Lo scorso venerdì 10 ottobre abbiamo assistito ad un crollo crypto senza precedenti, stimato pari a 25 miliardi di dollari, che ha segnato la più grande distruzione di valore in 24 ore nella storia del mercato[1].
Alcuni dati significativi per comprendere la dimensione dell’evento[2]: Bitcoin ed Ethereum scesi del 12-15%, alcune altcoin con perdite sino all’80%, e in generale una perdita complessiva di nove volte superiore al crollo di febbraio 2025 e diciannove volte superiore al collasso di FTX nel novembre 2022, con circa 19 miliardi di dollari di posizioni in leva liquidate. Una Caporetto cripto in piena regola, insomma.
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La scintilla geopolitica: dazi e terre rare
Tutto è iniziato giovedì 10 ottobre, data in cui la Repubblica Popolare Cinese ha dichiarato l’intenzione di imporre una stretta all’esportazione delle terre rare, di cui è praticamente monopolista, e la reazione di Donald Trump non si è fatta attendere (comme d’habitude, verrebbe da dire): il giorno successivo il presidente USA ha infatti minacciato, con un messaggio sui social, di imporre dazi fino al 100% sull’import cinese a partire dal 1° novembre. Una notizia del genere ha generato il panico fra gli investitori di tutto il mondo (indotti, in casi come questo, ad abbandonare gli asset percepiti come a più alto rischio) e di conseguenza i principali mercati, finanziari e non, hanno subito forti perdite.
L’impatto immediato sul mercato crypto
Tra tutti i mercati, è stato quello crypto ad aver subito ripercussioni più gravi, un vero e proprio “flash crash”. Negli USA, venerdì mattina BTC era ancora scambiato a 122.000 dollari, e l’annuncio di Trump ha portato in poche ore il prezzo a 102.000 dollari – quindi circa 20.000 dollari di perdita in un singolo giorno.
Diverse le cause di questo ribasso rapidissimo. Un fattore può essere individuato nel fatto che, essendo l’annuncio di Trump avvenuto il venerdì pomeriggio, l’impatto è stato maggiore dato che in genere c’è meno operatività e liquidità sui mercati (e i mercati finanziari tradizionali erano già chiusi, peraltro). Ma sicuramente la causa principale dell’effetto domino che si è generato in ambito cripto è stata l’utilizzo eccessivo, se non estremo, della leva finanziaria su Bitcoin e su altre criptovalute da parte degli investitori.
Come funzionano le posizioni in leva
Come può l’utilizzo della leva comportare un crollo così improvviso? Occorre innanzitutto capire come viene usata la leva finanziaria in questo contesto, e conviene aiutarsi con un esempio – una semplificazione, ovviamente, ma che ci può far comprendere i tratti essenziali di ciò che è avvenuto.
Immaginiamo che il prezzo di Bitcoin (BTC) sia di 120.000 dollari e che Tizio, un investitore, decida di scommettere sul suo rialzo. Tizio non può comprare, ad esempio, un bitcoin intero, perché ha solo 1.000 dollari di capitale, ma è assolutamente convinto del rialzo di Bitcoin e quindi è anche disposto a rischiare di più.
Di conseguenza, Tizio utilizza la leva finanziaria offerta da un exchange di criptovalute: con soli 1.000 dollari di capitale proprio può aprire una posizione da 10.000 dollari, grazie a una leva 10x (cioè, che amplifica di 10 volte le variazioni di valore di Bitcoin). In pratica, l’exchange gli “presta” il resto.
Finché il prezzo sale, la leva moltiplica i guadagni. Se BTC passa da 120.000 a 126.000 dollari (+5 %), la posizione da 10.000 dollari guadagna 500 dollari, che equivalgono a un profitto del 50% sul capitale iniziale di 1.000 dollari. Fino a qui tutto bene, anzi benissimo (ed è poi sostanzialmente quello che è successo negli anni di rialzo dei prezzi).
Il problema nasce quando il prezzo scende. Una flessione del 5 % (da 120.000 a 114.000 dollari) riduce il valore della posizione a 9.500 dollari. La perdita è di 500 dollari, pari al 50 % del capitale investito. Ma anche fin qui, Tizio rimane “in gioco”, almeno fintantoché non decide lui di disinvestire.
Se invece il prezzo scende del 10%, passando ad esempio da 120.000 a 108.000 dollari, il valore della posizione di Tizio scende a 9.000 dollari: la perdita è di 1.000 dollari, cioè tutto il capitale iniziale. A quel punto l’exchange chiude automaticamente la posizione di Tizio — è la cosiddetta liquidazione forzata — per evitare che Tizio perda più di quanto possiede.
L’effetto domino delle liquidazioni forzate
Dall’esempio sopra presentato, si evince chiaramente come l’effetto di un ribasso di prezzo, in presenza di molte posizioni in leva, inneschi un meccanismo automatico e piuttosto rapido: una sorta di valanga in cui il primo “scivolone” di prezzo trascina tutto il resto.
Infatti, se moltiplichiamo la dinamica di Tizio per centinaia di migliaia di trader in tutto il mondo, tutti con posizioni a leva simili, basta che il prezzo scenda rapidamente di qualche punto percentuale per innescare un effetto domino:
- le prime liquidazioni forzate immettono ordini di vendita sul mercato;
- queste vendite abbassano ulteriormente il prezzo;
- la discesa genera nuove liquidazioni, con una spirale ribassista difficile da arrestare.
I numeri del disastro: 60 miliardi in leva estrema
È proprio quello che, in sintesi, è accaduto venerdì scorso, in un mercato “saturo” di posizioni in leva[3]: come ha spiegato bene Young Platform in un recente post, al momento del crollo su mercato c’erano oltre 60 miliardi di dollari in posizioni futures aperte (e la maggior parte “long”, cioè che puntava sul rialzo dei prezzi), di cui una grande parte (tra il 30% e il 40%) che non si limitava ad una leva 10x come il nostro Tizio, ma utilizzava leve da 20x a 125x[4]. E, in base ai calcoli fatti nell’esempio di cui sopra, con una leva 20x basta un 5% di discesa del prezzo per perdere tutto il capitale.
La cascata di liquidazioni in quattro ondate
Da qui si evince in cosa sia consistito l’effetto domino che ha portato al flash crash:
- appena BTC è sceso del 3-4%, sono “saltate” le posizioni con leva più elevate (quelle da 30x in su) e generano circa due miliardi di vendite forzate;
- le vendite forzate spingono il prezzo ancora più in basso, e scatta il secondo livello di liquidazioni delle posizioni con leva (quelle da 20x in su), che aggiungono altri 5 miliardi di vendite;
- a questo punto, il crollo del prezzo si amplifica e “saltano” anche le posizioni da 10x in su (come quella del nostro Tizio), e questo aggiunge altri 8 miliardi di vendite;
- infine, i sistemi di molti exchange vanno in tilt, travolti dal volume, con rallentamenti, blocchi e caos generale, in cui vengono liquidati ulteriori 4 miliardi.
Le lezioni del venerdì nero: leva e volatilità
Il “venerdì nero” delle criptovalute ha mostrato chiaramente quanto un mercato ancora tutto sommato “giovane” possa essere vulnerabile a dinamiche speculative, automatismi di trading e scarsa gestione del rischio, e ci ha lasciato alcuni insegnamenti di cui sarebbe bene fare tesoro per il futuro.
Il primo insegnamento riguarda senza dubbio la leva finanziaria. Senza dubbio la leva finanziaria nel caso di specie è stata un fattore determinante nell’innescare e nell’amplificare il crollo. Nel lungo ciclo rialzista che ha accompagnato il mondo cripto negli ultimi anni, ci si è progressivamente dimenticati che la volatilità di Bitcoin, delle altcoin e dei criptoasset in generale non è unidirezionale: può amplificare i guadagni, ma può anche moltiplicare le perdite.
Molti investitori sembrano aver interiorizzato l’idea che ogni correzione fosse solo una pausa temporanea in un trend di crescita strutturale. La leva, in questo contesto, è diventata un “acceleratore di euforia”, usata spesso come se il rischio ribasso fosse solo teorico. L’eccessiva esposizione in leva, combinata con l’illusione di un mercato “decorrelato” dall’economia reale, ha reso l’impatto del ribasso esponenziale. È bastato un singolo evento macroeconomico, pur certamente significativo, per trasformare l’inerzia di un trend sostanzialmente rialzista in una reazione a catena di liquidazioni forzate.
Un mercato ancora immaturo ma resiliente
Arriviamo quindi a un altro insegnamento prezioso: non bisogna dimenticare che il mercato crypto non è ancora pienamente maturo, o almeno non lo è in maniera paragonabile ai mercati finanziari “tradizionali”. Né gli investitori né molte piattaforme hanno strutture di gestione del rischio paragonabili a quelle dei mercati regolamentati più consolidati, e questo aumenta la vulnerabilità complessiva del sistema; i problemi che hanno attraversato primari exchange durante e subito dopo il crollo lo evidenziano molto bene.
Una ulteriore conclusione che possiamo trarre – questa volta positiva – è che, nonostante la violenza del crollo, il mercato ha dimostrato una certa capacità di tenuta. A distanza di una settimana, al 18 ottobre, Bitcoin non ha ancora recuperato i livelli precedenti, ma ha comunque mostrato una certa resilienza: il prezzo si è stabilizzato e il mercato, pur scosso, non è collassato. Questo dimostra che l’ecosistema, pur ancora giovane, è più solido di quanto non fosse nei momenti più critici del passato – segno che il sistema si sta evolvendo, anche attraverso le sue crisi.
Verso un mercato più consapevole
In definitiva, la lezione è duplice: da un lato serve maggiore consapevolezza sul rischio e sulla leva, dall’altro il “venerdì nero” mostra che il settore sta lentamente imparando a convivere con la propria volatilità. Se da questo episodio nascerà una riflessione più matura su rischio, leva e liquidità, potrà rappresentare un passo avanti verso un mercato più consapevole ed efficiente.
Note
[1] N. Bond, The $25 Billion Crypto Crash: A Market in Turmoil, Binance Square, 14 ottobre 2025
[2] Dati tratti da G. Avolio, USA, Cina e liquidazioni crypto: cos’è successo?, Young Platform Blog, 14 ottobre 2025
[3] Per completezza si osserva che non tutte le posizioni in leva funzionano come quella rappresentata nell’esempio precedente, ma per semplicità si è scelto di non effettuare ulteriori distinzioni.
[4] Dati tratti da Young Platform e pubblicati su Instagram il 13 ottobre scorso.











