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COP29, il grande stallo: quando la giustizia climatica si scontra con la realtà



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La conferenza di Baku si conclude con risultati deludenti. L’accordo sulle emissioni e il fondo climatico di 300 miliardi di dollari non sono sufficienti per affrontare le sfide globali, lasciando inascoltati i bisogni delle nazioni più vulnerabili

Pubblicato il 25 nov 2024

Mario Di Giulio

Professore a contratto di Law of Developing Countries, Università Campus Bio-Medico Avvocato, Partner Studio Legale Pavia e Ansaldo



cop 29 (1)

Mentre ancora si stava per chiudere la COP 29 (Conference of Parties) sulla lotta al cambiamento climatico a Baku (Azerbaigian), tenutasi dall’11 al 22 novembre, è apparso chiaro quel che molti si aspettavano prima ancora che la conferenza si aprisse: ovvero un sostanziale nulla di fatto sul fronte della riduzione delle emissioni di anidride carbonica e pochi passi avanti in tema di giustizia climatica.

I limiti degli impegni internazionali 

Non basta, infatti, a segnare un significativo passo avanti l’impegno dei paesi dell’Unione europea a ridurre le emissioni, se solo si considera che Cina, Stati Uniti d’America e India pesano rispettivamente per il 24%, l’11,6% e il 6,8% del totale (da sola, l’India supera la produzione complessiva di anidride carbonica degli stati membri dell’Unione europea – dati al 2019).

Mercato delle emissioni e paradossi 

Né può certo considerarsi un successo l’accordo sulla regolamentazione del mercato delle emissioni, volto a creare una sorta di compensazione tra coloro che le producono di più (leggi paesi più sviluppati e paesi emergenti) e coloro che ne producono meno (paesi in via di sviluppo e meno sviluppati). Esso, invero, non appare sufficiente a diminuire la crescita delle emissioni a livello globale, ed ha il solo aspetto positivo di spostare risorse finanziarie dai primi ai secondi, non senza molteplici paradossi (quali i discutibili piani di forestazione delle savane, che portano alla distruzione di culture indigene e la messa a rischio di specie animali, come evidenziato da un recente studio dell’Università di Liverpool).

Fattori politici e atteggiamenti nazionali 

A pesare sui (non) risultati, non è stata, solo e soltanto, la presenza di un convitato di pietra, quale il presidente eletto Usa Donald Trump, che milita nelle file dei negazionisti o, quanto meno, dei minimalisti e, probabilmente, nemmeno il sostanziale disinteresse che la Russia dimostra per il tema.

Contribuisce senz’altro l’atteggiamento non proprio lineare che Cina e India hanno sul tema, che sarebbe errato bollare con un disinteresse alla questione climatica (entrambe le nazioni stanno svolgendo azioni di mitigazione non indifferenti, vedi ad esempio la Cina con il progetto Grande Muraglia Verde per arginare l’avanzata del deserto del Gobi). Esistono infatti ragioni concrete che debbono, almeno per queste due nazioni come per altri paesi emergenti, essere considerate con riferimento all’uso dei combustibili fossili e del carbone in particolare.

L’importanza dei fossili per le economie in via di sviluppo e quelle emergenti

Sebbene la combustione del carbone sia infatti la più nociva sotto il profilo delle emissioni di carbonio, è altrettanto chiaro che essa è lo strumento di più facile accesso per la produzione di energia, della quale non possono fare a meno i paesi in via di sviluppo e quelli emergenti quali la Cina e l’India (solo per dare un’idea, in India la crescita di fabbisogno di energia è stata del 7% nel solo 2023, rispetto a una media mondiale del 2,2%).

Considerare Cina e India quali stati in via di sviluppo può a prima vista apparire singolare, visto che esse sono tra le prime potenze economiche al mondo, ma non lo è se si considera che sono anche le più popolose, con circa 1,4 miliardi di persone ciascuna, e redditi pro capite non elevati o vicini alle soglie di povertà, con la Cina a 12.614 dollari Usa e l’India a 2.484 dollari Usa (entrambi i dati riferiti al 2023).

L’elevata popolazione ci rivela, inoltre, che il peso nella produzione di anidride carbonica assume un diverso rilievo se si va a commisurare a livello pro-capite con un’inversione della gerarchia tra i maggiori inquinatori che vedono –con riferimento al 2019 – primeggiare l’Australia, insieme all’Arabia Saudita e il Canada. Senza volere contare il peso che gli stati occidentali (Stati Uniti in testa) hanno avuto nella produzione dell’anidride carbonica sino a oggi accumulata.

Sfide economiche e sociali delle transizioni energetiche

A pesare comunque sul non abbandono dei carbon-fossili da parte di varie nazioni sono soprattutto motivazioni di carattere economico, infrastrutturale e sociale.

La produzione di energia attraverso la combustione non solo appare meno costosa, ma spesso anche l’unica fonte, non facilmente sostituibile con interventi immediati dal momento che essi richiedono investimenti che si possono recuperare solo nel lungo periodo (a fronte d’impianti che invece sono già esistenti) e che non si limitano ai soli pannelli fotovoltaici e alle pale eoliche, ma anche alle infrastrutture di rete che, al momento, sono connesse alle centrali già presenti e che dovrebbero invece essere ramificate per consentire la distribuzione dell’energia prodotta nei costituendi parchi (siano essi eolici o fotovoltaici).

Al riguardo, occorre ricordare che molti dei paesi africani e altri paesi in via di sviluppo soffrono di interruzioni di energia rilevanti, a partire dal Sud Africa che nel solo 2023 ha avuto interruzioni quasi ogni giorno e sino a 11 ore di interruzione continua.

Interruzioni di energia che hanno ricadute pesanti sull’economia e sulla salute delle persone: anche in questo caso, la transizione verde può aiutare soddisfacendo consumi al di fuori della rete di distribuzione, ma è chiaro che, senza investimenti rilevanti, difficilmente potranno essere soddisfatti i bisogni industriali e quelli delle città.

Impatto umano e storico delle chiusure industriali

Altro aspetto da non dimenticare è poi quello umano, riguardante l’annullamento di posti di lavoro legati all’estrazione del carbone. La chiusura delle relative miniere implicherebbe in varie regioni impatti occupazionali non irrilevanti, con strascichi anche di ordine sociale.

Basta ricordare il Regno Unito degli anni Ottanta del secolo scorso e le proteste dei minatori, quando l’allora primo ministro Margareth Thatcher decise la chiusura di ben venti impianti estrattivi e che portò al licenziamento di 20.000 minatori (accompagnata da 12 mesi di protesta con ben 2 morti e oltre 11.000 arresti).

Venendo all’attualità, nel mondo vi sono intere regioni di paesi in via di sviluppo in cui molti posti di lavoro dipendono dalle attività estrattive, non solo in Cina e India, ma anche in Sud Africa (dove si teme la perdita di ben 100.000 posti di lavoro, in una situazione di degrado sociale che può condurre facilmente a una vera e propria esplosione di una guerra civile) e vari stati del Sud America.

La miopia dell’approccio occidentale

Come per le forestazioni spesso affrontate a tavolino e senza una vera conoscenza delle tematiche sottostanti, l’approccio occidentale al problema lascia a volte attoniti: un esempio tra gli altri, rimanendo in Sud Africa, è la sostituzione, finanziata dalla Banca mondiale, della centrale a carbone di Komati, con impianti eolici e fotovoltaici. Essa ha portato ad una riduzione della capacità produttiva da ben 1.000 MW a 220 MW (peraltro al momento quasi tutta ancora sulla carta, come riporta il giornale The Hindu del 19 novembre 2024) e la perdita del 90% dei posti di lavoro. Non c’è da meravigliarsi allora della crescente acredine nutrita dalle popolazioni del Sud del mondo nei confronti dell’Occidente.

Vulnerabilità dei paesi più deboli ai cambiamenti climatici

Abituati come siamo a considerare i problemi sulla base di quanto abbiamo direttamente affrontato, ci è difficile comprendere quanto il cambiamento climatico colpisca in modo più severo quanti sono più deboli di noi.

A volte la debolezza è causata da fattori geografici (si pensi ai piccoli stati insulari) dove il crescere del livello del mare compromette la qualità delle acque rendendole salmastre e copre i territori (come nelle isole di origine corallina, prive dei rilievi che invece caratterizzano quelle di origine vulcanica) giungendo a porre in dubbio la stessa sopravvivenza quali stati sovrani (essendo il territorio uno degli elementi costitutivi degli stati). La stessa collocazione a determinate latitudini espone in maggior misura certi stati (si pesi a Vanuatu ma anche a Porto Rico che stato non è) ai danni dei cicloni che moltiplicano sempre più la propria forza.

Il riscaldamento progressivo che sta già colpendo la nostra Sicilia, nei prossimi anni renderà inabitabili zone già calde come molti stati africani (una prospettiva questa che renderà i migranti climatici la vera priorità da affrontare).

Spesso, però, è la debolezza economica che rende il cambiamento climatico più dannoso, dal momento che non si hanno risorse sufficienti per adottare azioni di adattamento (quali ad esempio la protezione dei bacini idrici dalla contaminazione del mare o la creazione di barriere protettive dall’innalzamento delle acque) o di riparare i danni una volta subiti.

E questo ultimo aspetto forse è il più grave.

Per quanto la devastazione che ha subito Valencia sia stata enorme, nessuno dubita, infatti, che la Spagna saprà reagire, così come sta facendo l’Emilia Romagna; non è lo stesso per gli altri territori che sono stati colpiti nelle isole dell’Oceano Pacifico: lì la capacità di reazione è ridotta ed incapace di rispondere adeguatamente al reiterarsi degli eventi.

La finanza climatica e le sue controversie

Se si pensa a quanto sopra è chiaro che l’intervento degli stati più sviluppati (e che hanno contribuito in modo rilevante al cambiamento climatico la cui causa è antropica) è fondamentale e che esso sia stato oggetto delle più accese discussioni nella capitale azzera.

Il risultato raggiunto in extremis appare un compromesso, non solo in termini di dotazione (300 miliardi di dollari USA) ma anche per la sostanziale non definizione delle modalità d’intervento da parte dei paesi più sviluppati e delle banche multilaterali; è infatti chiaro che non sono equiparabili concessioni a fondo perduto e prestiti che invece devono essere restituiti e, sul punto, almeno al momento, non sembra che sia emersa una linea chiara.

Altro aspetto da non dimenticare, è che il finanziamento del fondo grava solo sui paesi sviluppati, mentre paesi quali la Cina e l’India non sono tenuti a parteciparvi, perché considerati paesi in via di sviluppo, ma possono farlo su base volontaria, così sostanzialmente facendo venire meno una rilevante parte della platea di coloro che dovrebbero (e potrebbero) dare supporto.

Guardando al fondo, esso rappresenta inoltre un risultato importante in termini assoluti, ma assai distante dalla richiesta dei paesi meno sviluppati, che avevano chiesto 1.300 miliardi di dollari l’anno, obiettivo che si dovrebbe invece raggiungere – in base agli accordi di Baku – solo nel 2035. Il fatto che esso dovrebbe costituire da catalizzatore per finanziamenti privati raggiungendo la fatidica soglia dei 1.300 miliardi lascia comunque perplessi considerato che si tratterebbe di finanziamenti da concedersi a paesi già pesantemente indebitati.

La difficile coniugazione tra principi e realtà

Il quadro che emerge dalle discussioni intervenute a Baku è complesso e non facile da risolversi se si procede per petizioni di principio e non si superano gli egoismi nazionali.

Le astrazioni, soprattutto, non aiutano a comprendere che vi sono paesi ai quali non si può chiedere il raggiungimento di obiettivi che sono invece a portata di mano degli altri e che la transizione energetica può avere costi in termini di vite e, in senso più ampio, sociali di molto differenziati tra paesi sviluppati e non.

La lotta al cambiamento climatico non può soprassedere dal considerare queste criticità; l’idea della finanza climatica è una strada, ma probabilmente non sufficiente a prescindere dalla relativa entità degli interventi, se i vari interessi e le necessità non sono considerate tutte insieme: diversamente, continueremo a chiedere sacrifici ai più vulnerabili, che coincidono spesso con coloro che non sono responsabili di quanto sta avvenendo.

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