Quando si parla di intelligenza artificiale (IA), Stati Uniti e Unione Europea si presentano al mondo come i principali alfieri di un approccio democratico e responsabile di questa nuova e strategicamente rilevante tecnologia.
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Usa e Ue: alleati, ma non allineati
Entrambi vedono nell’IA un motore di crescita economica, innovazione industriale, trasformazione dei servizi pubblici e strumento cruciale di sicurezza nazionale. Entrambi dichiarano, inoltre, di voler guidare la definizione delle regole globali, proponendo modelli di IA aperti e rispettosi dei diritti, in grado di opporsi ai sistemi autoritari di sorveglianza digitale.
Eppure, dietro questa retorica comune, il recente report dell’Atlantic Council mette in luce una realtà molto più complessa: Stati Uniti ed Europa appaiono sempre più divisi sulle modalità con cui perseguire gli stessi obiettivi. È una frattura che non nasce da contrasti di valori, ma da divergenze normative, economiche e geopolitiche, aggravate da dipendenze tecnologiche e da approcci differenti alla gestione del rischio. Una divisione che rischia di compromettere la possibilità di un fronte occidentale unito proprio mentre la Cina accelera il suo piano “AI Plus” per colonizzare industria e servizi pubblici con applicazioni di IA.
Due visioni normative inconciliabili
La prima faglia riguarda la filosofia normativa. L’Europa si presente come forte regolatrice dell’utilizzo dell’intelligenza artificiale. Con l’AI Act, Bruxelles ha introdotto il primo quadro legislativo vincolante sull’IA al mondo. L’approccio europeo classifica i sistemi in base al livello di rischio (inaccettabile, alto, limitato, minimo), imponendo obblighi stringenti per quelli considerati più pericolosi. L’obiettivo dichiarato è duplice: tutelare i diritti fondamentali dei cittadini e creare fiducia nell’adozione della tecnologia. È il proseguimento di una tradizione che ha già prodotto norme globalmente influenti come il GDPR. L’America ha un approccio orientato al pragmatismo: Washington rimane fedele alla filosofia della deregolamentazione. Sia sotto Biden che sotto Trump, la scelta è stata quella di lasciare ampio spazio alle aziende private, introducendo solo cornici volontarie come il framework del NIST. Negli USA prevale l’idea che l’innovazione debba correre senza freni e che eventuali rischi possano essere gestiti a posteriori con meccanismi settoriali. Queste differenze culturali fanno sì che, anche quando UE e USA concordano sugli obiettivi (sviluppare un’IA sicura e affidabile), le strade intraprese risultino divergenti. Per Bruxelles, la priorità è garantire un ecosistema “trustworthy”. Per Washington, la priorità è non rallentare la corsa globale.
La dimensione economica: Davide contro Golia
Se il quadro normativo divide, il piano economico amplia enormemente la distanza. Gli Stati Uniti, come risulta noto, sono dominati dalla potenza del capitale privato: nel 2025, gli investimenti americani in IA hanno superato centinaia di miliardi di dollari, spinti da venture capital record e piani industriali delle big tech.
Microsoft, da sola, ha annunciato di destinare 80 miliardi di dollari per finanziare la costruzione di molteplici data center dedicati all’IA. L’intera area di aziende ubicate nella Silicon Valley continua ad investire nella ricerca di talenti, capitali e infrastrutture in misura ineguagliabile.
L’Europa, al contrario, è costretta a fronteggiare i problemi derivanti dai vincoli fiscali: il bilancio comunitario ammonta a circa l’1% del PIL europeo, con regole che limitano deficit e debito degli Stati membri. Il Recovery Fund, che rappresenta il principale volano degli investimenti, è destinato ad esaurirsi nel 2026. Se Bruxelles sta negoziando il prossimo bilancio settennale e ha addirittura proposto un Fondo per la competitività, le cifre ipotizzate restano molto distanti da quelle americane.
In questo scenario, la Cina rappresenta il terzo “attore protagonista” su base mondiale. Pechino, pur essendo rallentata da un calo della domanda esterna, continua ad investire in modo massivo e centralizzato nello sviluppo di piattaforme di intelligenza artificiale. Anche se le somme effettivamente stanziate non raggiungono quelle statunitensi, la capacità di indirizzo politico e le potenzialità dell’infrastruttura tecnologica cinese, rappresentano uno straordinario vantaggio competitivo per la Cina. Se il concetto di “sovranità digitale” è diventato un mantra nelle istituzioni europee, di certo non assume la connotazione di un obiettivo realistico da raggiungere.
Basti considerare che nel 2025 gli USA hanno prodotto 40 grandi modelli di IA, la Cina 15, l’UE solo 3. Le aziende europee dipendono da piattaforme e modelli americani, senza alternative competitive. I dati di seguito elencati ne sono la riprova:
- Cloud: il 70% dei servizi digitali europei si basa sui tre hyperscaler statunitensi (Amazon, Microsoft, Google).
- Hardware: meno del 10% della produzione globale di semiconduttori è europea. I chip più avanzati sono progettati negli USA e fabbricati in Asia, mentre per i minerali critici l’UE dipende in larga parte dalla Cina.
- Gigafactory per l’IA: Bruxelles ha annunciato 20 miliardi per costruire infrastrutture di calcolo autonome, ma si tratta di progetti a lungo termine, che non risolvono la dipendenza immediata.
In sostanza, la sovranità digitale europea resta più un obiettivo politico che una realtà industriale. Il risultato finale è che l’Europa, sul piano tecnologico, rischia di assumere il ruolo di “fanalino di coda” del pianeta.
Altro terreno di grande divergenza è raffigurato dalla percezione geopolitica della Cina. Per Washington, Pechino rappresenta sempre il suo rivale sistemico. Ogni strategia americana sull’IA è concepita anche come una risposta alle mire espansionistiche della Cina su diversi fronti, come il rafforzamento delle catene di approvvigionamento alla diplomazia tecnologica per isolare i rivali. Per Bruxelles, la Cina è un partner scomodo ma indiscutibilmente necessario. Nei documenti ufficiali europei Pechino è citata marginalmente, con un approccio che riflette la volontà di non chiudere spazi commerciali. Questa differenza rischia di creare frizioni diplomatiche: l’UE punta a mantenere equilibri, gli USA a rafforzare il contenimento.
Le sperimentazioni: dal settore finanziario a quello dell’approvvigionamento tecnologico
Anche il settore dei servizi finanziari assume la connotazione di un terreno in cui il divario regolatorio si manifesta con maggiore evidenza. Negli USA, banche come JPMorgan o Bank of America hanno già centinaia di casi d’uso di utilizzo dell’IA in produzione, dall’analisi dei rischi alla customer care.
L’approccio volontario consente di innovare rapidamente. In Europa, l’AI Act impone classificazioni “alto rischio” per molte applicazioni finanziarie e ciò rende difficoltoso il suo utilizzo. Ciò significa obblighi di test, documentazione, accountability a livello di board. Il risultato è un’adozione più lenta e costosa.
Il settore finanziario, ma è solo un esempio, dimostra come la regolazione possa influenzare direttamente la competitività di interi comparti. Negli ultimi anni abbiamo compreso come l’IA non rappresenti solo un problema di sviluppo di algoritmi, ma soprattutto di catene di approvvigionamento e di lungimirante gestione della diplomazia.
Se l’amministrazione Biden aveva imposto restrizioni all’export di chip avanzati, colpendo anche partner europei, con quella di Trump, abbiamo assistito ad un cambio di rotta sostanziale: sono stati stipulati accordi commerciali che prevedono l’acquisto da parte dell’UE di 40 miliardi di chip statunitensi.
L’Europa, ancora una volta, è costretta ad adattarsi a decisioni che impongono visioni spesso incoerenti, oscillando tra restrizioni e obblighi di acquisto. Un ulteriore fattore destabilizzante è l’incertezza interna agli Stati Uniti. Se Biden puntava sulla cooperazione multilaterale e sul controllo dell’export, Trump privilegia deregolamentazione e accordi bilaterali, e ciò rende difficile per l’Europa pianificare un percorso stabile di collaborazione.
Un futuro incerto e a geometria variabile
La grande domanda è se Stati Uniti ed Europa riusciranno a convergere su una strategia comune. Le basi ci sono: valori condivisi, obiettivi simili, interdipendenza economica, ma le differenze – normative, economiche, geopolitiche – restano profonde. Lo scenario più probabile non è quello di una piena integrazione, ma di una cooperazione selettiva: collaborazione su standard globali, catene di approvvigionamento sicure, ricerca congiunta; divergenza su regolazione interna, ritmo di adozione e approccio alla Cina. L’intelligenza artificiale non è solo una tecnologia, ma la nuova infrastruttura del potere globale. In questo contesto, l’incapacità dell’Occidente di parlare con una sola voce rischia di offrire a Pechino un vantaggio prezioso. Il paradosso è tutto qui: mai come oggi Stati Uniti ed Europa hanno avuto bisogno l’uno dell’altra, eppure mai come oggi appaiono così divisi sul futuro dell’IA.












