggiare questi rischi, l’AI Act introduce alcuni principi fondamentali che devono essere rispettati, tra cui, quelli di trasparenza, responsabilità e supervisione umana per i cosiddetti sistemi “ad alto rischio”. L’articolo 10 dell’AI Act, inoltre, richiede che i dati utilizzati dai sistemi di IA siano adeguati, qualificati e, soprattutto, non idonei a generare distorsioni tali da incidere “sulla salute e sulla sicurezza delle persone, di avere un impatto negativo sui diritti fondamentali o di comportare discriminazioni”.
Per evitare che la moda si trasformi in una monotona vetrina costruita dagli algoritmi, l’apporto umano resta cruciale. È fondamentale che il settore adotti un approccio etico e inclusivo, capace di valorizzare l’autenticità culturale e la pluralità delle espressioni umane. Solo così sarà possibile immaginare un futuro in cui tecnologia e creatività possano coesistere in equilibrio.