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Social dai 16 anni: l’Europa valuta, l’Australia lo fa. Tutto bene?



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Il Parlamento europeo spinge verso una soglia unica a 16 anni per l’accesso ai social, tra armonizzazione normativa e protezione dei minori, con il nodo delle verifiche d’età e della privacyIl confronto con l’Australia, dove il divieto è già legge, mette in luce difficoltà tecniche, contestazioni giuridiche e possibili effetti sociali inattesi

Pubblicato il 12 dic 2025

Marco Martorana

avvocato, studio legale Martorana, Presidente Assodata, DPO Certificato UNI 11697:2017



social 16 anni

La recente proposta del Parlamento europeo di fissare sedici anni per accedere ai social segna una svolta nella regolazione digitale dei minori.

Si inserisce in una tendenza globale, però. Dal 10 dicembre l’Australia è il primo Paese al mondo ad applicare il limite di 16 anni per l’accesso ai social.

Il confronto con il modello australiano, già in vigore, illumina possibilità e limiti di un approccio centrato sul divieto.

L'Australia vieta i social ai minori di 16 anni, le reazioni in Italia - 1mattina News 10/12/2025

Si apre così un dibattito che va oltre la tecnica normativa e coinvolge diritto, pedagogia e società, interrogando il modo in cui stiamo costruendo la futura cittadinanza digitale.

L’ondata normativa che attraversa l’Europa nasce da un presupposto tanto semplice quanto inquietante: i minori non sono soltanto fruitori di contenuti online, ma sono divenuti oggetto di design, bersaglio di algoritmi di ottimizzazione e soggetti esposti a pressioni digitali strutturalmente più grandi di loro.

Con questa consapevolezza il Parlamento europeo ha approvato una risoluzione che propone una soglia uniforme di 16 anni per l’accesso ai social, salvo eccezioni tramite consenso genitoriale. Accanto a questa proposta, l’esperienza australiana offre una rappresentazione concreta di cosa accade quando il divieto diventa realtà normativa cogente.


Perché l’accesso ai social a 16 anni entra nell’agenda europea

A prima vista, la risoluzione europea sembra l’ennesimo intervento di regolazione del digitale. Eppure, a uno sguardo più penetrante, essa si inserisce in un quadro trasformativo che potremmo definire “costituzionale” in senso ampio: ridefinisce i contorni della cittadinanza digitale e la relazione tra minori, piattaforme e istituzioni.

Una soglia uniforme e le lacune del GDPR

L’idea di fissare un’età minima uniforme intercetta una delle lacune del GDPR, il cui articolo 8 aveva delegato agli Stati membri la determinazione dell’età del consenso, con l’esito di una mappa europea irregolare, frammentata, poco comprensibile ai minori e difficilmente applicabile dalle piattaforme multinazionali. Ma la risoluzione non mira solo all’armonizzazione tecnica: introduce un criterio sostanziale secondo cui non tutto ciò che è tecnicamente accessibile è automaticamente adatto.

Quando il Parlamento europeo denuncia i pericoli dell’infinite scroll, dell’autoplay, delle ricompense intermittenti o delle loot boxes, non sta solo richiamando pratiche manipolative: sta dichiarando che il minore è un soggetto vulnerabile di fronte a dinamiche persuasive che sfruttano debolezze cognitive e maturative fisiologiche. È un passaggio che porta nel diritto un elemento spesso trascurato: la dimensione antropologica dell’infanzia.

Verifica dell’età e tutela della privacy

Il vero nodo, tuttavia, è la proporzionalità. Il limite dei 16 anni è davvero necessario o potrebbe essere sostituito da regole di design più stringenti? La risoluzione risponde implicando che le due cose non sono alternative: il design sicuro è essenziale, ma senza una soglia anagrafica rischia di essere aggirato o svuotato.

È significativo che la risoluzione sottolinei che gli strumenti di age assurance (verifica età online) non possono diventare sistemi di identificazione generalizzata. È una presa di posizione che mostra quanto l’Europa resti fedele alla propria tradizione di tutela della privacy come diritto fondamentale, cercando un equilibrio tra protezione del minore e difesa della libertà dell’individuo di non essere tracciato o profilato.

Il divieto in pratica: il laboratorio australiano tra regole e attriti

Se la proposta europea è ambiziosa, l’Australia ha fatto un passo ulteriore: l’ha trasformata in legge. Nulla più di un’applicazione reale può mostrare punti deboli e potenzialità di una scelta così radicale.

Una norma netta: obblighi, verifiche e sanzioni

L’Online Safety Amendment (Social Media Minimum Age) Act 2024 è una norma semplice nella sua struttura: vieta ai minori di 16 anni di avere account social, impone verifiche obbligatorie, attribuisce responsabilità alle piattaforme, prevede sanzioni enormi e non contempla eccezioni per il consenso dei genitori. Una visione chiara, netta, inequivocabile.

Contestazioni giuridiche e libertà di comunicazione politica

Sotto il profilo giuridico, tuttavia, la norma ha aperto un fronte di forti contestazioni. Reddit ha presentato ricorso alla High Court sostenendo che il divieto viola la libertà implicita di comunicazione politica, principio costituzionale australiano dalla portata ampia, che tutela non solo la libertà di esprimersi, ma anche il diritto della collettività di ricevere informazioni utili alla discussione pubblica.

Per estensione, anche i minori — soprattutto adolescenti — possono essere titolari di tale libertà, poiché partecipano alla conversazione politica online attraverso strumenti come i social media. È un argomento forte e moderno: negare l’accesso ai social significa sottrarre un canale essenziale del discorso pubblico, rendendo talvolta invisibile una fascia di popolazione portatrice di una propria voce civica.

Difficoltà tecniche e conseguenze sociali inattese

Sul piano tecnico, la realtà australiana ha mostrato che i sistemi di verifica dell’età sono molto meno infallibili di quanto si credesse. Ragazzi under-16 che superano age check basati sul riconoscimento facciale; comitive di adolescenti che condividono account; genitori che aiutano i figli a evadere il divieto; comunità che si spostano su piattaforme non regolamentate o su strumenti cifrati.

Ma l’aspetto forse più delicato è quello psicologico e sociale. Per molti giovani, essere esclusi dai social significa sentirsi esclusi da reti di socialità che non sono più semplici ambiti ludici, ma spazi identitari, relazionali, persino formativi. Il rischio è un effetto paradossale: invece di proteggere, si può isolare, spingere verso l’elusione e alimentare sfiducia verso le istituzioni.

Oltre il proibizionismo: proteggere senza disconnettere

Il confronto tra la risoluzione europea e il modello australiano mostra che proteggere i minori online è un’impresa più complessa di quanto spesso si creda. Le norme possono e devono intervenire, ma la loro efficacia dipende da un ecosistema più ampio che comprende educazione, responsabilità delle piattaforme, consapevolezza tecnologica e capacità di adattarsi a un mondo in cui il digitale non è un luogo separato.

La soglia dei sedici anni può essere uno strumento utile, se inserito in una strategia che non demonizzi il digitale, ma insegni a viverlo. Un divieto può contenere alcuni rischi immediati, ma non può insegnare a riconoscere una manipolazione, a gestire un’emozione, a resistere a una pressione sociale, a comprendere la portata di ciò che si pubblica e si condivide.

La vera domanda non è solo a che età si possa accedere ai social, ma che tipo di società vogliamo costruire perché ciò avvenga in sicurezza, con senso critico e dignità. Perché un conto è vietare l’ingresso in un luogo pericoloso; un altro è trasformare quel luogo, renderlo vivibile, e costruire attorno alla vulnerabilità uno spazio non solo protetto, ma anche generatore di opportunità, relazioni e crescita.

La risoluzione europea si muove nella seconda direzione. L’Australia, al momento, nella prima. Il futuro della cittadinanza digitale dei minori probabilmente richiederà una via di mezzo: ferma nella protezione, ma aperta alla comprensione. E soprattutto, profondamente umana.

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