Nel contesto della transizione ecologica, la serra fotovoltaica intelligente rappresenta una delle soluzioni più promettenti per coniugare produzione alimentare, efficienza energetica e rispetto ambientale. L’esperimento condotto a Comiso ne esplora i risultati, dall’analisi della luce fino alla gestione adattiva delle colture.
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Dalle origini filosofiche alle sfide etiche della coltivazione in serra
La nascita delle serre ha stravolto, già dal secolo scorso, le vecchie pratiche di coltivazione, riuscendo a ricreare, in spazi ristretti ed in condizioni climatiche non ottimali, siti coltivativi un tempo inimmaginabili.
I requisiti fondamentali per il ciclo di coltivazione si specchiano in quel principio filosofico che ci ha lasciato Empedocle, secondo cui “Terra, Acqua, Aria e Fuoco (o Luce)” sarebbero stati i quattro elementi fondamentali da cui è composta tutta la materia ma, al tempo stesso, i quattro componenti alla base di qualsiasi processo di coltivazione.
Orbene, se da una parte si è riusciti a bilanciare le dinamiche di approvvigionamento di risorse idriche dedicate alla coltivazione, a determinare la giusta rarefazione dell’aria, a modulare gli apporti energetici necessari al terreno di dimora, più difficile è risultato quel processo di implementazione della componente luce alla base del PAR, quell’acronimo che rimanda alla Photosynthetically Active Radiation, cioè quella parte dello spettro della luce visibile – con lunghezze d’onda tra 400 e 700 nanometri – che le piante utilizzano direttamente per la fotosintesi.
Una sorta di “sale della vita” che fornisce alle piante l’energia necessaria per convertire l’anidride carbonica e l’acqua in nutrimento, ossia in zuccheri e ossigeno.
In questo scenario a metà tra il razionale e l’empirico, bisogna, poi, fare i conti con l’epistemologia ed i metodi della scienza, in un bisticcio bioetico che vuole prima il risultato rispetto alle procedure del metodo; un contesto dove la scelta tra un prodotto OGM o un uovo oggi rispetto a una gallina domani, è dettato dalle regole di mercato e dalle richieste della grande catena di distribuzione, a dispetto di tutta una filiera la cui interruzione o alterazione rischia di compromettere, in modo irreversibile, tutto il sistema.
Uno senario che vede, da una parte, agronomi in conflitto tra esperienza e competenza, che devono fare i conti con la scienza e i numeri statistici dettati da una letteratura alle volte miope o, più semplicemente, partigiana.
E’ stata quella scienza, ad esempio, a distruggere un indotto agricolo che, fino agli anni ’70, aveva visto la produzione mondiale di gelsomino concentrata in un fazzoletto di terra o, di lì a poco, la presunta tossicità di un agrume, che, con il senno del dopo è risultato essere non semplicemente essenziale, come il gelsomino, nella produzione di essenze, ma ricco di polifenoli in grado di contrastare naturalmente il colesterolo.
Lo studio che sarà analizzato più avanti – in questa seconda parte di approfondimento sulle serre intelligenti, ricco di descrizioni applicative pratiche – snocciolerà numeri che la scienza stenta a riconoscere, semplicemente perché intervenire sull’ottimizzazione del PAR con metodiche rivoluzionarie, abbinare a questo best practices di intelligenza artificiale, pensare alla qualità e non soltanto alla quantità del prodotto, interessarsi a tutta la filiera produttiva per mantenere il più elevato rispetto di impatto eco ambientale, utilizzare un modello virtuoso di alimentazione con energie rinnovabili, potrebbe risultare un modello di interesse strategico in grado di mandare in soffitta impolverati nozionismi fatti di statistiche e di analisi comparate a distanza, vuoti di contenuti reali.
Del resto, quando si parla di “luce” non si può non ricordare quell’effetto Hawthorne che aveva dimostrato come – parlando questa volta degli umani – le persone modificano il loro comportamento quando sanno di essere osservate, migliorando le proprie prestazioni o l’aderenza a determinate norme sociali.
E quando non sono sociologi a parlarci della luce, lo fanno gli scrittori, come Italo Calvino nel suo “Marcovaldo”, interrogandosi su quel contrasto tra la “Luna e Gnac”, una metafora rivolta, nel lontano 1963, alle problematiche dell’inquinamento luminoso e all’artificialità della vita moderna.
Questo approfondimento, nel richiamare l’asserzione heideggeriana “La scienza non pensa” è inteso ad illustrare quell’indirizzo filosofico inteso a delineare l’ambito dentro il quale si muove e naviga la scienza, ricercando quei confini che la scienza stessa si impone, scardinando, dove è necessario, stereotipi che devono lasciare spazio a soluzioni bioetiche, ancor pima che eco sostenibili, per un futuro sempre più green.
Ultimo inciso introduttivo riguarda le peculiarità applicative delle soluzioni tecnologiche che ci si appresta a descrivere, in grado di assolvere, anche, ad una funzione strategica per i Governi e per le Entità sovranazionali di ausilio alle c.d. Peace Support Operations in quegli scenari geopolitici critici caratterizzati da elevata insolazione (come, ad esempio, il Mediterraneo, il Medio Oriente o l’Africa settentrionale).
Uno strumento di assistenza alimentare di massa, impiegabile soprattutto nelle operazioni di peace building[1] ma, anche, in quelle fasi antecedenti di peace making[2], di peace keeping[3],e di peace enforcement[4], che sempre più stiamo imparando a conoscere.
Il campo di prova
La sperimentazione si è svolta a Comiso, in provincia di Ragusa, uno dei distretti agricoli più dinamici del Mediterraneo, dove la coltivazione in serra rappresenta una tradizione consolidata. Il test è iniziato il 20 gennaio 2025 e si è protratto per circa 25 settimane, coprendo un intero ciclo colturale invernale-primaverile.
Per valutare in modo concreto l’efficacia del modello, sono state messe a confronto due strutture contigue:
la Serra Archimede, caratterizzata da una copertura fotovoltaica pari al 31% della superficie, progettata per integrare produzione agricola ed energetica;
una serra tradizionale, utilizzata come controllo, priva di pannelli e rappresentativa delle pratiche convenzionali di coltivazione.
All’interno delle due serre è stata coltivata la stessa varietà di pomodoro, il mini-plum cv. Motekino, scelta per la sua diffusione sul mercato e per la sensibilità alla luce, elemento chiave della sperimentazione. L’impianto è stato gestito con identiche pratiche colturali, in modo da isolare quanto più possibile l’effetto della copertura fotovoltaica sullo sviluppo e sulla produttività delle piante.
Capire la luce: il ruolo del PAR
Nelle serre tradizionali, la luce è un fattore spesso dato per scontato: entra o non entra; ma per le piante non è così semplice.
Non tutta la luce solare contribuisce alla fotosintesi: solo una parte dello spettro, compresa tra i 400 e i 700 nanometri, è realmente utilizzabile per la produzione di energia biologica: è la Photosynthetically Active Radiation (PAR), la radiazione fotosinteticamente attiva, cioè la “moneta” con cui la pianta paga il proprio metabolismo.
Misurare la PAR significa andare oltre la semplice luminosità percepita dall’occhio umano. Serve a capire quanta energia realmente disponibile raggiunge le foglie e come questa varia durante la giornata, tra diverse aree della serra e tra differenti condizioni di copertura.
Nelle prime serre fotovoltaiche, l’introduzione dei pannelli aveva posto un problema critico: l’ombreggiamento.
I moduli oscuravano ampie porzioni di tetto, riducendo la luce utile alla fotosintesi e creando forti disomogeneità interne.
Le piante crescevano a macchie, con differenze visibili di vigore e produttività, e spesso i risultati agronomici non giustificavano il beneficio energetico.
La rivoluzione silenziosa della Serra Archimede
Il progetto Serra Archimede nasce proprio per superare questo limite. La sua innovazione non risiede in un pannello “speciale”, ma nella geometria architettonica e nella gestione della luce.
La copertura fotovoltaica, pari al 31%, è stata disposta secondo uno schema studiato per diffondere la luce indiretta e distribuire uniformemente la radiazione PAR su tutta la superficie colturale.
Le inclinazioni e le curvature della struttura sono state ottimizzate per modulare i gradienti luminosi durante le diverse ore del giorno, mentre i materiali traslucidi tra i pannelli agiscono come un vero e proprio “amplificatore” naturale della luce diffusa.
In altre parole, la forma della serra lavora come un sensore continuo: assorbe, riflette e ridistribuisce la radiazione, trasformando le zone d’ombra in luce utile.
La misurazione in campo
Durante il ciclo colturale, la radiazione fotosinteticamente attiva è stata monitorata in più punti della serra, confrontandola con i valori registrati nella struttura di controllo.
Le misurazioni hanno evidenziato una distribuzione omogenea della PAR all’interno della S. A., con differenze trascurabili tra le zone poste sotto i pannelli e quelle in piena luce.
Anche nei momenti di massima intensità solare, l’effetto ombreggiante dei moduli non ha mai comportato riduzioni significative della radiazione utile alle piante.
La diffusione uniforme della luce ha garantito una crescita regolare e un’ottima efficienza fotosintetica, confermata dai parametri produttivi.
Dalla quantità alla qualità della luce
Uno degli aspetti più interessanti emersi è che non conta solo quanta luce arriva alle piante, ma come ci arriva.
La luce diretta può generare surriscaldamenti e stress fotoinibitori, mentre la luce diffusa favorisce una penetrazione più equilibrata nella chioma, stimolando una fotosintesi più efficiente anche negli strati inferiori delle foglie.
La Serra Archimede riesce così a riprodurre una condizione luminosa stabile e morbida, capace di ridurre gli sbalzi termici e migliorare il microclima interno.
La tecnologia, in questo caso, non serve a schermare la natura, ma a dialogare con essa, adattandosi dinamicamente alle sue variazioni.
Dati e risultati
Le analisi comparative tra la Serra Archimede e la serra tradizionale mostrano risultati concreti:
- Produzione complessiva: circa 6200 kg di pomodoro mini-plum in 25 settimane.
- Ripartizione tra le due serre: 51% (Serra Archimede) e 49% (serra tradizionale), quindi senza differenze penalizzanti.
- Qualità: grado Brix medio pari a 4,8, indicativo di un buon equilibrio zuccherino.
Questi valori confermano che l’integrazione fotovoltaica, se gestita attraverso un’architettura intelligente e una corretta analisi della PAR, non compromette la resa colturale.
Al contrario, favorisce un ambiente più equilibrato e sostenibile, in cui luce ed energia coesistono in armonia.
Lettura dei dati: energia più agronomia
L’analisi dei risultati mostra un quadro chiaro: la copertura fotovoltaica al 31% non ha compromesso né la crescita né la produttività delle colture.
Le piante coltivate nella Serra Archimede hanno mantenuto uno sviluppo regolare e un tenore zuccherino costante, segno di una fotosintesi efficiente e stabile nel tempo.
Ma il dato più interessante non è la produttività in sé: è la costanza.
In un contesto colturale controllato, il sistema ha garantito uniformità di resa e di qualità, senza oscillazioni dovute all’ombreggiamento o a variazioni microclimatiche.
È un risultato che, da solo, suggerisce un cambio di paradigma: la luce può essere modulata e condivisa tra pianta e pannello, senza perdite per nessuno.
Questa stabilità, ottenuta senza ricorrere a compensazioni artificiali, dimostra che l’architettura della serra può diventare uno strumento agronomico tanto quanto un impianto energetico.
La S. A. non “produce sotto il sole”, ma lavora con la luce, restituendole una funzione regolata, diffusa e utile.
Oltre la resa: il significato economico ed ecologico
I risultati assumono un peso particolare se letti alla luce delle sfide globali.
Negli ultimi vent’anni, l’agricoltura ha dovuto fare i conti con tre crisi parallele: quella climatica, quella energetica e quella alimentare.
Secondo la FAO, oltre il 40% delle terre coltivabili è oggi esposto a processi di desertificazione o stress idrico.
Allo stesso tempo, la domanda alimentare mondiale continua a crescere, mentre i costi energetici incidono sempre di più sui margini di redditività delle aziende agricole.
In questo scenario, un’infrastruttura capace di produrre energia e cibo nello stesso spazio fisico, senza sacrificare né la resa né la qualità, rappresenta un modello di efficienza sistemica.
Significa ridurre la dipendenza dalla rete elettrica, migliorare l’autonomia energetica delle aziende agricole e, soprattutto, rendere la produzione più resiliente ai cambiamenti climatici.
La possibilità di replicare il modello in aree a elevata insolazione — come il Mediterraneo, il Medio Oriente o l’Africa settentrionale — apre prospettive economiche e sociali di grande rilievo.
In regioni dove la scarsità d’acqua e la povertà dei suoli rendono difficile la coltivazione, una serra fotovoltaica ad alta efficienza luminosa potrebbe diventare non solo una soluzione produttiva, ma un presidio contro la desertificazione: un modo per riportare vita e lavoro in territori oggi marginali.
Verso un’agricoltura intelligente
La fase successiva del progetto segna un passaggio cruciale: l’integrazione tra architettura, agronomia e intelligenza artificiale.
La collaborazione con Pragma Etimos nasce dall’esigenza di far evolvere la serra da struttura passiva a sistema cognitivo, capace di leggere i dati, adattarsi e prendere decisioni autonome.
Nei prossimi sviluppi, saranno introdotti strumenti di intelligenza artificiale generativa, modelli che potremmo definire “agro-neuronali”, perché ispirati al funzionamento delle reti biologiche e alle logiche euristiche proprie del sapere agronomico.
Questi sistemi non si limiteranno a elaborare dati, ma impareranno dalle esperienze e dalle conoscenze degli esperti coinvolti nel progetto, traducendo la sensibilità umana in regole operative digitali.
In questo modo, l’intelligenza artificiale non sostituisce l’esperto: ne prolunga la capacità di osservazione, rendendola continua e scalabile nel tempo.
L’obiettivo è creare un ecosistema auto-adattivo, in grado di anticipare le esigenze della pianta e di ottimizzare le risorse con efficienza predittiva.
In pratica, la serra diventerà un laboratorio vivente in cui il dato energetico e quello biologico dialogano costantemente, costruendo un equilibrio dinamico tra produzione e sostenibilità.
Si passa così dal concetto di smart greenhouse a quello di “adaptive greenhouse”: un ambiente capace di imparare, dove la luce, l’acqua e l’energia si integrano in un flusso continuo di dati e decisioni.
In questa prospettiva, la tecnologia diventa un’estensione naturale dell’intelligenza collettiva: uno strumento capace di apprendere, collaborare e, soprattutto, preservare la centralità dell’uomo nella gestione dell’ambiente agricolo.
Una serra intelligente, dunque, ma non impersonale: una struttura che riconosce nel sapere agronomico il proprio codice sorgente e nell’esperienza umana la sua più autentica forma di intelligenza.
Una nuova alleanza tra luce, tecnologia e vita
La sperimentazione di Comiso ha dimostrato che produrre energia e coltivare non sono attività concorrenti, ma manifestazioni dello stesso principio di equilibrio.
Il modello S. A. mostra che la tecnologia, quando si mette al servizio della biologia, può diventare parte del processo vitale, non un suo antagonista.
In un mondo dove il suolo fertile diminuisce, l’acqua si fa scarsa e l’energia più costosa, innovazioni come questa non sono semplici soluzioni tecniche: sono strategie di sopravvivenza collettiva.
Rendere ogni metro quadrato di superficie agricola capace di generare valore — alimentare, energetico e ambientale — significa affrontare le sfide globali con una visione sistemica e concreta.
La prossima frontiera è dare intelligenza a questa architettura: una serra che percepisce, elabora e reagisce.
Un ambiente dove la luce non si limita a far crescere le piante, ma diventa informazione, energia e conoscenza.
È qui che agronomia e tecnologia si incontrano per dare forma a un nuovo paradigma: un’agricoltura capace di pensare.
E forse, per una volta, di farlo meglio di noi.
Hanno collaborato alla stesura del presente approfondimento Alberto Mangione, Fabrizio Iozzia, Fabio Vincenzo Colacino e Giorgio Rubiu.
Note
[1] Attività successiva ai conflitti con l’obiettivo esclusivo di costruire una pace durevole, anche attraverso paralleli interventi di carattere economico e con la supervisione delle evoluzioni socio-politiche e dei processi elettorali all’interno dei territori interessati al processo di ricostruzione sul territorio.
[2] Un’attività essenzialmente politico-diplomatico, con l’ausilio di strumenti pacifici di negoziato, rivolta a stemperare tensioni in campo internazionale.
[3] attività operativa dinamica, previo accordo delle parti, rivolta a mantenere o ristabilire la pace, manu militari, con l’impiego di forze neutrali rispetto alla contesa, autorizzate a reagire ad atti di violenza solo per legittima difesa e secondo protocolli prestabiliti.
[4] In questo caso le operazioni di intervento militare rivolte al raggiungimento della pace, avverranno in modalità coattiva, anche in assenza di un accordo tra le parti in contesa;










