Quando, dopo aver dedicato lo scorso 10 settembre una prima intensa parte del proprio discorso sullo stato dell’Unione Europea all’Ucraina e a Gaza, la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen ha cambiato argomento, accennando alla competitività, nell’aula di Strasburgo sono echeggiati diversi mugugni, soprattutto dai banchi della sinistra. Come se si stesse passando da una tragedia aperta e irrisolta alla solita minestra, senza rispetto per la prima.
Ma in realtà l’impotenza dell’Europa, dimostrata a Gaza ma anche a Kiev, dove nonostante le enormi risorse finanziarie investite dalla UE gran parte dei destini presenti e futuri dell’Ucraina sono legati agli USA, deve molto ai mancati investimenti del passato nelle tecnologie critiche che allo stesso tempo determinano la nostra scarsa competitività e la dipendenza da altri Paesi, a cominciare proprio da USA e Cina (ma anche Russia per gli approvvigionamenti energetici di alcuni Stati membri).
Indice degli argomenti
Tecnologie critiche e ritardi europei: le soluzioni proposte da von der Leyen
Se non siamo neppure in grado di capirlo sarà impossibile trovare le soluzioni giuste. Nel discorso di von der Leyen ce ne sono diverse, dal fondo Scaleup Europe, che dovrebbe essere dotato di diversi miliardi di euro per investire in nuove imprese in rapida crescita che operano in settori tecnologici critici, alla creazione di un acceleratore industriale per i settori strategici, passando per una serie di misure già annunciate come le AI gigafactory, il cosiddetto 28o regime per le startup innovative, la preferenza europea negli appalti pubblici e i provvedimenti omnibus di semplificazione che nei prossimi mesi riguarderanno oltre alla mobilità militare il digitale.
Il modello di innovazione globale secondo Mehran Gul
Tuttavia, come ha scritto Mehran Gul nel suo recente libro “The new geography of innovation”, la competizione tra Paesi per divenire la prossima superpotenza tecnologica non è tanto tra diversi modelli quanto tra intensità diverse dello stesso modello.
Che in sostanza è una combinazione di politiche industriali basate su agenzie come il Darpa americano e altre forme dirette e indirette di sostegno all’innovazione (tra le quali un sistema universitario di eccellenza) e una commercializzazione di quest’ultima basata su startup e altre imprese di natura privata. Anche l’Unione europea e alcuni singoli Paesi si sono avvicinati negli ultimi anni a questo modello ma lo hanno fatto finora troppo poco per poter emergere come competitor credibili delle due principali corazzate, USA e Cina.
La Silicon Valley e i segreti del successo americano
Gul compie nel suo libro un viaggio in molti dei luoghi dove si fa oggi innovazione con un certo successo per capire se potranno emergere alternative vere alla Silicon Valley e alla capacità di quest’ultima non solo di sopravvivere ma di guidare serialmente da una posizione di assoluta leadership il cambiamento negli ultimi settant’anni, dai transistor ai chip, dal pc a Internet fino all’intelligenza artificiale.
Una capacità sbalorditiva di rigenerarsi continuamente grazie a un mix di fattori che vengono richiamati nel libro. Dalla presenza di un’università, Stanford che, da oscuro e bistrattato ateneo privato fondato nel 1884, grazie alla visione di alcuni personaggi decisivi come Fred Terman viene trasformata a partire dagli anni Trenta e Quaranta del secolo scorso in un luogo di eccellenza ingegneristica al servizio della cultura imprenditoriale e tecnologica del territorio, all’emergere del venture capital che ha determinato un cambiamento non solo finanziario ma in primis culturale a favore del rischio e al servizio di outsider giovani e con idee stravaganti ma spesso disruptive che sarebbero stati tendenzialmente respinti da meccanismo tradizionali di finanziamento.
Ma anche la brillante argomentazione contenuta nella tesi di dottorato di AnnaLee Saxenian che, dopo aver studiato le differenze tra l’area di Boston, espressa dalla Route 128 e dalla presenza di atenei come MIT e Harvard, e la Silicon Valley, attribuì negli anni Novanta allo scarso enforcement dei patti di non concorrenza tra lavoratori e imprese da parte delle autorità californiane il vantaggio di quest’ultima. Grazie a quest’elemento, si poteva lasciare un’impresa dalla sera alla mattina senza disperdere il patrimonio di know-how di cui si era in possesso ma portandolo in dote a partire dal giorno successivo alla nuova realtà che si era deciso di costituire o di raggiungere, nel caso fosse già esistente. È tra l’altro quanto accade ancora oggi con le campagne acquisti a suon di milioni e a volte addirittura miliardi di dollari che le principali aziende tecnologiche stanno realizzando per accaparrarsi i migliori informatici specializzati in intelligenza artificiale.
E in effetti la capacità di attrarre i maggiori talenti è una caratteristica essenziale del successo del modello americano e in particolare della Silicon Valley. Come ben scrive Gul, mentre “la Cina sceglie il suo stock di talenti da un miliardo di persone, gli Stati Uniti lo fa da otto miliardi”, in altre parole dall’intera popolazione mondiale.
La regressione Usa nell’apertura ai talenti
Un vantaggio enorme non solo rispetto alla Cina ma a qualsiasi altro Paese che, con buona dose di autolesionismo, l’attuale amministrazione americana sta mettendo in serio pericolo per la prima volta nella sua storia. Il libro non registra queste ultime tendenze ma, citando un altro presidente repubblicano, rende evidente l’evoluzione o per meglio dire la regressione che gli USA stanno vivendo. In un discorso pronunciato pochi giorni prima di concludere i suoi due mandati alla Casa Bianca, un altro presidente repubblicano, Ronald Reagan, disse tra l’altro che “mentre altri paesi si aggrappano al passato stantio, qui in America diamo vita ai sogni. Creiamo il futuro, e il mondo ci segue verso il domani. Grazie a ogni ondata di nuovi arrivi in questa terra di opportunità, siamo una nazione per sempre giovane, per sempre traboccante di energia e nuove idee, e sempre all’avanguardia, sempre a guidare il mondo verso la prossima frontiera. Questa qualità è vitale per il nostro futuro come nazione. Se mai chiudessimo la porta ai nuovi americani, la nostra leadership nel mondo andrebbe presto perduta”.
I modelli di successo internazionali nell’innovazione
In effetti, nella sua indagine nei tanti luoghi dell’innovazione che provano ad emulare la Silicon Valley, Gul mette in risalto come la capacità di attrarre talenti sia un fattore essenziale di successo. Specie per Paesi che non hanno un bacino di un miliardo e oltre dal quale attingere. È il caso ovvio del Regno Unito che anche grazie alla lingua e alle sue istituzioni accademiche di primissimo livello è la principale destinazione internazionale dopo gli USA per gli studenti di tutto il mondo. Anche se il modello britannico ha disparità regionali perfino superiori a quelle di Germania e Italia, essendo totalmente o quasi sbilanciato sull’area londinese.
Per rimanere in Europa (ma purtroppo fuori dalla UE) anche il modello di innovazione svizzero si basa su una profonda internazionalizzazione, che ha portato a un sistema accademico di eccellenza a livello internazionale e che ha contribuito al successo di numerose grandi imprese, a partire da quelle farmaceutiche.
Ma anche andando fuori dall’Europa, ad esempio Singapore e Canada hanno avuto più successo di tanti altri Paesi perché sono stati in grado di attrarre talenti da fuori. Singapore tra l’altro ha la particolarità di averli assunti in grandi quantità nella pubblica amministrazione, rendendola una fucina di innovazione, al servizio dei propri cittadini.
Il Canada ha invece ospitato per decenni (e continua per inciso a farlo) tre dei migliori scienziati al mondo nell’IA e attorno a loro, il britannico Geoffrey Hinton, il franco-canadese Yoshua Bengio e l’americano Richard Sutton, ha creato altrettanti poli di ricerca a Toronto, Montreal ed Edmonton che a loro volta hanno gemmato un ecosistema di prima grandezza. Nonostante i tanti casi di successo citati, che si estendono anche a Germania, Svezia, Corea del Sud e ovviamente Cina, dal libro di Gul si trae la conclusione che la Silicon Valley difficilmente potrà essere soppiantata a breve, anche perché molti degli ecosistemi nazionali citati, pensiamo in particolare alla Corea del Sud e alla Svezia, si sono affermati in collaborazione più che in competizione con la Silicon Valley, di fatto contribuendo ad aumentarne il primato.
La Cina degli ingegneri contro l’America degli avvocati
Prima di tornare all’Europa e ai contenuti del discorso di von der Leyen, è opportuno spendere qualche parola in più sulla Cina e sulla competizione con gli USA, oggetto di un altro libro pubblicato ad agosto e che sta facendo molto discutere gli esperti americani.
Breakneck, in italiano “a rotta di collo”, è il titolo molto efficace del volume di Dan Wang, un esperto di tecnologie che ha la particolarità di essere nato in Cina da genitori cinesi, con i quali si è emigrato da bambino prima in Canada (non a caso) e poi negli USA dove ha fatto tutto il percorso scolastico e universitario. Dopo essersi laureato e alcune prime esperienze professionali negli Stati Uniti, Wang è tornato in Cina, abitando per sei anni tra Hong Kong, Pechino e Shanghai. Nel suo libro, racconta la velocità della trasformazione cinese vissuta in presa diretta, sia rispetto ai suoi ricordi di infanzia che agli anni vissuti sul posto. E fondati soprattutto sulla capacità di costruire e di farlo in tempi strabilianti.
Per illustrare la differenza tra Stati Uniti e Cina Wang fa l’esempio dell’alta velocità. Nel 2008, gli elettori californiani hanno approvato la proposta di un collegamento tra San Francisco e Los Angeles, da costruire con finanziamenti pubblici. Sempre nello stesso anno sono iniziati i lavori sulla tratta ferroviaria tra Pechino e Shanghai, di lunghezza analoga a quella californiana (circa 800 miglia). Fatto sta, mentre i cinesi dopo soli tre anni hanno inaugurato la nuova linea al costo di 36 miliardi di dollari, dopo quasi venti anni gli americani sono ancora alle prese con un tratto sperduto della valle centrale californiana e nel frattempo i costi dell’intera tratta, che a questo punto non si sa se verrà mai completata, sono lievitati alla cifra astronomica di 128 miliardi di dollari.
Limiti e potenzialità dell’innovazione cinese
Questo è solo un esempio della differenza profonda tra Cina e Stati Uniti che Wang coglie nel tratto ingegneristico che prevale nella prima e in quello giuridico della seconda, dove gran parte del ceto politico è rappresentato da avvocati. L’uno, ingegneristico, orientato al risultato, il secondo, giuridico, al processo fatto di contenziosi legali e di veto power, esercitato peraltro dalla parte più abbiente della società a danno di quella più povera.
Come dimostra la difficoltà che spesso diventa impossibilità a costruire nuove case in molti mercati immobiliari statunitensi, a fronte di una domanda in aumento e che porta a costi delle abitazioni in aumento. Questa stessa tendenza è alla base del declino manifatturiero di un Paese che a cavallo delle due guerre mondiali era la fabbrica del mondo. Oggi quel ruolo è saldamente in mani cinesi, insieme a una serie praticamente infinita di primati. Naturalmente Wang non sottace come la logica ingegneristica esercitata dalla classe dirigente cinese, la cui netta maggioranza, a partire dallo stesso Xi Jinping, ha appunto quel background di studi, traslata in alcune aree e senza controllo democratico produca frequentemente vere e proprie aberrazioni, come la politica del figlio unico e le strategie zero covid in epoca più recente. E d’altronde, come scrive anche Mehran Gul, mentre la Cina ha dimostrato grande capacità e soprattutto velocità di costruzione e adozione a partire da invenzioni provenienti da altri (è il caso del 5G o delle tecnologie pulite ma anche dell’IA), gli Stati Uniti (ma anche altri Paesi) la precedono sul piano dell’innovazione radicale. Come testimonia il numero di Premi Nobel. Quella cinese è un’innovazione finora soprattutto incrementale ma non per questo si può sottovalutare o sminuire. Peraltro sia Gul che Wang sostengono come alla lunga anche quest’ultimo limite potrebbe cadere.
Le barriere interne che frenano l’Europa
In tutto questo, l’Europa non riesce a essere neppure la somma degli Stati membri che la compongono. Non solo infatti non c’è un vero mercato unico, come ha ammesso nel suo discorso la stessa presidente della Commissione, citando i dati disarmanti del Fondo monetario, che ha calcolato in uno studio della fine del 2024 come le barriere non tariffarie interne all’UE fossero in media del 45% per i beni e del 110% per i servizi (altro che il 15% di dazi americani, insomma). Non soltanto manca una politica industriale unitaria ma al suo posto stiamo creando una miriade di strumenti sostanzialmente spuntati, privi delle risorse e del coraggio necessari per renderli efficaci. Per questo, più che dal discorso di von der Leyen, che è generalmente condivisibile ma purtroppo lacunoso nella misura in cui non sfida né pungola davvero gli Stati membri verso una strategia di cooperazione e condivisione degli investimenti nelle tecnologie chiave, i maggiori segnali di speranza vengono da due novità degli ultimi giorni, oltre che dalle contraddizioni comunque evidenti dei due Paesi leader (sottolineate sia da Gul che da Wang).
Segnali di risveglio: accordi e dichiarazioni strategiche
Da un lato, i leader di 41 aziende e associazioni Ue (tra queste per l’Italia anche Anitec-Assinform) hanno firmato una dichiarazione per chiedere iniziative ambiziose pubblico-private in ambito IA che consentano all’Europa di eccellere con una propria catena tecnologica del valore e dall’altro, in uno sviluppo del tutto non correlato, due dei principali player di questa catena del valore, l’olandese ASML e la francese Mistral, hanno annunciato un accordo nell’ambito del quale la prima è diventata la prima azionista della seconda investendo 1,3 miliardi di euro all’interno del round di finanziamento di 1,7 miliardi di euro.
Si tratta di uno sviluppo importante tra aziende di paesi diversi che occupano evidentemente uno spazio differente nell’ecosistema ma che dimostra anche i possibili scenari di business nella UE. Mistral sta puntando al mercato business, sul quale ha chiuso accordi finora pari a 1,4 miliardi di euro, di cui oltre la metà con soggetti europei (finora prevalentemente francesi).
L’adozione come strategia vincente per l’Europa
Qui vengono in mente due driver importanti sui quali l’Europa può giocare la sua partita nell’IA. In primo luogo, l’adozione è un ambito che viene spesso trascurato a favore dello sviluppo delle tecnologie e in particolare degli LLM. La Cina dimostra come proprio questo ambito sia quello di maggiore competitività. Importante dunque poter disporre di modelli aperti e gratuiti (o poco costosi) che possano essere implementati celermente e su scala. La strategia AI plus cinese punta a un’adozione del 70% entro il 2027 e a oltre il 90% entro il 2030. Sono entrambi numeri al momento molto lontani dalla portata delle aziende europee ma che devono dunque essere perseguiti aggressivamente attraverso una pluralità di strumenti e una strategia coordinata a livello UE.
Inoltre, accordi come quello tra ASML e Mistral ma anche la dichiarazione di aziende e associazioni europee testimoniano come la presenza di grandi imprese UE in settori strategici deve essere utilizzata come leva per aumentare la scala degli investimenti privati, insieme a un sensibile aumento di quelli pubblici (con meccanismi comuni). Se l’Europa riuscisse a fare molto di più e velocemente su questi due versanti vorrebbe dire che la sfida dell’IA e più in generale dell’innovazione potrebbe non essere persa.











