Da un lato Donald Trump, che ha vinto in modo netto il suo secondo mandato alla presidenza degli Stati Uniti, promettendo di ridisegnare il Paese e di consolidarne la leadership in un contesto globale – di crescente complessità e turbolenza – che tende sempre meno ad accettarla (MAGA-Make America Great Again il motto che ha caratterizzato la sua campagna elettorale). E che, fatto non molto frequente nella storia del Paese, gode – anche se di stretta misura – della maggioranza del suo partito sia alla Camera sia al Senato.
Dall’altro le cosiddette Big Tech, in questo articolo the magnificent seven, ovvero le sette imprese tech statunitensi che valgono almeno un trilione di dollari e occupano (Tab. 1) le prime cinque posizioni e le prime sette su otto nella classifica mondiale per capitalizzazione (market cap).
Trump e le “magnificent seven”
Sette imprese con un valore cumulato – 16,7 trilioni di dollari – pari (volendo fornire un ordine di grandezza) al 60 per cento circa del PIL statunitense del 2023 e a oltre sette volte quello italiano: cifre che conferiscono loro non solo un grande peso economico ma anche un grande peso politico, che può essere percepito come una minaccia dal mondo politico in senso proprio e farle oggetto di attacchi diretti pesanti attraverso le authority antitrust. Quale quello con l’accusa di monopolio nel search contro Alphabet-Google, lanciato dalla divisione antitrust del DOJ-Department of Justice ancora durante la prima presidenza Trump, che ha portato il giudice federale dopo un lungo processo a sentenziare l’esistenza del monopolio stesso e il DOJ di Biden a richiedere addirittura fra i cosiddetti rimedi lo scorporo di Chrome da Google: una misura di estrema gravità, che ci riporta a quella sentenziata contro Microsoft quasi un quarto di secolo fa (ma poi scongiurata dopo un lungo ricorso).
Continuerà l’attacco pesante alle Big Tech, portato avanti – spesso con acrimonia – durante la presidenza Biden da Lina Khan (Federal Trade Commission) e Jonathan Kanter (DOJ), oppure Trump vedrà le Big Tech non tanto (o solo parzialmente) come potenziali nemici interni, ma piuttosto come strumento per consolidare/rafforzare la leadership statunitense nel mondo, o almeno nelle aree ove esse hanno la possibilità di operare? È una domanda cui è tutt’altro che facile dare risposte attendibili, per i segnali contradditori che emergono sia dagli interventi di Trump e di membri del suo entourage sia dalle nomine nei posti chiave fatte o attese (ne ho trattato recentemente in un articolo su Megatrends, il supplemento annuale della Harvard Business Review Italia dedicato agli scenari futuri). E su cui peraltro – come spesso accade nella realtà statunitense – potrebbero esserci atteggiamenti anche molto differenziati, basati sulle tipologie di attività delle singole imprese (più o meno impattanti sul dibattito interno e/o più o meno rilevanti per i riflessi sul potenziale bellico) e sui Paesi ove esse operano, piuttosto che su intrecci di interessi e/o rapporti di amicizia (il caso Elon Musk è sintomatico a tale proposito).
Scelte antitrust e geopolitiche: il possibile impatto
C’è un altro fattore però da tenere in considerazione, a fianco dello scontro di potere e delle possibili misure antitrust. È l’impatto che
- misure di carattere generale, quali l’inasprimento dei dazi alle importazioni (come quello di recente annunciate nei riguardi di Messico, Canada e Cina) o l’allargamento dei divieti di vendita ai Paesi “nemici o potenziamente tali” di beni e servizi utilizzabili per finalità belliche (quali i microprocessori più avanzati per la messa a punto di modelli di Intelligenza Artificiale generativa),
- insieme con le possibili/probabili misure di ritorsione da parte dei Paesi colpiti,
potrebbero avere per imprese per loro natura multinazionali come le Big Tech.
L’inasprimento dei dazi alle importazioni statunitensi da parte di determinati Paesi ha effetti complessi e non tutti immediatamente visibili.
Esso colpisce le importazioni dirette (la Fig. 1 ci mostra come le tariffe sull’import dalla Cina introdotte durante la prima presidenza Trump, e lasciate in vita da Biden, abbiano fatto del Messico il principale Paese esportatore negli US), ma si creano flussi alternativi.
La cinese BYD, al momento concorrente numero uno di Tesla sul mercato mondiale, vorrebbe ad esempio aprire uno stabilimento in Messico per produrre con batterie e altri componenti critici provenienti dalla Cina – quindi sostanzialmente assemblare – auto elettriche da vendere sul mercato statunitense, aggirando le proibitive barriere esistenti: creando un forte imbarazzo al governo messicano, desideroso da un lato di favorire gli investimenti esteri ma timoroso dall’altro di ritorsioni da parte di Trump (The Wall Street Journal, “Mexico Gets Cold Feet Over New Chinese EV Plant After Trump Win – Officials fear provoking Trump if BYD gets clearance to build autos south of U.S. border”, 26 novembre).
L’inasprimento dei dazi doganali colpisce d’altra parte le imprese statunitensi per cui l’importazione di beni cinesi ha un impatto fondamentale sul business: quali ad esempio (Fig. 2) quelle di batterie, indispensabili per la loro qualità, i cui dazi – in assenza di esenzioni – vengono scaricati sugli acquirenti di auto elettriche o ne scoraggiano gli acquisti.
Le esenzioni/eccezioni al pagamento dei dazi, tradizionalmente distribuite con totale discrezionalità e senza possibilità di appello da chi vince le elezioni, rappresentano a loro volta un ulteriore elemento di distorsione del mercato interno e internazionale e di ulteriore allontanamento da quella idea di mercato globale competitivo verso cui il mondo sembrava dirigersi alla fine del secolo scorso con l’idea di globalizzazione.
La crescente tensione con la Cina, in particolare, può mettere in difficoltà imprese statunitensi che hanno in Cina una parte rilevante delle loro attività di manufacturing, gestite con subsidiary locali o attraverso contractor, e/o un mercato di sbocco rilevante dei loro prodotti.
Fra le magnificent seven è il caso principalmente di Apple e di Tesla.
Apple ad esempio, che
- ha tuttora in Cina, nonostante alcune diversificazioni localizzative più recenti, la maggior parte delle attività di manufacturing dei suoi prodotti (facenti capo al suo principale fornitore/contract manifacturer taiwanese Foxconn), e
- ha la Cina come uno dei più rilevanti mercati di sbocco,
si è ritrovata, nonostante i rapporti di lunga data di Tim Cook con i vertici cinesi, davanti a una serie di rallentamenti nel processo di approvazione per l’inserimento della Apple Intelligence negli iPhone che vende in Cina: spiegata poi a FT da un alto funzionario dell’amministrazione, che ha reso esplicita la scelta che “i gruppi esteri come Apple saranno sottoposti a un processo di approvazione lungo e complesso se vogliono utilizzare i propri modelli di IA e che viceversa l’opzione migliore per loro è quella di avvalersi di partner locali” (FT, “Apple hits hurdles in China with AI rollout for iPhones -Official at top regulator says path to approval will be easier if US tech group finds local partners”, 26 novembre).
Una causa per lo meno concomitante potrebbe essere la riemersione di Huawei come competitore, con i suoi modelli collocati nella fascia alta di mercato, degli iPhone di Apple: Huawei, che dopo il bando statunitense a operare negli US e/o a cooperare con imprese statunitensi, si era trovato a non avere più accesso alle versioni aggiornate di Android, ha messo a punto un suo sistema operativo (apparentemente di livello qualitativo alto) che probabilmente entrerà in competizione con Android nei Paesi – a partire da quelli asiatici – ove Huawei non è inibita a operare (ricordo che l’altro grande sistema operativo, l’iOS, è riservato da Apple ai soli iPhone).
I conflitti interni sulla scelta delle persone cui affidare le posizioni chiave
Tornando alla domanda posta all’inizio, su quale sarà l’atteggiamento dell’amministrazione Trump verso le Big Tech in questo suo secondo mandato, da cosa nascono i dubbi che ripetutamente appaiono nella grande stampa internazionale?
The New York Times, sicuramente non vicino a Trump, ha sostenuto recentemente che è inutile prevedere quale sarà la sua linea di azione futura, perché facilmente cambia posizione anche su temi di grande rilevanza (“Tech Giants Face a Familiar Uncertainty With Trump – Apple, Amazon, Google, Meta and others learned during the last Trump administration to expect the unexpected when it came to Washington scrutiny and support”, 7 novembre). E ha sottolineato i pericoli che tale instabilità e l’incertezza da essa generata possono comportare per un insieme di imprese che
- ha un ruolo centrale nella vita delle persone: nei loro acquisti, nel modo in cui comunicano, nel loro accesso all’informazione online,
- investe miliardi di dollari nelle tecnologie esistenti e in quelle nuove, in particolare in questa fase nell’intelligenza artificiale,
- si colloca nel mezzo di uno scontro geopolitico con la Cina e con altri Paesi per la supremazia tecnologica.
Le prime indicazioni nasceranno dalle nomine in corso in questi giorni, che vedranno un confronto non solo fra Trump e il suo entourage e i senatori che devono confermare le nomine, ma anche all’interno del suo entourage più stretto: composto da persone scelte per la loro fedeltà, ma non necessariamente con interessi allineati sui diversi temi.
Sul tema antitrust, ad esempio, vitale per le Big Tech, i responsabili delle due authority antitrust Lina Khan (Federal Trade Commission) e Jonathan Kanter (DOJ) verranno sicuramente sostituiti, ma radicalmente diverso è il giudizio – sull’operato in particolare della Khan – fra Elon Musk e il vicepresidente eletto JD Vance, che vedrebbe volentieri designata a succederle una persona che ne condivida la linea.
Perché questo favore? L’interpretazione che ho trovato più interessante è quella della contrapposizione esistente nel mondo statunitense fra Big Tech e Little Tech, fra il mondo delle grandi imprese e quello del venture capital – di cui Vance ha fatto parte sino all’entrata in politica e che ha spinto per la sua designazione a vicepresidente – che non sempre le vede con grande amore, per lo spazio che tolgono alle piccole e/o per i pochi margini che lasciano loro in presenza di rapporti cliente-fornitore.
Nel frattempo, dopo il forzato ritiro (per ragioni del tutto diverse) del primo candidato, è stata designata alla testa del DOJ Pam Bondi, “attorney general” della Florida dal 2011 al 2019 e successivamente entrata a far parte di una grossa società di lobbying di fede repubblicana, dove ha seguito gli interessi di imprese quali Amazon, GM e Uber e del Katar. Sull’altro tema di grande rilievo per le magnificent seven, quello delle regole da porre o meno allo sviluppo dell’intelligenza artificiale generativa, è probabile che prevalga (seppur con qualche limite) il tradizionale approccio statunitense – del tutto opposto a quello europeo – di lasciare che l’IA si sviluppi per poi correggerne a posteriori i possibili/probabili effetti negativi.